CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 maggio 2019, n. 14994
Tributi – Importazioni – Dazi – Importo delle royalties dovute dalla società importatrice licenziataria alle imprese licenzianti titolari dei rispettivi marchi – Assoggettamento ai dazi – Esclusione
Fatti di causa
In esito ad attività di controllo sia documentale che ispettiva eseguita ai sensi dell’art. 11 D. Lgs. n. 374/1990 e conclusa con p.v. del 10.07.2012 l’Agenzia delle Dogane, Ufficio di Como procedeva alla revisione delle bollette di accertamento ed emetteva nei confronti della G.C. s.r.I., quale importatrice, e della S. A. s.p.a., in qualità di rapp.te doganale della prima, avviso di rettifica N. 24095 RU/2014 e provvedimento di irrogazione sanzioni N. 275100-143-2014, con i quali veniva contestata, per l’anno 2011, la mancata inclusione nel valore delle merci (articoli di cancelleria, oggetti da regalo e similari), acquistate da produttori operanti in paesi extra UE (Repubblica Popolare Cinese), dell’importo delle royalties dovute dalla società importatrice licenziataria alle imprese licenzianti titolari dei rispettivi marchi (N.F. s.n.c. per il marchio “A.G.”, T.T.L. Company Ltd per il marchio “L.”, R. s.p.a. per il marchio “W.”, T.W.D. Company Italia s.r.l. per i marchi “S.N.” ed altri, H.D.M. Company Inc. per il marchio “H.D.”, BRFL Italia s.r.l. per il marchio “G.” ed altri), con conseguente applicazione delle sanzioni ex art. 303 co. 3° TULD.
La CTP di Como accogliendo i ricorsi proposti dalla G.C. e dalla sua rappresentante doganale, confermava l’avviso di rettifica ed il provvedimento di irrogazione sanzioni. La decisione è stata poi riformata, in seguito ad appello proposto dalle Società contribuenti, dalla CTR della Lombardia con la sentenza oggetto del presente giudizio. In particolare i Giudici d’appello, premessa una sintetica ma puntuale disamina delle norme regolatrici della fattispecie negli artt.32 par.1 lett.c e par. 5 lett.b CDC e 143 delle Disposizioni di Applicazione del Codice Doganale Comunitario (d’ora in avanti DAC), anche alla luce della fondamentale definizione di “persona ad esso legata”, hanno poi individuato tale legame soltanto nei “casi in cui un soggetto è in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento nei confronti di un altro soggetto”, fornendo un’esemplificazione casistica di ipotesi di controllo giuridico od economico delle quali l’Agenzia deve fornire adeguata prova. Hanno quindi concluso che “Nel caso di specie non comportano…alcun legame tra produttore e società licenzianti gli accordi finalizzati a tutelare le concedenti da comportamenti illeciti, ovvero eticamente scorretti, dei produttori imponendo il rispetto dei “codici di condotta per fabbricanti” e di normativa di sicurezza sul lavoro, del rispetto dell’ambiente, del corretto utilizzo del marchio e quant’altro, poiché tali accordi costituiscono una legittima cautela per evitare contraffazioni del prodotto che possano nuocere all’immagine del detentore del marchio. Le clausole che si rilevano dai contratti prodotti in giudizio, anche se contemplano la preventiva approvazione da parte del licenziante dei campioni di produzione, dell’imballaggio, del materiale pubblicitario, delle idee creative e quant’altro, rientrano nella normale attività di garanzia della qualità dei prodotti a salvaguardia del marchio non appaiono sufficienti a dimostrare… un legame inscindibile tra licenziante e produttore né l’esistenza di un vero e proprio controllo operativo; essi trovano giustificazione nella.., finalità di prevenire eventuali inosservanze degli standard qualitativi…”.
Ad integrare l’insussistenza di uno dei due presupposti di assoggettabilità a dazio delle royalties, aggiungono poi che l’espressa pattuizione contrattuale parametra il computo dei diritti di licenza al fatturato di vendita da parte dell’importatore e non già al prezzo delle merci corrisposto al fornitore-produttore, rendendo così di fatto impossibile una quantificazione della base imponibile al momento dell’importazione.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre per cassazione sulla base di unico motivo.
Si sono costituiti sia il Fallimento C. s.p.a. che la D.S.V. s.p.a. notificando autonomi controricorsi.
Ragioni della decisione
L’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione ex art.360 co.1° n.3 c.p.c. degli artt.29 e 32 Reg. CEE n.2913/1992 nonché degli artt.160-143 Reg. CEE n.2454/1993, nonché dell’art.1362 segg. c.c.: ricostruito brevemente il richiamato tessuto normativo, trascrive pressochè per intero il motivo d’appello nel quale sono elencate una serie di clausole di alcuni contratti di licenza, che il Giudice di primo grado, così come la CTR, avrebbero del tutto ignorato, dai quali dovrebbe indefettibilmente dedursi l’esistenza di un rapporto di controllo indiretto della licenziante sulla produttrice estera tale da costituire una condizione di vendita delle merci ai sensi dell’art.157 DAC; rilevando che la licenziataria sarebbe obbligata, insieme al produttore-venditore estero, ad uniformarsi al codice di condotta ed alle altre regole imposte dalle varie licenzianti. In particolare la difesa erariale evidenzia che tutte le licenzianti hanno facoltà di conoscere, e talvolta di approvare preventivamente, i produttori delle merci da importare; che, essendo la società venditrice estera (C. HK Ltd.) società interamente controllata dalla licenziataria, i vincoli scaturenti dal contratto di licenza si riverserebbero direttamente sul rapporto tra venditore estero ed importatore licenziatario; infine che, in virtù di clausole contenute in tutti i contratti di licenza che impongono ai produttori la sottoscrizione di contratti standard approvati dalla licenziante, ogni ipotesi di inadempimento della licenziataria che comportasse la risoluzione del contratto di licenza determinerebbe altresì la risoluzione del contratto tra questa ed il venditore-produttore.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che la questione giuridica circa l’interpretazione da dare alle norme comunitarie, la cui corretta applicazione viene invocata dalla ricorrente Agenzia (almeno secondo la nominale intestazione del motivo), è stata affrontata da questa Corte con la nota pronuncia di Cass. sez.V 6.04.2018 n.8473 nella quale, in consonanza con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE (in particolare sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dijsseldorf), è stato affermato il seguente principio di diritto: “In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza“. A tale principio, al quale la Corte intende dare continuità, si è attenuta anche la CTR, che li ha ordinatamente e puntualmente, ancorchè sinteticamente, enucleati nelle pagg.2-3 della sentenza impugnata.
Orbene, come puntualmente rilevato dalla difesa delle controricorrenti, il ricorso in punto di violazione dei principi legali di ermeneutica negoziale è formulato mediante elencazione delle clausole del contratto di licenza che sarebbero rivelatrici del controllo indiretto del licenziante sul produttore-venditore delle merci, la riproduzione dei brani della sentenza nei quali sono illustrati gli esiti dell’interpretazione fatta propria dalla CTR e la conclusione che l’iter argomentativo violerebbe i criteri ermeneutici letterale e teleologico imposti negli artt. 1362 e segg. c.c.; senza distinguere, rileva la Corte, per la massima parte delle poche clausole riesaminate, quale dei criteri ermeneutici legali sia stato violato, ricorrendo ad affermazioni generiche che si limitano a prospettare quale ne sarebbe stata, secondo la ricorrente, la lettura corretta; in nessun caso sono indicati i passi o le parole delle singole clausole che sarebbero state erroneamente interpretate e quali sarebbero gli errori di traduzione del significato letterale o di individuazione della finalità comune alle parti che avrebbero determinato la distorsione della valenza semantica della clausola.
Tale metodo di prospettazione della violazione dei canoni ermeneutici legali dei contratti è stato più volte censurato e ritenuto insufficiente da questa Corte, la quale ha rilevato che “La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata ” (Cass. sez.III 28.11.2017 n.28319; nei medesimi termini Cass. sez.I ord. 15.11.2017 n.27136; Cass. sez.L 15.11.2013 n.25728; Cass. sez.L 24.01.2008 n.1582); così che “il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati” (Cass. sez. III ord. 10.05.2018 n.11254; Cass. sez. III 10.02.2015 n.2465; Cass. sez.III 13.02.2002 n.2074). Tali indirizzi (che hanno trovato applicazione anche in riferimento al vizio di violazione di legge più in generale – cfr. Cass. sez.I 29.11.2016 n.24298; Cass. ord. Sez.VI-V 15.01.2015 n.635) sono conseguenza del rilievo che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (Cass. sez.I ord. 5.02.2019 n.3240); e poiché nella specie l’Agenzia ricorrente non ha indicato neppure sotto quale aspetto le norme regolanti in concreto i criteri di identificazione della base di computo delle imposte doganali sarebbero state violate (cioè non è stata dedotta l’erroneità della ricognizione pur esplicitamente effettuata nella sentenza della CTR), il ricorso per violazione delle medesime deve considerarsi inammissibile.
La censura sopra riassunta appare piuttosto introdurre (anche se mediante la riproduzione del motivo d’appello, articolato come motivo in diritto) un errore di sussunzione della fattispecie concreta nell’ambito applicativo della normativa comunitaria in tema di quantificazione della base imponibile dell’imposta doganale, nel senso di denunciarne una pretesa erronea applicazione per aver escluso che le clausole contrattuali conclamassero un’ipotesi di controllo indiretto del licenziante sul produttore e/o venditore estero (c.d. terzista).
In proposito le controricorrenti hanno sollevato eccezioni di inammissibilità del motivo, sulla tesi che esso riproporrebbe surrettiziamente una censura attinente alla ricognizione del fatto operata dai giudici di merito, per di più in un giudizio nel quale si erano susseguite due pronunce conformi; ma ritiene questa Corte che le eccezioni non colgano nel segno. Va ricordato in via di principio che presupposto essenziale per la deducibilità della falsa applicazione è che tra le parti non sia controverso l’accertamento in fatto operato dai giudici di merito in ordine alla ricostruzione della fattispecie concreta (Cass. sez.III ord. 13.03.2018 n.6035), poiché “Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità” (Cass. sez.I ord. 14.01.2019 n.640). Tuttavia ciò che nella specie il motivo propone, nella prospettiva di una falsa applicazione delle norme evocate, non è la ricostruzione della fattispecie concreta in termini difformi da quelli definiti nella sentenza della CTR (invero non si offre delle clausole alcuna interpretazione alternativa), bensì la puntuale riconducibilità del complesso di clausole del contratto di licenza, esaminate e sottoposte all’attenzione della Corte siccome non adeguatamente considerate dai Giudici di merito, al concetto di controllo indiretto o di fatto postulato dalla normativa comunitaria che integra l’essenziale presupposto di tassabilità delle merci oggetto d’importazione; cioè proprio quel giudizio (sintetico a posteriori) di corrispondenza tra fattispecie concreta come accertata e comunque incontroversa e fattispecie astratta descritta dalla norma.
In altri termini, anche se la ricorrente sembra enunciare un errore di interpretazione delle clausole, nel corpo del motivo intende richiederne una diversa lettura in termini di incidenza complessiva nel rapporto economico licenziante-produttore, alla luce dei parametri di sintomaticità, integrativi delle suddette disposizioni comunitarie, contenuti nelle istruzioni e commenti TAXUD; diversa lettura che, appunto, non comporta una rivalutazione del fatto, ma la verifica della sua sussumibilità nella previsione astratta della normativa invocata, mediante la verifica del risultato del processo logico di confronto della lettura coordinata dell’efficacia del complesso testo contrattuale con una o più delle possibili ipotesi di controllo divisate dal complesso normativo che si assume violato, attraverso la semplice prospettazione di una valutazione alternativa dell’efficacia pratica delle stesse clausole sul rapporto licenziante-fabbricante.
Ciò premesso, anche sotto tale profilo la censura è infondata.
Infatti, nonostante l’Agenzia ricorrente abbia tassativamente affermato che “Per come si rileva dalle diverse clausole contrattuali riassunte nel p.v.c. presupposto, in tutti i casi che interessano il presente procedimento è pacifica la possibilità, per il Licenziante, di controllare la produzione, secondo quanto previsto dal punto c) della Circolare” n.21/D dell’Agenzia delle Dogane, di pressochè tutte le clausole del contratto di licenza delle quali lamenta l’inadeguata valutazione, o non è totalmente chiarita l’illustrazione dell’idoneità, tutt’altro che evidente, ad influenzare il rapporto di controllo del licenziante sui singoli produttori-venditori, trattandosi di clausole che vincolano il licenziatario a garantire, sia per il caso di produzione diretta che in subappalto, la rispondenza dei prodotti agli elevati standards qualitativi costituenti l’elemento distintivo del marchio, il rispetto dei codici di condotta a tutela dell’onorabilità del marchio medesimo e del suo titolare, e l’esperienza e capacità dei produttori in quanto funzionali ad ottenere i risultati qualitativi attesi; o non sono adeguatamente illustrate, nel complessivo contesto negoziale, le ragioni che dovrebbero indurre a superare i dubbi valutativi. Infatti le clausole medesime di significato più pregnante (par.17 e par.13 del contratto relativo al marchio “H.K.”, punti 6.2 e 6.3 dell’Accordo del Fabbricante allegato al contratto relativo al marchio “L.”, art.22 del contratto per il marchio “Il M.diP.”), specificamente invocate dalla ricorrente come emblematiche, possono essere intese soltanto come finalizzate, all’esito del rapporto produttivo, alla tutela a favore della licenziante dei diritti di licenza, attraverso l’attuazione di un divieto di illecita produzione e circolazione di prodotti o strumenti di produzione, non più autorizzati, che potrebbero ingenerare confusione sul mercato; in linea con le ordinarie conseguenze che scaturiscono da qualsivoglia ipotesi di risoluzione o scioglimento del rapporto contrattuale, senza che le stesse possano di per sé incidere, neppure indirettamente, sull’autonomia delle scelte organizzative ed operative del produttore-venditore extra-comunitario. Per il resto deve evidenziarsi come in relazione alla maggior parte dei singoli contratti di licenza, pur evocati, la difesa erariale non riporta alcuna clausola idonea a dimostrare la dedotta capacità di controllo delle singole licenzianti sui produttori esteri nel senso indicato dall’invocata normativa comunitaria alla luce delle direttive contenute nel punto 11 del Commento TAXUD.
Riassumendo, nessuna delle richiamate clausole essendo da sola indicatrice del sostenuto controllo del licenziante sul contractor estero, è evidente che la censura, così come articolata, ancorchè non diretta a censurare il processo interpretativo delle singole clausole, risulti priva di adeguato fondamento.
Infatti, esclusa la sussistenza di qualsiasi tipologia di controllo diretto (giuridico o economico), la ricorrente ipotizza la sussistenza di un controllo indiretto di natura contrattuale, che dovrebbe realizzarsi, in assenza di diversi dedotti strumenti, attraverso i condizionamenti imposti al produttore-venditore straniero dal contratto di licenza tra licenziante e licenziatario. In realtà tutte le clausole di controllo sul prodotto finito realizzano un controllo a posteriori sull’attività del produttore, che lascia ricadere (per esplicita previsione) sulla licenziataria il rischio dell’eventuale inidoneità della merce a soddisfare i requisiti qualitativi richiesti dal marchio, come normalmente avviene nell’esecuzione di ogni contratto di appalto; il tutto a riprova che il controllo, anche qualitativo, non si realizza nel corso del ciclo produttivo medesimo, lasciandone pienamente responsabile il terzista estero nei confronti della licenziataria e questa verso la licenziante, secondo gli ordinari canoni della responsabilità contrattuale. Peraltro neppure la circostanza che la venditrice estera (C. HK Ltd.) fosse interamente controllata dalla importatrice licenziataria G.C. s.r.l. può condizionare sostanzialmente l’applicazione alla fattispecie dello schema giuridico correttamente individuato dai Giudici dell’appello. Invero tale controllo se possibile aumenta l’indipendenza del produttore dalle licenzianti, interponendo uno schermo ulteriore, riconducibile alla licenziataria e quindi autonomo dalle licenzianti, nella catena di rapporti giuridici che separano, di fatto, queste ultime dai produttori esteri dei singoli prodotti.
Infine, dovendosi escludere, in difetto di specifiche allegazioni e prove, che la licenziataria sia a sua volta dipendente o controllata dalla licenziante, il controllo contrattuale, per dar luogo alla condizione di vendita, dovrebbe condizionare il terzo produttore, secondo i principi enunciati nelle note sentenze del c.d. caso P., “sulla scelta del produttore e sulla sua attività” e deve essere “il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza”; laddove in nessuno dei molteplici contratti esiste alcuna tipologia di controllo preventivo diretto o indiretto nella scelta del subappaltatore straniero, né sul ciclo di realizzazione dei prodotti (obblighi nella scelta dei fornitori o della manodopera, individuazione di specifiche aree geografiche di produzione, condizionamento nell’uso di specifiche metodiche di produzione ecc.); né tanto meno è previsto che il produttore sia il destinatario delle royalties o sia legittimato a richiederne il pagamento per conto della licenziante.
Pertanto il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna l’Agenzia alla rifusione delle spese che liquida, quanto al Fallimento G.C. s.r.I., in €.5.300,00 e quanto alla D.S.V. s.p.a. in €.4.100,00, oltre IVA e CPA come per legge.