CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 ottobre 2019, n. 28107
Rapporto di lavoro – Appropriazione indebita di somme sottratte dalla cassa dell’albergo – Illecito imputabile in concorso a più persone – Responsabilità solidale degli autori
Rilevato
che il Tribunale di Milano, con sentenza 1026 del 2011, per quanto qui rileva, aveva condannato la S.H. al pagamento a J.R. della somma di euro 73249,74 (al tempo stesso condannando anche la R. al pagamento di euro 2000,00 a S.H., in relazione all’appropriazione indebita di somme sottratte dalla cassa dell’albergo;
in particolare le somme risultavano sottratte il 27.2.07 dalla dipendente M., in base ad illecite operazioni sul sistema operativo e successivamente divise tra i colleghi, tra cui pure la R.);
che la Corte di appello di Milano con la sentenza del 10.3.15. ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, determinando in € 7.349,74 la somma dovuta da S.H. s.p.a. a J.R., a titolo di retribuzioni per il mese di marzo 2007, ratei 13.a e 14.a mensilità,
indennità sostitutiva di ferie e permessi non goduti, T.f.r., illegittimamente trattenuta dopo la risoluzione del rapporto per dimissioni rassegnate il 14.3.07;
che a fondamento del decisum, la Corte territoriale ha ritenuto rilevante la deposizione teste L., dalla quale emergeva come il tabulato prodotto, comprovante le operazioni di alterazione delle registrazioni informatiche eseguite, non riportasse i dati identificativi dei lavoratori che avevano eseguito l’accesso informatico, ma solo quelli dei lavoratori in servizio nelle varie giornate in cui sarebbero avvenute le sottrazioni, ricavate dal registro delle presenze, concludendo per l’impossibilità di individuare il nominativo a cui imputare la singola operazione; su tale rilievo, la corte ha perciò addebitato alla R. la sola condotta di appropriazione della somma di euro 2000,00 sulla scorta della deposizione della teste M., che aveva confessato, appunto, la propria condotta del 27.2.07 per la complessiva somma € 8.000,00 poi suddivisa tra colleghi, considerando anche il fatto che la stessa R. era stata assunta successivamente all’inizio di tale prassi fraudolenta;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la S.H. affidato ad un unico motivo, illustrato da successive memorie illustrative; ,
che J.R. ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e 5 cod. proc. civ. la violazione/falsa applicazione degli artt. 1294, 2043, 2055 cod. civ. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in cui sarebbe incorsa la corte di appello allorchè, pur condividendo le affermazioni del giudice di primo grado e quindi ravvisando l’esistenza di un fatto illecito imputabile in concorso a più persone, non ne avrebbe tratto le corrette conseguenze giuridiche escludendo la responsabilità solidale degli autori del fatto che, ove ammessa, avrebbe condotto alla condanna della R. all’intero danno;
che la censura, così formulata, non è accoglibile perché priva di specificità considerato che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
Nel caso di specie, in particolare, pur formalmente deducendo la violazione di legge, la ricorrente non si confronta con la motivazione impugnata, non evidenziando in quali profili la stessa avrebbe errato nella attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, o nell’operazione di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, né tanto meno specifica quali affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte sarebbero contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 31.5.06, n. 12984; Cass. 28.2.12, n. 3010; Cass. 26.6.13, n. 16038), limitandosi a criticare la ricostruzione della vicenda storica operata dalla Corte territoriale, invocando una rivisitazione della medesima non consentita in sede di legittimità;
che risulta, del resto, l’insussistenza, neppure allegata, di un vizio di sussunzione, trattandosi piuttosto della contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale, in particolare delle deposizioni dei testi L. e M., (pagg. 2 e 3 sentenza), con evidente sollecitazione ad una rivisitazione del merito non consentita in sede di legittimità;
– per la stessa ragione appare non configurabile il vizio di motivazione, alla luce del novellato testo dell’art. 306, co. 1, n. 5 c.p.c. come interpretato da questa corte (Cass. s.u. 7.4.14, n. 8053; Cass. 10.2.15, n. 2498; Cass. 21.10.15, n. 21439), poiché la stessa articolazione ed esposizione della censura conduce ad escludere che ci si possa trovare in un caso nel quale il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto decisivo, prospettando, invece, la parte ricorrente una motivazione diversa rispetto a quella argomentata e fondata su una corretta ricostruzione dei fatti, fornita dal giudice di merito.
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile con condanna della ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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