Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria n. 7425 depositata il 14 marzo 2023
azione dell’interesse ad agire – società estinta – ex soci – art. 2495, comma 2, cod. civ. ed art. 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973
FATTI DI CAUSA
1. La Commissione tributaria provinciale di Treviso, con la sentenza 219/03/2014, depositata in data 12 marzo 2014, aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla S.A. s.r.l. in liquidazione, società esercente il commercio di parti ed accessori di autoveicoli, avverso l’avviso d’accertamento alla stessa notificato per l’anno d’imposta 2006, non avendo la predetta società presentato il Modello Unico SC 2007, pur essendovi tenuta a mente degli artt. 2 e 8 del d.P.R. n. 322/1998 ed avendo omesso, dal 2006 in poi, di presentare le dichiarazioni dei redditi e dal 2007 di presentare il Modello IVA (ad esclusione dell’anno 2012). In particolare, i giudici di primo grado avevano rideterminato la pretesa impositiva, annullando il reddito accertato della società e riconoscendo dovuta l’imposta IVA rideterminata nella somma di euro 24.921,40.
2. L’Ufficio, in data 29 ottobre 2014, aveva proposto appello avverso tale decisione, chiamando in giudizio gli ex soci della S.A. s.r.l., Z.P., Z.R. e Z.A., in quanto la società in data 9 giugno 2014 veniva cancellata dal Registro delle Imprese di Treviso.
3. La Commissione tributaria regionale, adita dall’Agenzia delle Entrate, ha accolto l’appello dell’Ufficio e in totale riforma della decisione impugnata, ha confermato l’avviso d’accertamento notificato alla S.A. s.r.l..
4. I giudici di secondo grado hanno svolto le seguenti considerazioni:
-) l’Agenzia delle Entrate correttamente aveva chiamato in giudizio gli ex soci della società, cancellata dal registro delle imprese nelle more del giudizio e nei confronti della quale era stato emesso l’atto impositivo di cui si discuteva;
-) considerato il fenomeno di tipo successorio che con la ricordata cancellazione della società si era venuto a creare, la notifica del ricorso non poteva che essere fatta agli ex soci, che avevano assunto, a tal fine, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva a mente dell’art. 110 cod. proc. civ. e, conseguentemente, erano divenuti parti a tutti gli effetti del processo, ancorché estranei al precedente grado dello stesso;
-) non poteva, quindi, ritenersi che gli odierni appellati fossero stati privati del proprio diritto alla difesa, così come dagli stessi lamentato;
-) considerato, poi, che l’oggetto del presente giudizio riguardava unicamente l’avviso d’accertamento notificato alla S.A. s.r.l. relativo all’anno d’imposta 2006, le ulteriori questioni che i sig.ri Z. avevano sollevato circa i limiti della loro responsabilità diretta per il pagamento delle somme derivanti da detto avviso d’accertamento non potevano essere oggetto di decisione esulando dalla materia del contendere, in quanto tali problematiche avrebbero potuto essere trattate, se del caso, in altra sede e con un diverso giudizio;
-) nel merito, per quanto atteneva la ripresa IRAP era da sottolineare come la difesa svolta dalla parte contribuente risultava assolutamente vaga, non chiarendo le ragioni secondo cui la ricostruzione fatta dall’Agenzia della produzione netta della società risultava «troppo grossolana», considerato che, nell’effettuare tale conteggio l’Ufficio aveva rigorosamente applicato quanto previsto dall’art. 5 del decreto legislativo n. 446 del 1997;
-) in relazione alla ripresa a tassazione delle somme ai fini IRES, annullata dai primi Giudici perché ritenuta di fatto compensata con le asserite perdite pregresse, la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, così come era avvenuto nel caso in esame, impediva al contribuente di esercitare la facoltà di avvalersi della deduzione delle perdite fiscali pregresse, posto che tale opzione integrava l’esercizio di un potere discrezionale di scelta nell’an e del quantum riconducibile ad una tipica manifestazione di autonomia negoziale del soggetto che era diretta ad incidere sull’obbligazione tributaria e sul conseguente effetto vincolante di assoggettamento all’imposta;
-) la società ricorrente non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi, omettendo così di manifestare la propria volontà in ordine alla deduzione o meno delle perdite pregresse e l’Ufficio, dunque, correttamente non aveva tenuto conto di tali perdite al fine di una eventuale compensazione.
5. Z.P., Z.R. e Z.A. hanno proposto ricorso per cassazione con atto affidato a undici motivi.
6. L’Agenzia delle Entrate si è costituita al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ..
7. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso limitatamente ai motivi sette, otto, nove e dieci, rigettati i restanti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo mezzo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli 100 cod. proc. civ. e 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.. Eccezione di carenza di interesse ad agire dell’Ufficio. La Commissione tributaria regionale aveva erroneamente omesso di dichiarare (anche d’ufficio) l’inammissibilità per carenza d’interesse ad agire dell’appello proposto dall’Ufficio direttamente nei confronti degli ex soci a seguito dell’estinzione della società intervenuta dopo la decisione di primo grado, resa evidente dal fatto che la compensazione tra il credito erariale verso la società (di cui si era chiesto l’accertamento definitivo in appello) ed il controcredito vantato dalla società per rimborso IVA, che aveva costituito l’unico e deliberato motivo che aveva indotto l’Ufficio alla proposizione dell’appello, non poteva, né potrà mai verificarsi in ragione dell’inesistenza del soggetto giuridico (la società) titolare del credito da compensare. A seguito dell’estinzione della società derivante dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, intervenuta già in epoca anteriore alla proposizione dell’appello, non esisteva più, infatti, il soggetto giuridico titolare del controcredito (ma anche del debito d’imposta) da compensare, sì che non poteva certamente ipotizzarsi l’operatività di un istituto, quale è la compensazione, che invece presupponeva naturalmente non solo l’identità, qui del tutto assente, dei soggetti reciprocamente obbligati, ma anche l’esistenza stessa di un soggetto che si poneva come creditore (ma anche debitore) nei confronti del fisco. Né il credito della società verso il fisco si trasmetteva agli ex soci a seguito ed in conseguenza dell’estinzione della società stessa, dal momento che a questi si trasferivano esclusivamente le mere sopravvenienze attive, ovvero i beni ed i crediti diversi dalle mere pretese non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, laddove il credito de quo risultava, invece, compreso nel bilancio di liquidazione della S.A. s.r.l., ove era stato rinvenuto dall’Agenzia delle Entrate. Ad ogni modo, al medesimo risultato sostanziale di conferma della decisione di primo grado si perveniva anche attraverso l’eccezione di carenza di interesse alla proposizione dell’appello in capo all’Ufficio, eccezione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo ed anche in fase di legittimità.
2. Il secondo mezzo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli 110 cod. proc. civ. e 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992 (e dei presupposti art. 2495, comma 2, cod. civ. ed art. 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973) in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.. Eccezione di carenza di legittimazione passiva degli ex soci. La Commissione tributaria regionale aveva erroneamente omesso di dichiarare (anche d’ufficio) l’inammissibilità dell’appello proposto dall’Ufficio direttamente nei confronti degli ex soci a seguito dell’estinzione della società intervenuta dopo la decisione di primo grado per non essere stata contestualmente dimostrata anche la loro personale responsabilità in relazione ai debiti erariali già facenti capo alla società estinta per effetto e nei limiti della riscossione e/o assegnazione a loro favore delle somme e/o dei beni di cui agli artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973 (ed, anzi, pur essendo stato in causa positivamente dimostrato il contrario). La sussistenza delle condizioni poste dalla legge a presupposto della responsabilità degli ex soci integrava una questione di legittimazione processuale passiva degli stessi, sulla quale il giudice era chiamato a pronunciarsi anche d’ufficio. La questione era stata tempestivamente posta dagli ex soci in sede di controdeduzioni d’appello, ovvero in occasione del primo atto difensivo nel quale essi avevano potuto difendersi, sì che essa non poteva certamente essere considerata estranea al thema decidendum; dagli atti di causa era emersa la mancata dimostrazione da parte dell’Ufficio della distribuzione di somme ai soci e la prova, peraltro fornita dallo stesso Ufficio, che non era affatto intervenuta alcuna distribuzione. Anche in questo caso si instava affinché la Corte di Cassazione dichiarasse la carenza di legittimazione passiva degli ex soci, trattandosi di eccezione rilevabile d’ufficio dal Giudice in ogni stato e grado del processo e anche nella fase di legittimità.
3. Il terzo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. Si tratta del medesimo motivo di ricorso che precede, redatto sotto lo specifico profilo di violazione di norme sostanziali. La violazione e/o falsa applicazione di norme sostanziali quali l’art. 2495, comma 2, cod. civ. e l’art. 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973 integrava comunque un error in procedendo, laddove la loro corretta interpretazione ed applicazione costituiva, come nel caso di specie, il presupposto per una corretta applicazione di una norma di rito (l’art. 110 cod. proc. civ.) che si assumeva violata proprio in conseguenza della violazione delle prime. Per converso, le argomentazioni che si erano svolte al secondo motivo dovevano ritenersi per integralmente ritrascritte in questa sede affinché rilevassero sotto lo specifico profilo di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ..
4. Il quarto mezzo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli 100 cod. proc. civ. e dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.. Eccezione di carenza di interesse ad agire dell’Ufficio. Con riferimento all’IRAP, la Commissione tributaria regionale aveva omesso di dichiarare (anche d’ufficio) l’inammissibilità per carenza d’interesse ad agire dell’appello proposto dall’Ufficio, resa evidente dal fatto che l’Ufficio aveva denunciato l’omessa pronuncia da parte della Commissione tributaria provinciale su una domanda che era stata proposta in primo grado dalla società, la quale però era l’unico soggetto a poter eventualmente dolersi dell’omessa pronuncia medesima. Uno dei motivi del ricorso d’appello dell’Ufficio riguardava la mancata pronuncia (con conseguente violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.) da parte della Commissione tributaria provinciale di Treviso in merito alla maggior IRAP che l’Ufficio (unitamente alla maggior IRES ed alla maggior IVA) aveva accertato nei confronti della S.A. s.r.l. con l’avviso di accertamento impugnato, poi annullato dai Giudici di primo grado nella sua integralità. La doglianza doveva essere dichiarata inammissibile dalla Commissione tributaria regionale, anche in questo caso eventualmente d’ufficio, per evidente carenza di interesse (art. 100 cod. proc. civ.), essendo evidente che era solo la parte che aveva svolto in giudizio una determinata domanda a potersi eventualmente dolere dell’omessa pronuncia in merito alla stessa da parte del Giudice.
5. Il quinto mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli 4, 5, 11, 16 e 32 del d.P.R. n. 446/1997 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. Con riferimento all’IRAP, la Commissione tributaria regionale aveva erroneamente riconosciuto legittima la pretesa erariale pur essendo stata applicata l’imposta de plano sulla base imponibile IRES e non già su quella IRAP (cd. valore della produzione). Non avendo l’Ufficio applicato in sede accertativa l’art. 5 del decreto IRAP in modo corretto nel caso di specie, come reiteratamente contestato dalla società (prima) e dagli ex soci (poi), ne derivava che la decisione della Commissione tributaria regionale che invece, sul punto, sosteneva il contrario, andava cassata per violazione della normativa sull’IRAP in epigrafe richiamata.
6. Il sesto mezzo deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.. Con riferimento all’IRES, la Commissione tributaria regionale aveva omesso ogni esame in merito al fatto, decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dal riconoscimento da parte dell’Ufficio dello scomputo delle perdite indicate dalla società nell’anno precedente in sede di determinazione dei redditi d’impresa. La Commissione tributaria regionale, nella sentenza impugnata, non aveva intercettato la ratio decidendi della decisione di primo grado, limitandosi ad affrontare il tema giuridico di fondo rappresentato dalla deducibilità/indeducibilità delle perdite pregresse in sede di accertamento dei redditi da parte dell’Ufficio in assenza di un valido esercizio della facoltà di scelta di cui all’art. 84 TUIR, sul quale la sentenza di primo grado non si era neppure pronunciata in quanto sostanzialmente irrilevante a seguito del riconoscimento/non contestazione operato dall’Ufficio. Il fatto storico il cui esame era stato omesso era rappresentato dal riconoscimento (o dalla non contestazione) da parte dell’Ufficio delle perdite indicate dalla società nell’anno precedente per euro 209.268,00; il fatto storico di cui sopra era stato oggetto di discussione tra le parti, come emergeva dalla stessa decisione di primo grado, che di un tanto aveva dato ampia contezza, decidendo la questione a favore della società; codesto fatto era indubbiamente decisivo ai fini della decisione, dal momento che il principio di non contestazione (ed a maggiore ragione il riconoscimento stesso) in cui esso si inquadrava era applicabile anche al processo tributario, con la conseguenza che la decisione sarebbe stata favorevole alla contribuente se il riconoscimento fosse stato ritenuto esistente e sfavorevole in caso contrario.
7. Il settimo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 84 del d.P.R. n. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. Con riferimento all’IRES, la Commissione tributaria regionale aveva erroneamente riconosciuto legittimo il mancato riconoscimento da parte dell’Ufficio delle perdite pregresse subite dalla società, regolarmente evidenziate nella dichiarazione dell’anno precedente, sol perché la società non aveva presentato la dichiarazione per l’anno successivo. La decisione sul punto era errata in punto di diritto, dal momento che la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare, proprio in tema di riconoscimento delle perdite degli anni pregressi in sede accertativa, che l’Erario come accertava un maggior reddito, doveva anche tener conto della mancata parziale utilizzazione delle perdite relative ad esercizi precedenti, purché comprese nel quinquennio, in quanto il fine degli organi tributari era accertare il tributo effettivamente dovuto, in osservanza a tutte le previsioni di legge. Né si poteva sostenere, come aveva fatto la Commissione tributaria regionale, che la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi impediva la detrazione delle perdite pregresse, essendo quest’ultima condizionata ad una manifestazione di volontà/esercizio di una facoltà che l’omessa dichiarazione per forza di cose non poteva contenere. Poiché l’art. 84 TUIR non presupponeva affatto che la deduzione delle perdite pregresse fosse necessariamente condizionata alla presentazione della dichiarazione dei redditi in cui dette perdite potevano essere dedotte, la decisione della Commissione tributaria regionale che sul punto affermava il contrario doveva essere cassata per violazione della norma predetta.
8. L’ottavo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli 1, 2, 7, 8, 8 bis, 10, 13, 15 e 55 del d.P.R. n. 633/1972 e degli artt. 8 e 8 bis del d.P.R. n. 322/1998, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. Con riferimento all’IVA, la Commissione tributaria regionale aveva (implicitamente) erroneamente riconosciuto legittima la pretesa erariale anche in relazione ad operazioni per legge non imponibili solo perché la società non aveva presentato la relativa dichiarazione (per un ammontare di euro 472.245,00). In realtà, non esisteva alcuna disposizione di legge che subordinasse l’imponibilità o meno delle operazioni economiche in cui si sostanziava l’attività d’impresa alla circostanza che il contribuente presentasse la dichiarazione IVA, essendo al contrario evidente che detta imponibilità (o meno) discendeva direttamente dalla natura delle operazioni medesime, come risultava dalle norme contenute negli articoli del d.P.R. n. 633/1972 citati in rubrica, che prevedevano che l’IVA si applicava esclusivamente sulla base imponibile (artt. 13 e 15) delle cessioni di beni effettuate nel territorio dello Stato (artt. 1, 2 e 7), non imponibili per legge (artt. 8, 8 bis) ovvero esenti (art. 10). E poiché risultava incontrovertibile l’esistenza per l’anno verificato di operazioni imponibili per euro 472.245,00, come indicato nella comunicazione di cui all’art. 8 bis del decreto legge n. 322/1998, la decisione implicita della Commissione tributaria regionale doveva essere riformata per palese contrarietà alle norme contenute nei predetti articoli. Non si comprendeva neppure per quale motivo l’Ufficio in appello avesse richiamato sul punto l’art. 55 del d.P.R. n. 633/1972, norma che aveva, a suo giudizio, l’effetto di escludere comunque la mancata applicazione dell’IVA su queste operazioni. Doveva, considerarsi, peraltro, che gli ex soci, nei cui confronti l’Ufficio pretendeva di proseguire l’appello, non avevano alcuna responsabilità per i comportamenti omissivi posti in essere della società e del suo legale rappresentante, sicché non poteva certamente impedirsi agli stessi di eccepire questioni di merito la cui inammissibilità o infondatezza fosse legata per l’appunto (come succedeva nel caso di specie, ove la pretesa dell’Ufficio era connessa all’omessa presentazione della dichiarazione IVA della società) a comportamenti della società e del suo legale rappresentante. Un’interpretazione costituzionalmente orientata (al rispetto del diritto di cui all’art.24 Cost.) delle norme coinvolte imponeva indubbiamente di consentire il libero dispiegamento del diritto di difesa da parte degli ex soci anche attraverso la deduzione da parte degli stessi di eccezioni e difese che alla società poteva non essere consentito sollevare in conseguenza dei comportamenti sostanziali o processuali del suo legale rappresentante. In caso contrario, le norme di cui agli artt. 110 cod. proc. civ., 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973, come interpretate ed applicate da questa Suprema Corte con la sentenza n. 6070/2013 (legittimazione processuale degli ex soci alla prosecuzione del processo già pendente nei confronti della società nei limiti dei beni e/o delle somme percepite nei periodi di tempo e nelle occasioni indicate dagli articoli da ultimo citati) sarebbero palesemente incostituzionali per violazione dell’art. 24 Cost., avendo l’effetto di impedire agli ex soci, estranei alle precedenti fasi del processo, di opporre eccezioni e difese non opponibili (o non più opponibili) dalla società (naturalmente qualora essa fosse ancora in vita), ovvero alla stessa precluse (o ormai precluse) per ragioni sostanziali o processuali. In tale ipotesi pertanto si chiedeva per l’appunto che la Corte Costituzionale venisse investita della questione di legittimità costituzionale nei termini sopra illustrati.
9. Il nono mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli 19, 30 e 55 del d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. Con riferimento all’IVA, la Commissione tributaria regionale aveva (implicitamente) erroneamente riconosciuto legittimo il mancato riconoscimento da parte dell’Ufficio della detrazione di un credito Iva della società relativo all’anno precedente solo perché la società non aveva presentato la dichiarazione per l’anno successivo. La Suprema Corte aveva avuto modo di chiarire in più occasioni che, in ossequio alla normativa UE ed al rispetto dell’adempimento degli obblighi sostanziali da parte del contribuente, anche in presenza di violazioni meramente formali, la mancata esposizione del credito IVA nella dichiarazione annuale non comportava la decadenza dal diritto di far valere tale credito purché lo stesso emergesse dalle scritture contabili. Anche in questo caso si richiamavano le considerazioni svolte al motivo che precede in tema di interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in evidenza.
10. Il decimo mezzo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, 4, cod. proc. civ.. Si tratta dei medesimi due ultimi motivi che precedono, redatti sotto lo specifico vizio di omessa pronuncia.
11. L’undicesimo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli 1, comma 2, 15 del decreto legislativo n. 546/1992, 91 cod. proc. civ., 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.. La Commissione tributaria regionale aveva erroneamente condannato gli ex soci al rimborso delle spese di lite del primo grado di giudizio, in relazione al quale essi erano però rimasti completamente estranei. La decisione doveva essere cassata per violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., che prevedeva la condanna della parte soccombente al rimborso delle spese sostenute dalla controparte vittoriosa, ovvero comunque per violazione degli artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973, dal momento che la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto quanto meno far seguire alla condanna delle spese a carico degli ex soci per il giudizio di primo grado la precisazione che detta condanna trovava effetto unicamente se e nei limiti dei beni e/o delle somme percepite dagli ex soci durante i periodi e nelle occasioni previste dalle norme predette.
12. Le censure proposte con il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso, che assumono rilievo decisivo e assorbente, implicano l’esame della questione controversa, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, se la condizione testualmente fissata dall’art. 2495 cod. civ., al fine di consentire ai creditori sociali di fare valere i loro crediti, dopo la cancellazione della società, nei confronti dei soci, si rifletta sul requisito dell’interesse ad agire in capo all’Amministrazione finanziaria o sulla legittimazione passiva del socio medesimo ai fini della prosecuzione del processo originariamente instaurato contro la società e se la riconducibilità nell’ambito dell’una condizione dell’azione o dell’altra implichi conseguenze specifiche in tema di onere della prova. Ciò tenuto conto anche che il processo tributario è annoverabile tra quelli di «impugnazione-merito» e della affermata natura dinamica dell’interesse ad agire, che come tale può assumere una diversa configurazione, ma fino al momento della decisione.
12.1 Ciò premesso, va rilevato che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la cancellazione della società dal registro delle imprese ne determina ipso facto l’estinzione, avendo assunto la formalità della cancellazione a seguito della vicenda riformatrice (art. 2495 cod. civ., nel testo risultante a seguito della riforma del diritto societario, attuata dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, 6, la cui entrata in vigore è stata fissata al 1° gennaio 2004) la medesima efficacia costitutiva che per le società di capitali riveste la formalità dell’iscrizione, e ciò, con un significativo mutamento di rotta rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente ed indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo (Cass., Sez. U., 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062).
12.2 Successivamente a tali pronunce, ma, prima delle sentenze delle Sezioni Unite 12 marzo 2013, 6070, 6071 e 6072, questa Corte ha affermato che, nell’ipotesi di estinzione delle società di capitali, la riscossione della quota in base al bilancio finale di liquidazione di cui all’art. 2495 cod., civ., non costituisce soltanto il limite di responsabilità del socio quanto al debito sociale (in prosecuzione ideale della responsabilità per le obbligazioni sociali assunta al momento della costituzione della società), ma anche la condizione per la di lui successione nel processo già instaurato contro la società. La Corte, in particolare, sulla premessa che il socio, a differenza, per esempio, dell’erede che, in morte della persona fisica, ha accettato l’eredità intra vires, con beneficio d’inventario, non è, in quanto tale, un successore universale della società, ma lo diventa nella specifica ipotesi disciplinata dalla legge, in cui egli abbia riscosso la quota in base al bilancio finale di liquidazione e che solo in tale caso può ammettersi, in senso generale e lato, che il socio succeda, seppure intra vires, nei rapporti giuridici facenti capo alla società, ha evidenziato la necessità che sia allegata e finanche dimostrata tale condizione, per cui la mancanza di riferimenti al fatto che il socio abbia riscosso, o meno, la propria quota in base al bilancio finale di liquidazione impedisce di affermare l’esistenza della condizione rapportabile all’interesse ad agire, la quale richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche la prospettazione dell’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, conseguente allo specifico intervento giurisdizionale richiesto, giacché il processo non può essere utilizzato in previsione di solo astratte esigenze (Cass., 16 maggio 2012, n. 7676; Cass., 16 maggio 2012, n. 7679; Cass., 16 maggio 2012, n. 19453).
12.3 Le Sezioni Unite, di lì a poco, hanno ulteriormente chiarito che, a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, che interviene nel processo (come nel caso in esame), viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono (il che sacrificherebbe ingiustamente i diritti dei creditori sociali), ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate. Ne discende che i soci successori della società, subentrano, altresì, nella legittimazione processuale facente capo all’ente — la cui estinzione è in parte equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ. — in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale (Cass., Sez. U., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072).
In particolare, le Sezioni Unite, nelle sentenze richiamate, hanno affermato che, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal decreto legislativo n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) e il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.
12.3.1 Le Sezioni Unite di questa Corte, dunque, hanno sostenuto la tesi che individua sempre nei soci coloro che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione, fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto Il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire e non sulla legittimazione passiva del socio medesimo, con l’ulteriore specificazione che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie.
12.3.2 Le Sezioni Unite, dunque, con le sentenze del 2013, hanno riconosciuto che la condizione di cui all’art. 2495 civ. si riflette sul requisito dell’interesse ad agire, ma, nel contempo, hanno precisato che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto; a seguito dell’estinzione della società e della conseguente perdita della capacità processuale, il processo continua nei confronti dei soci, costituendo costoro la giusta parte processuale abilitata, in ragione del fenomeno «latamente» successorio che si realizza a seguito della cancellazione, ad assumere la veste di legittimo contraddittore nel successivo svolgimento del rapporto processuale, mentre nessuna persistente legittimazione può ravvisarsi in capo al liquidatore, poiché l’art. 2495 cod. civ. consente ai creditori sociali insoddisfatti di agire nei confronti del liquidatore solo se il mancato pagamento sia dipeso da questi, atteso che la posizione del liquidatore non è quella di successore processuale dell’ente estinto e che lo stesso può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria e non anche della pretesa attinente al debito sociale (cfr. di recente, anche Cass., 30 luglio 2020, n. 16362).
13. Ciò posto, la giurisprudenza successiva sembra avere delineato scenari diversi, richiamando principi ora di natura processuale, ora di natura sostanziale e ponendoli a fondamento di percorsi argomentativi non univoci.
14. Secondo un primo orientamento, in verità maggioritario, a tal punto da essere considerato oramai «diritto vivente» (così Cass., 5 novembre 2021, n. 31904), che si muove nel solco tracciato dalle Sezioni Unite del 2013, il limite di responsabilità dei soci di cui all’art. 2495 cod. civ. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si siano trasferiti ai soci. L’effettiva liquidazione e ripartizione dell’attivo e, prima ancora, ovviamente, la sua sussistenza se costituisce fondamento sostanziale e misura (nonché limite) della responsabilità di ciascuno dei successori non può però anche ritenersi presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità stessa di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.. Il creditore potrebbe avere interesse al mero accertamento del diritto e l’eventuale insussistenza di attivo distribuito potrebbe incidere sulla esigibilità del credito in fase esecutiva (Cass. 8 marzo 2017, n. 5988; Cass., 7 aprile 2017, n. 9094; Cass., 24 gennaio 2018, n. 1713; Cass. 19 aprile 2018, n. 9672; Cass., 5 giugno 2018, n. 14446; Cass., 16 giugno 2017, n. 15035; Cass. 16 gennaio 2019, n. 897; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33582; Cass., 26 giugno 2020, n. 12758; Cass., 19 novembre 2020, n. 26402; Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2021, n. 619; Cass., 4 gennaio 2022, n. 2).
14.1 Così è stato precisato che la circostanza che nessuna somma sia stata ripartita ai soci succeduti per mancanza di attivo non incide sulla legittimazione dei soci, giacché non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società e che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del fisco In particolare, è stata chiarito che «Si può porre il caso, che le stesse sezioni unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (vedi, al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti» (Cass., 7 aprile 2017, n. 9094, richiamata, in motivazione).
14.2 Ancora è stato osservato che «La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. Non può conseguentemente dubitarsi nemmeno della sussistenza in capo all’ex socio della legittimazione attiva, pur in caso di incertezza o attuale mancanza di attivo e, conseguentemente, del relativo riparto, essa discendendo dalla qualità di successore che, per le esposte considerazioni, occorre comunque riconoscere al socio anche in tale contesto» (Cass., 16 giugno 2017, 15035, citata, in motivazione).
14.3 E’ stato ulteriormente sostenuto che «Il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica». Ed allora «il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo» ed ancora che, in una prospettiva più ampia, ancorata alle peculiarità del processo tributario e della disciplina «amministrativa» che sottende gli accertamenti in questo ambito, di cui è necessario fare conto nel momento della trasposizione di principi propri delle materie civili, si può anche dubitare che «la stessa eccezione di “difetto di responsabilità” (in una qualunque delle sue accezioni) per mancato ricevimento di somme in sede di distribuzione possa essere introdotta nel giudizio relativo alla pretesa erariale nei confronti della società quale fatto impeditivo della pretesa avanzabile nei confronti del socio. Da un lato, infatti, va tenuto conto delle caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio, succeduto nel corso del processo, per le somme accertate nei confronti della società, e ciò sia che debba essere attivata la speciale procedura prevista dall’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973 (attesa l’espressa previsione di cui al quinto comma: “La responsabilità di cui ai commi precedenti è accertata dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600“), sia, per evidenti ragioni di omogeneità e di compiutezza dell’accertamento tributario, che venga attivato il modulo di responsabilità ex art. 2495, secondo comma, c.c. Dall’altro, il principio di impugnabilità degli atti tributari per vizi propri ex art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992 e il divieto di ampliamento dell’oggetto del giudizio (salvo i limitati casi dei motivi aggiunti ex art. 24, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992) paiono ostare alla possibilità di sollevare una tale eccezione nel corso del giudizio. La questione, pertanto, appare estranea al giudizio e presuppone un ampliamento del thema decidendum ulteriore rispetto alla verifica della fondatezza della pretesa tributaria (e, specificamente, inteso a valutare la concreta responsabilità del socio), oltre che accertamenti in fatto caratterizzati da assoluta novità» (Cass., 19 aprile 2018, n. 9672, in motivazione).
14.4 Questa Corte ha pure stabilito che la sussistenza di un residuo attivo di liquidazione non è fatto costitutivo della domanda proposta nei confronti dei soci quali legittimati a contraddire alla domanda proposta nei confronti della società, in quanto «il creditore potrebbe avere interesse al mero accertamento del diritto e che l’eventuale insussistenza di attivo distribuito potrebbe incidere sulla esigibilità del credito in fase esecutiva» (Cass., 26 giugno 2020, n. 12758).
14.5 Le Sezioni Unite hanno, poi, ribadito, di recente, sia pure nell’ambito di un processo riguardante il regolamento di giurisdizione, la legittimità della pretesa azionata dall’Ufficio fiscale nei confronti dell’ex socio della società cancellata, specificando che questa Corte «si è andata ormai consolidando nell’affermare che se “i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente (…) ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del Fisco creditore” e che «l’assenza nel bilancio di liquidazione della società estinta di ripartizioni agli ex soci non esclude “l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti» (Cass., Sez. U., 15 gennaio 2021, n. 619).
15. Un diverso orientamento afferma che è necessario provare sia la reale percezione delle somme, sia l’entità di tali somme e tale onere probatorio incombe sul creditore che intende agire contro i soci, secondo il normale riparto dell’onere della prova e in applicazione del principio che l’onere della prova incombe su chi pretende di far valere un diritto. Spetta, dunque, al creditore (che pretende) e non al debitore, l’onere della prova dell’azionata pretesa (art. 2697 civ.) e grava sul creditore l’onere della prova circa la distribuzione dell’attivo sociale e la riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio (Cass. 26 giugno 2015, n. 13259; Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444; Cass., 22 giugno 2017, n. 15474; Cass., 4 dicembre 2019, n. 31933; Cass., 15 gennaio 2020, n. 521).
15.1 Così è stato affermato che «Il debito originario della società trova intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica nei limiti in cui i soci abbiano ricevuto utili in base a riparto, a seguito di bilancio finale di liquidazione. Da tale ultima condizione dipende la possibilità di proseguire – o instaurare- l’azione da parte del creditore sociale. È pertanto evidente, come risulta dal chiaro tenore testuale della norma, che la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali non assolte è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio di liquidazione della società, e che tale quota è stata attribuita al socio: ne consegue che il creditore, il quale intenda agire nei confronti del socio, è tenuto a dimostrare il presupposto della responsabilità di quest’ultimo (vale a dire la sua legittimazione passiva), e cioè che, in concreto, in base al bilancio finale di liquidazione, vi sia stata la distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio medesimo e che una quota di tale attivo sia stata da questi riscossa. Spetta al creditore (che pretende), e non al debitore, l’onere della prova dell’azionata pretesa (art. 2697 c.). Resta fermo il principio dell’onere della prova su chi pretende di far valere un diritto. In conclusione: la cancellazione dal registro delle imprese costituisce il presupposto della proponibilità dell’azione nei confronti dei soci; l’avvenuta percezione di somme in sede di liquidazione del bilancio finale costituisce il limite della responsabilità dei soci; sia la reale percezione delle somme sia l’entità di tali somme rilevano sul piano probatorio e vanno provate dal creditore che intende agire contro i soci, secondo il normale riparto dell’onere della prova» (cfr. Cass. 26 giugno 2015, n. 13259, in motivazione).
15.2 Ed ancora «Dal chiaro tenore testuale delle disposizioni tributarie e civilistiche, la responsabilità dei soci per le obbligazioni fiscali non assolte è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo nelle varie fasi, cosicché il Fisco, il quale agisce nei confronti del socio, è tenuto a dimostrare il presupposto della responsabilità di quest’ultimo, e cioè che, in concreto, vi sia stata la distribuzione dell’attivo e che una quota di tale attivo sia stata riscossa (Cass. 19732/ 9005; Cass.11968/2012; Cass. 7676/2012), ovvero che vi siano state le assegnazioni sanzionate dalla norma fiscale» (Cass., 23 novembre 2016, n. 23916).
15.3 E più di recente che «Ove vi sia stata una ripartizione dell’attivo a favore dei soci e il creditore agisca facendo valere la loro responsabilità “limitata”, l’attore è tenuto a provare che l’importo preteso sia di ammontare eguale o superiore a quello riscosso dal socio in sede di liquidazione, sulla base del relativo bilancio, poiché è attraverso la vicenda successoria “ex lege” che il medesimo socio rimane obbligato nei confronti del creditore sociale, divenendo la percezione della quota dell’attivo sociale elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato» (Cass., 15 gennaio 2020, n. 521).
16. Un terzo orientamento, invece, assume che, nel caso di società di capitali, gli ex soci possono ritenersi subentrati dal lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione e che l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ. e, come tale, in presenza di contestazione sul punto, va provata dal soggetto che si costituisce in giudizio l’insussistenza della legittimazione ad causam; in particolare, il soggetto che nel corso del giudizio si costituisce nella qualità di successore universale della società estinta ha l’onere di fornire, in presenza di contestazione sul punto, la prova della asserita qualità di socio, dimostrazione da ritenersi ammissibile anche, per la prima volta, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., in quanto per l’appunto diretta a comprovare, sotto il profilo detto, l’ammissibilità del ricorso (Cass., 5 novembre 2021, n. 31904; Cass., 16 novembre 2020, n. 25869; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444).
16.1 Questa Corte ha anche affermato che «qualora l’estinzione della società a seguito di cancellazione dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio che la veda parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione ad opera o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; ove l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, purché dei presupposti della “legitimatio ad causam” sia da costoro fornita la prova» (Cass., 16 novembre 2020, n. 25869).
16.2 Così, sempre di recente, questa Corte ha chiarito che «la sussistenza dell’interesse ad agire del creditore sociale non può valutarsi in forza di una prospettiva meramente statica, la responsabilità del socio non potendo di per sé escludersi né sulla sola base di quanto emergente dal bilancio di liquidazione, né dalla mera circostanza che egli non abbia partecipato utilmente alla ripartizione finale, “potendo ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci” (Cass., Sez. Un., n. 619/2021, cit.); evidente, dunque, come la questione finisca col riverberarsi, in concreto, sul merito. Se, però, il fisco ben può rivolgersi al socio successore per il recupero del credito vantato contro la società estinta, stante il suo subentro ex lege nell’obbligazione sociale, è altrettanto evidente come il creditore sia soltanto tenuto a dimostrare la fonte di detta obbligazione, seppur ripartita pro quota, ma non anche la circostanza che il socio abbia utilmente partecipato alla distribuzione di utili, perché essa costituisce il presupposto della sua responsabilità; pertanto, la sua negazione si atteggia tipicamente come fatto modificativo, impeditivo o estintivo dell’altrui pretesa, ossia come eccezione di merito, il cui onere della prova non può che gravare su colui che la solleva, ex 2697, comma 2, c.c. D’altra parte, la stessa Cass., Sez. Un., n. 6071/2013, più volte citata, afferma in modo inequivoco che resta fermo per i soci successori “il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità”, con espressione semantica che non lascia spazio a dubbi di sorta. Basti poi considerare, onde dimostrare l’esattezza dell’assunto, che l’iscrizione a ruolo nei confronti del socio, e la stessa notifica della cartella di pagamento (che costituisce, ad un tempo, notifica del titolo esecutivo e del precetto – v. Cass. n. 3021/2018; Cass. n. 6526/2018; Cass., Sez. Un., n. 7822/2020), di cui s’è vista la piena rispondenza al sistema normativo, prescindono del tutto da ogni accertamento sulla avvenuta (o mancata) percezione degli utili, sicché la sede naturale in cui vi si può procedere deve giocoforza individuarsi nel processo tributario, il cui avvio è onere del socio-contribuente, ex art. 19 d.lgs. n. 546/1992». Ed ancora che «Stante il subentro del socio ex latere debitoris – spetta al predetto dimostrare la propria assenza di responsabilità (ossia, il non essere tenuto, in concreto, a rispondere di quel debito sociale), per non aver percepito utili all’esito della liquidazione, anzitutto allegando la circostanza, e quindi offrendo la relativa prova. Né, del resto, su un piano più generale, può così configurarsi alcun vulnus al diritto di difesa del socio, ex art. 24 Cost. Infatti, con l’impugnazione della cartella, il socio – con riferimento a quel titolo tributario – contesta il diritto di procedere all’esecuzione preannunciatagli dal fisco, allo stesso modo in cui per gli altri debiti sociali egli può contestare la propria responsabilità mediante opposizione all’esecuzione (Cass. n. 12714/2019, in motivazione). Il socio può pienamente dispiegare ogni mezzo onde andare assolto dalla pretesa del fisco, addirittura lamentando l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, oppure contestando il fondamento della propria responsabilità, con la negazione della propria qualità di socio, ove erroneamente ritenuta dall’Ufficio (e salvo che egli sia subentrato nel processo pendente, nel qual caso la questione risulterebbe comunque definitivamente accertata), ovvero con la dimostrazione di non aver conseguito utili dalla liquidazione, se del caso previa richiesta della afferente tutela cautelare ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992» (Cass., 5 novembre 2021, n. 31904, citata, in motivazione).
17. Appare evidente che le pronunce di questa Corte, anche quelle successive alle sentenze delle Sezioni Unite 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, non hanno definitivamente chiarito la questione in esame (non pare sufficiente, infatti, che, al riguardo, si sia formato un indirizzo di maggioranza), che presenta, indubbiamente, ancora molti aspetti problematici e che lasciano residuare molte incertezze per le parti del giudizio, sia dal lato dell’Amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti della società estinta, sia dal lato del socio succeduto alla società nelle posizioni che non sono state definite prima della sua cancellazione dal registro delle imprese.
17.1 Preme, fin da subito chiarire, che il presupposto di partenza, che sembra potersi ritenere certo, è che la questione non involge la problematica della legittimazione del socio con riferimento alla titolarità passiva nel rapporto tributario ai sensi dell’art. 2495 cod. civi, né concerne, ancor prima, la legittimazione processuale del socio stesso ex 110 cod. proc. civ.. Ed invero, dopo le Sezioni Unite del 2013 è indiscusso che verificatasi l’estinzione della società, di persone o di capitali, in seguito alla cancellazione dal registro delle imprese, in ipotesi di rapporti giuridici ancora esistenti e facenti capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue (perché ciò sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale), ma si trasferisce ai soci. Le Sezioni Unite, poi, hanno precisato che il socio succeduto risponde fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione oppure illimitatamente, a seconda se, pendente societate, era limitatamente o illimitatamente responsabile per i debiti sociali; mentre i diritti e i beni non compresi nl bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa. Restano, invece, escluse le mere pretese, anche se azionate o azionabili in giudizio, e i crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore, giudiziale o extragiudiziale, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (Cass., Sez. U., 12 marzo 2013, n. 6070, in motivazione).
17.2 Ciò posto, è necessario puntualizzare che l’art. 2495 cod. civ. stabilisce che la condizione che consente ai creditori sociali di fare valere i loro crediti, dopo la cancellazione della società, nei confronti dei soci, è che i soci abbiano riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione e qui sovviene, fin da subito, la giurisprudenza già citata che ha affermato che l’interesse dell’Amministrazione finanziaria a procurarsi un titolo nei confronti dei soci non è escluso dalla «possibilità» di sopravvenienze attive o anche dalla «possibile» esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti e che è sempre ammissibile il ricorso nei confronti dei soci che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione (cfr. Cass., 4 gennaio 2022, n. 2; Cass., 16 gennaio 2019, n., 897; Cass., 5 giugno 2018, n. 14446).
17.2.1 Dunque, la circostanza che il socio succeduto abbia goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, è stata ritenuta non dirimente ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del fisco creditore, potendovi essere la possibilità di sopravvenienze attive, o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio, per i quali sorge l’interesse dell’Amministrazione finanziaria a procurarsi un titolo nei confronti dei soci. Ciò sul solco di quanto affermato dalle Sezioni Unite del 2013, che hanno sì riconosciuto che la circostanza che i soci abbiano goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione possa riflettersi sul requisito dell’interesse ad agire, ma, nel contempo, hanno precisato che il creditore potrebbe comunque avere interesse all’accertamento del proprio diritto, come nel caso espressamente menzionato di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta o di creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese (cfr., in tal senso, anche , 7 aprile 2017, n. 9094, in motivazione).
17.3 Lo stesso orientamento esclude, nel contempo, che la condizione di cui all’art. 2495 civ. possa avere riflessi sul lato della legittimazione passiva dei soci, così come, invece, è stato affermato in altre pronunce questa Corte, che hanno affermato che i soci succeduti subentrano dal lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, di modo che l’accertamento di tale circostanza costituisce presupposto della assunzione, della qualità di successori e della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo (così Cass., 26 giugno 2015, n. 13259; Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., 31 gennaio 2017, n. 2444).
17.3.1 Si tratta di una conclusione che, come già precisato, non è stata ritenuta in linea con i principi affermati dalle Sezioni Unite del 2013 che individuano sempre nei soci coloro che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, il che, all’evidenza, non rende meno certa la premessa dalla quale si è partiti per l’esame della questione oggetto di contrasto, ovvero che i soci comunque succedono alla società cancellata nelle ipotesi di posizioni non ancora definite.
17.4 Tali orientamenti, in ordine ai quali si è parlato di un possibile inconsapevole contrasto (così Cass., 8 marzo 2017 n. 5988), che si muovono pur sempre nell’ambito della sussistenza di una condizione dell’azione (interesse ad agire del creditore e legittimazione ad causam del socio succeduto) sembrano, poi, essere stati «superati» da numerose altre pronunce che si muovono in un’ottica di onere probatorio ora posto a carico dell’Agenzia delle Entrate, ora posto a carico del socio succeduto.
17.4.1 In particolare, alcune pronunce hanno affermato che il disposto dell’art. 2495 cod. civ. implica che l’obbligazione sociale non si estingue, ma si trasferisce ai soci nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, sicché grava sul creditore l’onere della prova della distribuzione dell’attivo e della riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio (cfr. Cass., 22 giugno 2017, n. 15474).
17.4.2 Altre pronunce, invece, hanno sostenuto che l’accertamento della condizione di cui all’art. 2495 cod. civ. costituisce presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 110 proc. civ. e, come tale, in presenza di contestazione sul punto, va provata dal soggetto che si costituisce in giudizio, ovvero il soggetto che nel corso del giudizio si costituisce nella qualità di successore universale della società estinta ha l’onere di fornire, in presenza di contestazione sul punto, la prova della asserita qualità di socio (cfr. Cass., 5 novembre 2021, n. 31904; Cass., 16 novembre 2020, n. 25869; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444).
18. Viene ancora una volta in evidenza come la questione giuridica oggetto di esame presenta plurime discrasie, tutte sottolineate dalle pronunce di questa Corte che si muovono nel solco della riconducibilità della condizione di cui all’art. 2495 cod. civ. all’interesse ad agire del creditore, anche se, nel contempo, queste stesse pronunce, ne prescindono, ritenendo che il creditore abbia interesse ad agire anche in mancanza di una effettiva riscossione di somme sulla base del bilancio finale di liquidazione; a queste pronunce, poi, si affiancano altre pronunce che riconducono la condizione prevista dall’art. 2495 cod. civ. alla legittimazione processuale del socio succeduto ed altre ancora che giungono alla affermazione di un vero e proprio onere probatorio, che segue, tuttavia, criteri di ripartizione differenti a seconda che ci si muova nella prospettiva del creditore o del socio
18.1 Si tratta di opzioni ermeneutiche che, tuttavia, non possono non tenere conto, in un’ottica sistematica della questione posta, di ulteriori considerazioni che sono state pure svolte nelle pronunce richiamate:
-) il principio di impugnabilità degli atti tributari per vizi propri ex art. 19, comma 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992 e il divieto di ampliamento dell’oggetto del giudizio (salvo i limitati casi dei motivi aggiunti ex art. 24, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992) che sembrano ostare alla possibilità di sollevare l’eccezione del difetto di responsabilità del socio succeduto nel corso del giudizio (Cass., 19 aprile 2018, n. 9672, in motivazione);
-) le caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio, succeduto nel corso del processo, per le somme accertate nei confronti della società, e ciò sia che debba essere attivata la speciale procedura prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1976, sia che venga attivato il modulo di responsabilità ex art. 2495 cod. civ.; (Cass., 19 aprile 2018, n. 9672, in motivazione);
-) la circostanza che il debito del quale sono chiamati a rispondere i soci della società cancellata non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma si identifica con il medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (Cass., 12 marzo 2013, n. 6070, in motivazione);
-) l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci che non è escluso dalla «possibilità» di sopravvenienze attive o anche dalla «possibile» esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti (Cass., 12 marzo 2013, n. 6070, in motivazione, e da ultimo Cass., 4 gennaio 2022, n. 2);
-) la circostanza che il creditore ha comunque un interesse anche al mero accertamento del diritto e che l’eventuale insussistenza di attivo distribuito potrebbe incidere sulla esigibilità del credito in fase esecutiva (Cass., 26 giugno 2020, n. 12758, in motivazione);
-) il fatto che il socio, a differenza, dell’erede che, in morte della persona fisica, ha accettato l’eredità intra vires, con beneficio d’inventario, non è, in quanto tale, un successore universale della società, ma lo diventa nella specifica ipotesi disciplinata dalla legge, in cui egli abbia riscosso la quota in base al bilancio finale di liquidazione e solo in tal caso può ammettersi, in senso generale e lato, che il socio succeda, seppure intra vires, nei rapporti giuridici facenti capo alla società (Cass., 16 maggio 2012, n. 7676, in motivazione);
-) l’insussistenza di un vulnus al diritto di difesa del socio, ex art. 24 Cost., tenuto comunque conto che il socio succeduto, allo stesso modo che per gli altri debiti sociali, può contestare la propria responsabilità in sede di esecuzione, in quanto può pienamente dispiegare ogni mezzo onde andare assolto dalla pretesa del fisco, addirittura lamentando l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, ovvero con la dimostrazione di non aver conseguito utili dalla liquidazione (Cass., 5 novembre 2021, n. 31904, in motivazione).
19. Un’ulteriore considerazione va, ancora, svolta con riferimento alla condizione dell’azione dell’interesse ad agire, che si è detto avere natura dinamica, che rifugge, in quanto tale, da considerazioni statiche allo stato degli atti (cfr. , Sez. U., 12 marzo 2013, n. 6070) e, che tuttavia, anche di recente, sia pure in tema di impugnazione dell’estratto di ruolo, è stato definito come una condizione dell’azione avente natura «dinamica» che, come tale, può assumere una diversa configurazione, anche per norma sopravvenuta, ma fino al momento della decisione (Cass., Sez. U., 6 settembre 2022, n. 26283). In proposito, va ricordato che «L’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito» (Cass., Sez. U., 22 novembre 2022, n. 34388) e che «l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 cod. proc. civ., va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata» (Cass., 23 maggio 2008, n. 13373).
19.1 Dunque, l’interesse alla decisione del ricorso deve essere presente al momento dell’instaurazione del rapporto processuale e permanere fino alla decisione della causa e l’indagine relativa alla sussistenza dello stesso va compiuta in relazione all’utilità o al vantaggio (materiale o morale) che il ricorrente può ricavare dall’accoglimento della domanda proposta in giudizio a prescindere, quindi, dalle motivazioni che lo hanno indotto ad agire in giudizio; così come l’interesse a ricorrere, quale «species» dell’interesse ad agire ex art. 100 proc. civ., deve avere le caratteristiche della concretezza e dell’attualità e deve consistere in un’utilità pratica, diretta ed immediata, che l’interessato può ottenere con il provvedimento richiesto al giudice, sicché il provvedimento giudiziale a cui si aspira deve essere idoneo ad assicurare, direttamente ed immediatamente, l’utilità che parte ricorrente assume esserle sottratta o negata o disconosciuta.
19.2 Si tratta di concetti che devono necessariamente confrontarsi con la natura del processo tributario, con riferimento alla quale questa Corte ha affermato che «il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia, eventualmente, dell’avviso di accertamento o di rettifica dell’ufficio, sicché il giudice, ove ritenga in tutto o in parte invalido l’atto per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad accertare genericamente la debenza dell’imposta demandandone la sua successiva quantificazione ad una parte del giudizio, sia pure sulla base di alcuni criteri, atteso che l’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del lgs. n. 546 del 1992, come interpretato alla luce degli artt. 111 Cost., 6 CEDU e 47 CDFUE, esclude la pronuncia di condanna indeterminata, rendendo necessario l’esame nel merito della pretesa, entro i limiti posti dalle domande di parte» (Cass., 25 novembre 2022, n. 34723; Cass. 10 settembre 2020, n. 18777) e non vi è dubbio che la natura «anche» impugnatoria del processo tributario, in ragione del fatto che lo stesso è necessariamente introdotto attraverso l’impugnazione di specifici atti, non può non refluire sulla conformazione che assume al suo interno l’interesse ad agire.
20. Per quanto esposto, il Collegio ritiene necessario inviare gli atti processuali al Primo Presidente perché valuti l’opportunità di rimettere l’esame della questione, per cui è causa, alle Sezioni Unite Civili.
P.Q.M.
La Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della presente causa alle Sezioni Unite civili.