CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza n. 10580 depositata il 1° aprile 2022
contenzioso tributario – sentenze di rinvio
rilevato che:
dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a “S.G. Centro Odontoprotesico sas di S.G. & c.” due avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2003 e 2004, aveva rideterminato l’imponibile da assoggettare a Iva, avendo accertato che nello studio presso il quale operava la società, i due soci S.G. e C.S. svolgevano l’attività di odontotecnici senza la necessaria abilitazione, con la conseguenza che le prestazioni fatturate non potevano essere qualificate come esenti, ai sensi dell’art. 10, punto, 18, d.P.R. n. 633/1972; avverso gli avvisi di accertamento la società aveva proposto separati ricorsi che erano stati parzialmente accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Varese; le pronunce di primo grado erano state oggetto di appello da parte dell’Agenzia delle entrate; la Commissione tributaria regionale della Lombardia, previa riunione, aveva parzialmente accolto gli appelli, avendo accertato, sulla base della documentazione, che i costi non assoggettabili ad Iva incidevano nella misura del 40% sul volume di affari dichiarato dalla società; avverso la pronuncia del giudice del gravame la società aveva proposto ricorso per cassazione, in accoglimento del quale era stata disposta la cassazione della sentenza con rinvio alla Commissione tributaria regionale;
a seguito della riassunzione del giudizio dinanzi al giudice del rinvio, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto gli appelli riuniti, in particolare ha ritenuto che: la documentazione prodotta dalla società nel giudizio di appello era inutilizzabile in quanto priva della specifica elencazione dei documenti raccolti nei due faldoni, senza una analisi delle risultanze dei documenti e con un generico richiamo agli stessi, circostanza che impediva una concreta valutazione; in ogni caso, poiché la documentazione era finalizzata a comprovare la riferibilità dell’attività, svolta presso lo studio, ai medici professionisti piuttosto che ai due soci, le fatture erano generiche e senza specificazione della natura, qualità e quantità dei beni e servizi prestati, mentre, d’altro lato, la presenza nello studio di medici professionisti e l’utilizzo di strutture e materiale sanitario rappresentavano un rafforzamento dell’attività svolta, contribuendo a determinare il volume di affari;
la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a quattro motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;
considerato che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394, cod. proc. civ., per avere violato i limiti del giudizio di rinvio, tenuto conto della pronuncia della Corte di cassazione n. 10583/2014;
in particolare parte ricorrente evidenzia che con la suddetta pronuncia la Corte, in accoglimento del secondo motivo di ricorso proposto dalla ricorrente avverso la sentenza del giudice del gravame, aveva ritenuto che quest’ultima si era limitata all’apodittica affermazione che l’incidenza degli altri costi andava determinata nella misura del 40%, omettendo di indicare i concreti elementi utilizzati nell’iter decisionale e pretermettendo l’esame di dati fattuali e circostanze rilevanti e decisivi, desumibili dalla documentazione in atti, quali identificativi e costi del materiale e degli impianti odontoiatrici, schede pazienti, idonei a verificare l’attività effettiva espletata dai soci e quell’altra riconducibile ai professionisti che operavano presso la struttura;
sotto tale profilo, la pronuncia ora censurata non si sarebbe attenuta a quanto prescritto dalla ordinanza della Corte di cassazione, avendo, da un lato, ritenuto inutilizzabile la documentazione, e, inoltre, affermato che la stessa non fosse decisiva, in quanto di provenienza interna e priva dei requisiti di certezza;
pertanto, la sentenza censurata: si sarebbe astenuta dal prendere in considerazione la documentazione di cui, invece, la Corte di cassazione aveva rilevato l’omesso esame; avrebbe dichiarato l’inutilizzabilità della documentazione, nonostante il fatto che la Corte di cassazione ne aveva disposto l’esame; avrebbe negato la decisività della documentazione;
infine, evidenzia parte ricorrente che già con la pronuncia del giudice di appello nei confronti della quale era stato proposto ricorso per cassazione, era stata definitivamente accertata la decisività e l’utilizzabilità della documentazione, sicchè tale accertamento in fatto, non censurato dinanzi alla Suprema Corte, era oramai divenuto definitivo, anche tenuto conto della circostanza che, a seguito dell’ordinanza di rinvio, non era consentito rimettere in discussione i presupposti fattuali e logici (cioè che la documentazione era stata ritualmente prodotta ed era utilizzabile), sicchè erroneamente il giudice del gravame aveva negato l’ammissibilità dei documenti e il carattere di decisività degli stessi;
il motivo è infondato;
questa Corte ha precisato, con riferimento ai limiti del giudizio di rinvio, che: a) in caso di cassazione con rinvio per vizio di motivazione (da solo o cumulato con il vizio di violazione di legge) il giudice del rinvio non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, mantenendo tutte le facoltà che competevano originariamente al giudice del rinvio quale giudice di merito, relativamente ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza oggetto di annullamento, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento impugnato ritenuti illogici ed eliminando, a seconda dei casi, le contraddizioni ed i difetti argomentativi riscontrati (Cass. Sez. U., 3 settembre 2020, n. 18303; Cass. civ. 29 maggio 2014, n. 12102; Cass. civ. 2 febbraio 2018, n. 2652); b) l’efficacia preclusiva della sentenza di cassazione con rinvio opera soltanto con riferimento ai fatti che il principio di diritto enunciato presuppone come pacifici o come già accertati definitivamente in sede di merito. Essa non incide sul potere del giudice di rinvio non solo di riesaminare i fatti, oggetto di discussione nelle precedenti fasi non presupposti dal principio di diritto, ma anche, nei limiti in cui non si siano già verificate preclusioni processuali o decadenze, di accertarne di nuovi da apprezzare in concorso con quelli già oggetto di prova (Cass. civ. 26 settembre 2018, n. 22989; Cass. civ. 6 luglio 2017, n. 16660; Cass. civ. 30 maggio 2001, n. 7379);
in sostanza, in caso di cassazione con rinvio per vizi di motivazione, il giudice del rinvio resta comunque libero di compiere un apprezzamento del materiale probatorio a disposizione, salvo che la pronuncia rescindente abbia già escluso la rilevanza ai fini del decidere di determinati elementi di prova o abbia ritenuto pacifici o accertati definitivamente nei precedenti giudizi di merito determinati fatti;
con riferimento al caso di specie, questa Corte aveva rilevato che era apodittica l’affermazione che i costi incidevano nella misura del quaranta per cento, non avendo il giudice di appello indicato il percorso logico giuridico seguito, e, di conseguenza, aveva evidenziato che occorreva tenere conto del materiale probatorio prodotto dalla contribuente, in particolare della “documentazione in atti, quali identificativi e costi del materiale e degli impianti odontoiatrici, schede pazienti”;
va peraltro, segnalato, che la necessità di tale verifica era comunque necessaria al fine di “verificare l’attività effettiva espletata dai signori e C. e quell’altra riconducibile ai professionisti che operavano nel Centro”;
sicchè, se, da un lato, questa Corte aveva evidenziato la necessità dell’esame della documentazione prodotta dalla contribuente, aveva, altresì, tracciato il percorso entro il quale la valutazione dell’idoneità probatoria della documentazione avrebbe dovuta essere compiuta; in questo senso, assume rilievo la precisazione, specificamente compiuta nell’ordinanza di rinvio, della necessità che il giudizio di idoneità doveva essere finalizzato alla specifica individuazione della ripartizione dell’attività compiuta presso la struttura, da ricondursi ora ai soci ed ora ai professionisti in essa operanti;
la suddetta specificazione della finalizzazione entro cui si sarebbe dovuto compiere il giudizio di merito assume particolare rilievo in quanto questa Corte aveva inteso, in tal modo, fare necessario riferimento ai limiti dell’oggetto del giudizio prospettato dinanzi ai giudici di merito;
è tenuto conto di tale finalizzazione, particolarmente recepita dal giudice del gravame che la sentenza censurata ha evidenziato, in premessa, qual era l’oggetto della controversia, cioè la “individuazione dell’imponibile della SG assoggettabile ad Iva’ questo perché, secondo la prospettazione dell’amministrazione finanziaria contenuta negli avvisi di accertamento, i servizi eseguiti presso la struttura della società erano stati esercitati in prevalenza dai soci, sforniti di abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, con la conseguenza che doveva essere recuperata l’Iva non versata, non potendosi applicare la previsione di cui all’art. 10, punto 18), d.P.R. n. 633/1972, relativo al regime di esenzione dall’Iva per le prestazioni sanitarie;
è in questo ambito, dunque, ed entro i precisi limiti dell’oggetto del giudizio, che si è introdotta la questione della verifica della determinazione della entità delle operazioni imponibili da sottoporre ad Iva conseguenti alle prestazioni eseguite dalla società in difetto di specifica abilitazione sanitaria da parte dei soci;
va quindi osservato che, ragionando nell’ambito della questione in esame, il profilo relativo alla individuazione dei costi sostenuti non poteva assumere una valenza in sé e per sé, cioè quale elemento di riduzione della base imponibile ai fini Iva, ma solo quale indice di corretta individuazione di quale parte delle prestazioni eseguite potesse essere ricondotta ad attività medico sanitaria, in quanto tale esente, rispetto a quella non sanitaria, in quanto tale imponibile; ciò, tenuto conto del fatto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in materia di Iva, in caso di omessa fatturazione, la stessa viene calcolata ai sensi dell’art. 13, d.P.R. n. 633/1972, secondo cui “La base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti” e, dunque, senza nessuna incidenza dei costi di produzione dei beni o servizi ceduti (Cass. Civ., 7 settembre 2018, n. 21828);
sicchè, in questo contesto, la pronuncia di questa Corte, dopo avere evidenziato l’omesso esame della documentazione della contribuente, aveva quindi richiesto al giudice del rinvio di procedere all’accertamento relativo alla ripartizione delle attività svolte nell’ambito della struttura della società, e ciò, va evidenziato, al fine di verificare se dalla stessa potessero emergere elementi di riscontro per la valutazione dell’attività svolta in esenzione rispetto a quella imponibile ai fini Iva, senza, d’altro lato, accertare in termini preclusivi per il giudice del rinvio alcuna circostanza in fatto o in diritto;
ciò precisato, diversamente da quanto ritenuto dalla contribuente, il giudice del gravame si è pronunciato entro i limiti posti dall’ordinanza di rinvio;
correttamente, come detto, il giudice del gravame ha inteso, in primo luogo, porre l’attenzione su quale fosse l’oggetto della controversia, precisando, come già evidenziato, che: “Questione controversa nel presente giudizio è invero quella della individuazione dell’imponibile della “SG” ed è procedendo sulla base dei limiti del suddetto giudizio che ha, correlativamente, valutato la valenza probatoria della documentazione prodotta dalla contribuente;
in questo ambito, sebbene il giudice del gravame abbia, in prima battuta, ritenuto inutilizzabile la documentazione, ha poi, comunque, provveduto ad una valutazione della idoneità probatoria della suddetta documentazione, evidenziando, correttamente, che: “le valutazioni invocate dalla contribuente con la produzione documentale di cui sopra sono strettamente correlate alla individuazione del volume di affari della società come non imponibile in quanto tutto esente da iva ai sensi dell’art. 10 punto 18 del DPR 633/1972″;
ed è proprio alla luce di tale finalità, coerente con le indicazioni derivanti dalla pronuncia rescindente di questa Corte nonché con la previsione di cui all’art. 13, d.P.R. n. 633/1972, che il giudice del gravame ha escluso che la documentazione fosse idonea ai fini della dimostrazione della totale esenzione delle prestazioni rese dalla società;
invero, la sentenza censurata ha ritenuto che le fatture fossero generiche, non recando alcuna menzione della persona che aveva eseguito la prestazione, nè indicavano la natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione, e, inoltre, che la presenza nello studio dei medici professionisti, l’utilizzo di strutture e materiale sanitario (sebbene costituissero costi per la società), rappresentavano un mero rafforzamento dell’attività svolta dalla medesima società;
sotto tale profilo, il giudice del gravame ha ritenuto, in sostanza, di condividere la prospettazione dell’amministrazione finanziaria secondo cui le prestazioni fornite dai soci erano “di gran lunga prevalenti rispetto a quelle dei professionisti”, tenuto conto del fatto che dalle indagini espletate era emersa la “netta prevalenza dell’attività svolta dal S.G., con conseguente riconducibilità della maggior parte del fatturato a prestazioni soggette ad Iva poiché rese da persona non abilitata”; mentre, d’altro lato, ha ritenuto che le prove contrarie offerte dalla ricorrente non fossero idonee a superare la suddetta prospettazione posta a fondamento della pretesa; sicchè, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, il giudice del gravame ha compiuto un accertamento entro i limiti della pronuncia di rinvio di questa Corte, sicchè non sussiste il lamentato errar in procedendo;
con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4), d.lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 111, Cost., per essere contraddittoria ed apparente;
il motivo è articolato su diversi profili di censura;
in particolare, con riferimento al primo profilo di censura, parte ricorrente evidenzia che la pronuncia, in modo contraddittorio, avrebbe, da un lato, affermato che era pacifico in causa che i soci svolgevano attività presso le strutture della società senza titolo abilitativo, e, dall’altro, avrebbe comunque affermato che la società aveva contestato tale ultima circostanza, sia in primo grado che in appello;
con riferimento al secondo profilo di censura, parte ricorrente evidenzia: l’assoluto difetto di motivazione della sentenza sul fatto che i soci eseguivano prestazioni di carattere odontoiatrico presso le strutture della società, avendo fatto solo rinvio acritico alla sentenza penale di condanna; ancora, il difetto di motivazione, per non avere specificato le ragioni per la quali la pretesa era fondata e che tutto il fatturato era riconducibile alle prestazioni abusivamente esercitate dai soci;
il motivo è infondato;
non sussiste, in primo luogo, la lamentata contraddittorietà della motivazione;
il giudice del gravame, invero, dà atto del fatto che la circostanza che i soci svolgevano prestazioni di carattere odontoiatrico presso la struttura della società senza alcun titolo abilitativo trovava riscontro (in questi termini deve essere inteso l’utilizzo dell’espressione “pacifico”) nella sentenza irrevocabile penale n. 165/07 del Tribunale di Busto Arsizio-Saranno del 12 aprile 2008, sicchè, il successivo passaggio motivazionale delle sentenza, secondo cui “A tali accertamenti, la società ha contrapposto la legittimità del proprio operato, per essere l’attività medica svolta autorizzata oltre che correttamente esercitata”, non si pone in contrasto con la suddetta affermazione, ponendosi solo ad illustrazione della linea difensiva della società;
né può ritenersi che la pronuncia difetti di motivazione nella parte in cui ha ritenuto che vi fosse la prova dell’esercizio abusivo della professione;
in realtà, oltre al passaggio motivazionale sopra indicato, nel quale è fatto specifico riferimento alla pronuncia di condanna, sul cui contenuto, al fine di prospettare eventualmente la non correttezza del richiamo, nulla dice parte ricorrente, la pronuncia si è basata sulle risultanze dell’attività ispettiva svolta dalla Guardia di finanza, in particolare ha fatto riferimento ai due accessi compiuti presso la struttura ed alle dichiarazioni dei medici e dei pazienti ascoltati nonché agli appostamenti eseguiti, secondo quanto riportato nel processo verbale di constatazione;
la valenza ai fini probatori dei suddetti elementi è indicata dal giudice del gravame nella parte finale della sentenza, laddove espressamente evidenzia che: “alla luce di tutto quanto sin qui esposto, la contribuente risulta conclusivamente venuta meno all’onere che su di lei incombeva di allegare prove atte a contrastare le argomentate circostanze poste dall’ufficio a base degli avvisi di accertamento emessi, i quali vanno per l’effetto confermati in questa sede”;
d’altro lato, con specifico riferimento alla ritenuta mancanza di motivazione per non avere il giudice del gravame specificato la ragione per la quale tutto il fatturato era riconducibile alla prestazione svolta senza abilitazione, come sopra già rilevato, il giudice del gravame ha, invero, ritenuto che la presenza dei medici professionisti, così come l’utilizzo delle strutture e del materiale sanitaria, aveva solo una funzione meramente strumentale all’attività svolta presso la struttura, dunque non valutabile in sé e per sé, tenuto conto della assoluta prevalenza dell’attività svolta, invece, dai soci non abilitati;
in sostanza, differentemente da quanto sostenuto dalla ricorrente, il giudice del gravame ha chiaramente precisato e specificato sulla base di quali elementi ha ritenuto che i soci avessero svolto attività odontoiatrica in assenza di specifica abilitazione, facendo non solo espresso richiamo alla sentenza penale di condanna ma anche agli altri elementi riscontrabili nel processo verbale di constatazione e posti a base degli avvisi di accertamento, ed ha, anche, precisato la ragione per la quale il residuo volume di affari, una volta esclusi i costi riconducibili all’attività svolta dai medici abilitati, doveva essere configurato interamente come conseguenza dell’attività svolta dai soci non abilitati, sicchè non è riscontrabile alcuna motivazione apparente;
con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., e dell’art. 24, d.lgs. n. 546/1992, per avere dichiarato l’inutilizzabilità delle prove documentali prodotte dalla ricorrente in appello;
il motivo è inammissibile;
lo stesso, invero, non tiene conto della circostanza che il giudice del gravame, pur avendo rilevata l’inutilizzabilità della documentazione, in quanto priva di elenco che specificasse in dettaglio i documenti prodotti, ha comunque compiuto, come visto, una valutazione della idoneità probatoria degli stessi ai fini della determinazione dell’imponibile da assoggettare all’Iva, secondo i limiti della materia del contendere, sicchè non é riscontrabile l’errar in procedendo prospettato;
con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 21, d.P.R. n. 633/1972;
in particolare, parte ricorrente censura la sentenza: per avere ritenuto che le fatture emesse dalla società non recavano l’indicazione della persona che aveva eseguito le prestazioni odontoiatriche e delle prestazioni eseguite, posto che, invece, ai sensi dell’art. 21, cit., è sufficiente la indicazione della ragione sociale del soggetto che ha eseguito la prestazione (cioè la società), non anche il nominativo della persona fisica che materialmente aveva eseguito la suddetta prestazione nell’ambito di un rapporto di collaborazione con la società; nonché, per avere ritenuto che le fatture non contenevano alcuna indicazione della natura, qualità e quantità dei servizi prestati e che tale lacuna non poteva essere colmata con documentazione predisposta dal contribuente;
il motivo è infondato;
in termini generali va osservato che la previsione di cui all’art. 21, cit., secondo cui la fattura deve contenere, tra le altre, le indicazioni della natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione risponde ad oggettive finalità di trasparenza e di conoscibilità, essendo funzionali a consentire l’espletamento delle attività di controllo e verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria e, segnatamente, in questa ottica, a consentire l’esatta e precisa identificazione dell’oggetto della prestazione, da indicarsi specificandone natura, qualità e quantità;
ciò assume particolare rilevanza nella fattispecie, in cui il giudice del gravame, sulla base delle prescrizioni dettata dalla pronuncia rescindente, doveva accertare la misura dell’imponibile da assoggettare ad Iva, dovendosi, quindi, verificare quali prestazioni erano state eseguite da professionisti abilitati e quali dai soci privi di abilitazione;
è in questa ottica specifica che il giudice del gravame ha ritenuto, da un lato, che le fatture non consentivano di identificare la natura delle prestazioni eseguite e, dall’altro, che comunque l’ulteriore documentazione prodotta fosse, non solo interna, ma altresì priva dei requisiti di certezza;
si tratta, dunque, di un accertamento in fatto della non idoneità della prova contraria prodotta dalla contribuente, in particolare della mancanza di certezza della documentazione prodotta, non sindacabile in questa sede;
in conclusione, sono infondati il primo, secondo e quarto motivo, inammissibile il terzo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna al pagamento delle spese di lite;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma lbis, se dovuti.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessive euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, se dovuti.
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