CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 marzo 2022, n. 10517
Licenziamento collettivo – Cessazione dell’attività aziendale – Mera ristrutturazione aziendale – Diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria
Rilevato che
1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 1535 del 23.9.2019, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto la nullità del licenziamento intimato da C. Spa a M. M. il 3.11.2014, ossia entro l’anno dalle pubblicazioni di matrimonio e condannato A.-Società Aerea Italiana Spa, in qualità di cessionaria del compendio aziendale, a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro.
2. In estrema sintesi, la Corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento della M., intervenuto in periodo protetto, doveva ritenersi nullo in quanto l’esame degli atti che avevano preceduto il licenziamento collettivo del personale dimostravano che non si era trattato di cessazione dell’attività aziendale (ipotesi di mancata operatività della protezione prevista dall’art 35, comma 5, del d.lgs. n. 198 del 2006) bensì di mera ristrutturazione aziendale; annullato il licenziamento e ricostituito ex tunc il rapporto di lavoro con l’impresa cedente, il contratto doveva proseguire con l’impresa cessionaria S.A.I., non essendo opponibile da parte di quest’ultima l’esclusione prevista dall’accordo di cessione di azienda per i lavoratori non facenti parte dell’elenco dei lavoratori trasferiti, pur in presenza di uno stato di crisi aziendale, e ciò in forza dell’interpretazione dell’art. 47, comma 4 bis, della legge n. 428 del 1990 in senso conforme al diritto dell’Unione, nel senso che l’accordo sindacale ivi previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi prima C. Spa con quattro motivi e poi A. S.A.I. Spa in amministrazione straordinaria, con due motivi; ha resistito con controricorso la lavoratrice. Tutte le parti hanno comunicato memorie.
Considerato che
1. Con il primo ed il secondo motivo del ricorso principale C. si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, 118 disp.att. cod.proc.civ., 111 Cost. nonché dell’art. 35, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 198 del 2006 avendo erroneamente, la Corte territoriale, escluso l’ipotesi di una cessazione dell’attività aziendale e dichiarato la nullità del licenziamento della dipendente M., non tenendo conto di dati del tutto pacifici che confutano tale prospettazione (essendo stato ritirato, al momento del licenziamento, il COA-Certificato Operatore Aeronautico, non potendo, dunque, la società svolgere attività di volo) e fornendo una motivazione generica e per relationem, senza indicazione di un proprio autonomo convincimento.
2. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 cod.proc.civ. e 118 disp.att. cod.proc.civ. per genericità della motivazione e motivazione per relationem in ordine alla inopponibilità ai lavoratori degli accordi ex art. 47, comma 4 bis, della L.n. 428 del 1990 e con il quarto motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, nonchè degli accordi collettivi” intervenuti nell’ambito di una situazione di crisi aziendale in deroga all’art. 2112 cod.civ.: il motivo investe l’interpretazione e la portata applicativa della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis, introdotto dall’art. 19-quater del D.L. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità Europee), conv. in L. 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee l’11 giugno 2009 nella causa C561/07”, la quale aveva affermato che, con la L. n. 428 del 1990, art. 47, commi 5 e 6, la “Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva” 2001/23/CE.
3. Con il primo motivo del ricorso S.A.I., da qualificare come incidentale, si sollevano le medesime censure di cui al terzo motivo C. innanzi illustrato e con il secondo motivo si propongono le medesime censure di cui al quarto motivo C. in ordine all’interpretazione e alla portata applicativa della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis. 4. Sono inammissibili il primo ed il secondo motivo del ricorso principale C. con cui si deduce, apparentemente, una violazione di norme di legge (art. 35, comma 5 d.lgs. n. 198 del 2006) mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito in ordine a tutta la vicenda successoria che ha interessato l’azienda, atteso che in tal modo si consentirebbe la surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017). Inoltre, la nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 cod.proc.civ., è prospettabile quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto. In particolare, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, cod.proc.civ. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cfr. Cass. n. 3819 del 2020), non essendo più ammissibili, a seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ. (disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata (Cass. n. 23940 del 2017). Nella specie, la Corte distrettuale, alla luce della disamina di tutte le circostanze concrete che hanno caratterizzato la complessa procedura di cessione del compendio aziendale da C. a S.A.I., ha motivato, in ordine alla esclusione della ricorrenza di una cessazione dell’attività aziendale, e il dovere costituzionale di motivazione risulta correttamente adempiuto, seppur per relationem, avendo – la sentenza impugnata – trascritto la parte rilevante del provvedimento intervenuto sulla stessa vicenda e su questioni analoghe, in ossequio al principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, principio che giustifica la mancata ripetizione delle argomentazioni di un orientamento giurisprudenziale, ove condivise dal giudicante e non combattute dal litigante con argomenti nuovi (in tal senso, da ultimo, Cass., n. 13708 del 2015).
5. Tutti i restanti motivi (terzo e quarto C. e primo e secondo S.A.I.), congiuntamente esaminabili per connessione, non possono trovare accoglimento sulla scorta di quanto già statuito da questa Corte in Cass. n. 10414 del 2020 (nonché dalle successive conf.: Cass. nn. 10415, 17193, 17194, 17195, 17198, 17199, 17201, 17202 del 2020), qui da intendersi richiamate, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod.proc.civ., e ai cui princìpi il Collegio ritiene di dare continuità, non ravvisando ragioni per discostarsene.
6. Con riguardo all’interpretazione e alla portata applicativa della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis, la censura (di cui al primo motivo C. e al terzo motivo S.A.I.) è infondata perché va condiviso il seguente principio di diritto: “In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c), ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 cod.civ. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”. Invero, la Corte di Giustizia (sent. 11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha affermato che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui alla L. n. 428 del 1990, art. 47, commi 5 e 6, in caso di “crisi aziendale” a norma dell’art. 2, comma 5, lett. c), della L. n. 675 del 1977, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva 2001/23/CE posto che lo stato di crisi aziendale non costituisce in sé motivo economico per riduzione dell’occupazione, né costituisce in sé ragione di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di un’impresa o di parte di essa non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da motivi economici, tecnici o d’organizzazione. La Corte di giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle deroghe alle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della Direttiva, “la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi” (il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa) rispetto alla situazione di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative (rispetto alle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata). Per la prima categoria di imprese – alveo in cui è riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come è pacifico in giudizio e neppure controverso tra le parti – l’art. 5, paragrafo 2, lettera b), così come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23, autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate “le condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la Corte di Giustizia – “senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23”. In base alla statuizione della Corte di Giustizia UE va condotta la lettura delle modifiche apportate alla L. n. 428 del 1990, art. 47 dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, che, con l’art. 19-quater, ha inserito, dopo il comma 4, il seguente comma 4-bis, proprio “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee”. In particolare, il comma 4-bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5 che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE alle regole generali previste negli artt. 3 e 4. Dunque, l’unica lettura coerente dell’art. 47 risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia: nel contesto del comma 5 dell’art. 47, in caso di trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso, il principio generale è (per i lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle tutele di cui all’art. 2112 cod.civ., salvo che l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola è dunque l’inapplicabilità, salvo deroghe; al contrario, nel comma 4-bis la regola è di ordine positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non può avere un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti – rispetto al comma 5, se non contraddicendo la ratio sottesa alla diversità testuale delle previsioni. Insomma, il comma 4-bis dell’art. 47 ammette solo modifiche, eventualmente anche in peius, all’assetto economico-normativo in precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa cessionaria. Da ultimo va notato che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n. 155”; G.U. n. 38 del 14.2.2019, che entrerà in vigore il 1.9.2021) all’art. 368, comma 4, lett. b), ha disposto la sostituzione dei commi 4-bis e 5, ed ha così più esplicitamente inteso recepire – meglio conformando il futuro dettato normativo – l’unica lettura del comma 4-bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche per il passato, quale unica “interpretazione conforme” al diritto dell’Unione. La Corte di appello con la sentenza impugnata ha adottato una soluzione in linea con l’interpretazione qui accolta e quindi resta immune dalle censure che le sono state mosse.
7. Conclusivamente entrambi i ricorsi delle società devono essere respinti, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. 8. Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale C. Spa e condanna la società al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%; rigetta il ricorso incidentale A. S.A.I. Spa in A.S. e condanna la società al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i ricorsi a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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