CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza del 3 dicembre 2020, n. 27661
Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Ricorso in cassazione – Censura di erronea ricognizione della fattispecie concreta e di una inadeguata valutazione, da parte del giudice d’appello, delle risultanze di causa – Inammissibilità
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva accolto il ricorso della società V.F. s.r.l. avverso l’avviso di accertamento emesso ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, relativo all’anno 2005, con il quale era stato rideterminato il reddito della società ai fini IRAP e IRES.
2. L’atto impositivo traeva origine da una verifica nel corso della quale era stato rilevato che il «conto futuro aumento capitale sociale» era stato movimentato nel corso dell’anno d’imposta 2005 con versamenti effettuati da parte dei soci A.V. e A.V., che, secondo la ricostruzione operata dall’Ufficio, costituivano ricavi non contabilizzati in ragione dei redditi irrisori dichiarati dai soci.
3. La Commissione tributaria regionale respingeva l’appello sul rilievo che la presunzione di maggior reddito su cui poggiava l’avviso di accertamento non teneva conto della documentazione contraria prodotta dalla società contribuente, dalla quale emergeva che a seguito del fallimento la V.M. s.r.I., ritornata in bonis per assenza di passivo, aveva continuato ad operare ricavando ulteriori utili che erano stati movimentati negli anni 2004 e 2005 in favore della V.F. s.r.I., sia direttamente con versamenti sul suo conto corrente, sia indirettamente con versamenti ai soci che li avevano poi fatti confluire nelle casse della V.F. s.r.I., «in forza dell’obbligo assunto di effettuare versamenti in conto capitale per euro 921.875,00, avendo presentato domanda di agevolazione finanziaria relativamente a nuovi investimenti per euro 1.520.000,00».
Poiché i redditi conseguiti dalla V.M. s.r.l. avevano consentito ai soci di avere la disponibilità di somme rilevanti utilizzate per l’aumento del capitale sociale della V.F. s.r.I., doveva escludersi la presunzione che i redditi irrisori dichiarati dai soci fossero sintomatici dell’esistenza di utili in nero prodotti dalla società contribuente e da questa non contabilizzati.
4. Ricorre per la cassazione della sentenza d’appello l’Agenzia delle entrate, con un unico motivo, cui resiste la contribuente mediante controricorso.
Considerato che
1. Con l’unico motivo la difesa erariale denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 2697 cod. civ. e sostiene che la contribuente non è stata in grado di fornire adeguata giustificazione documentale delle movimentazioni finanziarie recuperate a tassazione. Dall’esame dei conti di mastro esibiti era stato possibile ricostruire i flussi finanziari immessi nella contabilità sociale mediante i finanziamenti dei soci risalenti già all’anno 2005, ma i redditi dichiarati dai due soci nel corso degli anni non giustificavano la capacità finanziaria dagli stessi dimostrata.
La società si era limitata a dichiarare che le somme provenivano da capitali smobilizzati a seguito della messa in liquidazione della società V.M. s.r.I., ma dai documenti forniti in corso di causa non era dato evincere alcuna identità tra gli importi in uscita dai conti della V.M s.r.l. e quelli in entrata sui conti della V.F. s.r.l.
Lamenta, quindi, che le considerazioni svolte in grado di appello non sono state oggetto di adeguata valutazione da parte della C.T.R., la quale non aveva considerato le indagini effettuate e le risultanze del processo verbale di constatazione dalle quali si evinceva che i finanziamenti ingiustificati dei soci costituivano in realtà corrispettivi non contabilizzati; la incapienza dei redditi dei singoli soci a finanziare il capitale sociale costituiva in realtà presunzione legittimante il ricorso all’accertamento in capo alla società di ricavi occultati.
2. La censura è inammissibile.
La ricorrente assume la violazione delle norme indicate in rubrica, ma in realtà si duole di una erronea ricognizione della fattispecie concreta e di una inadeguata valutazione, da parte del giudice d’appello, delle risultanze di causa. Infatti, l’Agenzia delle entrate, omettendo di trascrivere, localizzare o altrimenti allegare le deduzioni difensive svolte in grado di appello ed il contenuto dei documenti prodotti dalla contribuente, in violazione del principio di autosufficienza, sostiene che la società non sarebbe stata in grado di fornire giustificazione delle movimentazioni finanziarie recuperate a tassazione e che i redditi esigui dei soci non giustificano i finanziamenti effettuati in favore della società e fanno presumere che essi nascondano corrispettivi non contabilizzati.
La ricostruzione della vicenda in esame, ribadita anche in questa sede dalla ricorrente, contrasta nettamente con quanto ritenuto dalla Commissione regionale, la quale, con apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, ha, al contrario, affermato che la documentazione allegata dalla contribuente è sufficiente a superare la presunzione di maggiori ricavi contestata dall’Amministrazione finanziaria.
Infatti, a fronte del rilievo dell’Ufficio secondo cui i versamenti effettuati dai soci in favore della società, non trovando giustificazione nelle loro disponibilità, erano da ricondurre presuntivamente a ricavi o, comunque, ad operazioni imponibili non contabilizzate dalla V.F. s.r.I., i giudici di appello hanno, al contrario, ritenuto che quest’ultima, mediante la documentazione prodotta, abbia dimostrato la provenienza delle somme utilizzate dai soci per finanziare la società e giustificato, conseguentemente, la disponibilità di somme così ingenti.
In particolare, nella decisione impugnata è stato posto in rilievo che i soci della V.F. s.r.I., A.V. e A.V., rivestendo in quel periodo anche la qualità di soci della V.M. s.r.l., dichiarata fallita e poi tornata in bonis, avevano ottenuto da quest’ultima somme che avevano poi fatto confluire, mediante versamenti, nelle casse della società V.F. s.r.I., in adempimento dell’obbligo assunto di effettuare versamenti in conto capitale per euro 921.875,00, avendo presentato domanda di agevolazione finanziaria; la provvista finanziaria proveniente dalla V.M. s.r.I., secondo i giudici regionali, consentiva di ritenere superata la presunzione che i redditi irrisori dichiarati dai soci celassero utili in nero prodotti dalla V.F. s.r.l. e da questa non contabilizzati.
Con la doglianza in esame la ricorrente richiede, in realtà, una revisione del ragionamento posto dal giudice d’appello a fondamento della decisione e sollecita una riesame dell’iter logico seguito dai giudici di secondo grado – pur facendo apparire il motivo come fondato su una violazione di legge – al fine di ottenere una nuova e diversa valutazione di merito che avrebbe potuto esser fatta valere ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nei limiti consentiti dalla formulazione temporalmente applicabile.
Infatti, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea cognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass., sez. 6-2, 12/10/2017, n. 24054); in particolare, il discrimen tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa ( cfr. Cass., sez. L, 26/03/2010, n. 7394; Cass., sez. L, 10/07/2015, n. 14468, nonché Cass. n. 24054 del 2017, cit.).
3. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
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