Corte di Cassazione ordinanza n. 10582 depositata il 1° aprile 2022
contenzioso tributario – raddoppio dei termini
Ritenuto in fatto
Con sentenza n.1527/5/15 depositata in data 21.9.2015 la Commissione Tributaria Regionale della Toscana accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di R. s.r.l. avverso la sentenza della Commissione Tributaria provinciale di Lucca che aveva accolto il ricorso della contribuente avverso due avvisi di accertamento per gli anni di imposta 2006 e 2007 con cui l’Ufficio accertava l’indebita detrazione IVA per operazioni soggettivamente inesistenti, consistenti nell’acquisto di pallets che vedevano quale cedente la ditta individuale ICB.
La CTR riteneva legittimo l’accertamento sulla base dell’inesistenza soggettiva delle operazioni e della consapevolezza della contribuente.
Avverso la sentenza di appello la R. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati con memoria.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
l.Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n.4 c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e degli artt. 36 e 61 del D.Lgs 546/92, 118 att. e 111 Cast.
Lamenta che la sentenza impugnata si limitava ad una mera trascrizione del contenuto dell’atto di appello, senza alcun riferimento né alle richieste e difese della ricorrente in relazione alla sentenza impugnata.
La censura non è fondata.
Sul tema, questa Corte a sezioni unite (Sez. un. 10627 del 2014), ha affermato che: il recepimento letterale in un provvedimento giudiziario delle considerazioni contenute negli atti di una o entrambe le parti del processo è consentito se fatto per ragioni di economia processuale e di semplificazione, in funzione dell’accorciamento dei tempi di redazione, sempreché la riproduzione sia manifesta e la motivazione sia comunque supportata, pur se in modo non prevalente, da idonei spunti critici di ragionamento logico-giuridico propri del giudice.
Anche sez. un. 642 del 2015 si pone sulla stessa linea, addirittura estendendo il principio, laddove afferma che: Nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sè, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità nè dei contenuti nè delle modalità espositive.
Nella specie la sentenza della CTR è coerente e logica e attribuibile all’organo giudicante.
2. Con il secondo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta che le proprie difese erano state completamente ignorate come se non facessero parte del giudizio di appello.
La censura è inammissibile.
In disparte la circostanza che ciò che si denuncia sembra essere l’insufficiente motivazione della sentenza, invece ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, il vizio specifico denunciabile per cassazione è relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario in ogni caso deve risultare dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che il fatto che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.).
3. Con il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 ri 3 e 5 c.p.c,. la violazione e falsa applicazione dell’art. 8 comma 24 del DL 16/2012 convertito con modifiche nella legge 44/2012, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 37/2015.
Lamenta che sin dal primo grado aveva eccepito la nullità dell’avviso di accertamento per mancanza di valida sottoscrizione dell’avviso e/o per mancanza di valida sottoscrizione degli atti di autorizzazione all’accesso presso i locali della società e la CTR non aveva motivato sul punto.
La censura è inammissibile.
La CTR, in effetti, non ha in alcun modo pronunciato sull’eccezione. La contribuente avrebbe dovuto aggredire questo vizio di attività del giudice deducendo la violazione dell’art. 112 c.p.c., cosa nella specie non avvenuta.
In ogni caso, in tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito dalla l. n. 44 del 2012 (Cass. n. 5077/2020; Cass. n. 11013 del 2019; n. 19190 del 2019).
Pertanto, la circostanza che il sottoscrittore fosse privo della qualifica dirigenziale risulta assolutamente inconferente.
4. Con il quarto motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del DPR 600/1973 e dell’art. 57 del DPR 633/72 in relazione all’art. 360 comma 1 3 c.p.c..
Lamenta che la CTR aveva ritenuto legittimo l’applicazione del c.d. “raddoppio del termine” sebbene la denuncia penale di dichiarazione infedele fosse stata effettuata quando i termini di accertamento per l’anno 2006 erano decaduti.
La censura non è fondata.
Ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n.74/2000, vigente ratione temporis, «1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a lire duecento milioni; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a lire quattro miliardi»; l’art.43, terzo comma, vigente ratione temporis (eguale disposizione è contenuta per l’Iva nell’art.57 d.P.R. n. 633/1972), a sua volta prevede:«In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’ articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione>>; pertanto, dalla lettura combinata delle norme si evince che il raddoppio dei termini scatta in presenza di una violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, il quale a sua volta, all’art.4, prevede, tra i requisiti per la configurabilità astratta del reato di dichiarazione infedele, che “taluna” delle singole imposte evase sia superiore all’ammontare indicato; come chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento ai primi due commi dell’ art . 57 del d.P.R. 633 del 1972, i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia.
Il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e alla I. 31 dicembre 2015, n. 208, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen..
La norma rende chiaro che il raddoppio è legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331 citato, e non dipende dal suo accertamento in concreto.
Tale conclusione è in linea con il consolidato orientamento di legittimità, conforme secondo cui, anche sulla scorta dei princìpi enunciati da Corte cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass., Sez. VI, 28/06/2019, n. 17586, Cass., Sez. V, 13/09/2018, n. 22337; Cass., Sez. VI, 30/05/2016, n. 11171);
In particolare, è stato precisato che «in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011» .(Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17586 del 28/06/2019);
Anche in caso di eventuale prescrizione del reato, questa Corte ha già chiarito che « ai fini del raddoppio dei termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione applicabile “ratione temporis”, rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento tributario» (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9322 del 11/04/2017).
Il ricorso deve essere, conseguentemente, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in euro 5.600,00 oltre alle spese prenotate a debito.
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