Corte di Cassazione ordinanza n. 10651 depositata il 1° aprile 2022

omessa dichiarazione – sanzioni – responsabilità amministratore

RILEVATO CHE

1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta che aveva accolto il ricorso di P.F.S. avverso l’avviso di accertamento, per l’anno 2005, notificatogli quale amministratore e gestore di fatto della P.R.C. s.r.l., con cui l’Agenzia delle entrate aveva accertato, ai sensi dell’art. 39, secondo comma, del d.P.R.  n.  600  del  1973,  maggiore  imponibile  ai  fini  IRES,  IRAP  e I.V.A. ed

2. La Commissione tributaria regionale della Campania, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione.

Espose che i fatti da cui traeva origine la pretesa fiscale potevano essere così sintetizzati:

  1. in data 24 novembre 2005 la RA. Costruzioni s.r.l. aveva ceduto alla  Ristruttura  s.r.l.  immobili  per  un  valore  di  euro 465.000,00;
  2. in data 2 novembre 2005 la  medesima  società  aveva  ceduto alla Novelle r.l. immobili per un valore di euro 1.968.350,00;
  3. in data 21 dicembre 2005 il P.F.S. ed il coniuge  Anna Russo (soci della RA. Costruzioni s.r.l.)  avevano  ceduto  le  loro  quote sociali a L.D., cittadino albanese, non residente in Italia e non risultante all’anagrafe del Comune di San Marco Evangelista  indicata negli atti depositati presso la Camera di Commercio;
  4. da tale data la società non aveva più compiuto alcun adempimento tributario in relazione alle alienazioni

Precisò pure che il P.F.S. era stato anche socio unico delle società R. s.r.l. e N. s.r.l. fino al 2010 e che, all’esito di indagini bancarie, regolarmente autorizzate, l’Agenzia delle entrate aveva rilevato che il P.F.S. aveva continuato ad effettuare, fino al maggio 2006, movimentazioni finanziarie sul conto corrente intestato alla società P.R.C. s.r.l.

Disattesa l’eccezione di omessa instaurazione del contraddittorio, ritenne che l’accertamento trovasse giustificazione nella omessa presentazione   delle   dichiarazioni   I.V.A.   e  IRES,   oltre   che   nella «scomparsa» della compagine sociale ceduta, aggiungendo che  lo stesso  «risultava  parametrato  a  criteri  di  logica  elementare»,  quali «l’interesse ad agire in nome e per conto della società P.R.C. s.r.l., «svuotata» degli immobili posseduti, in favore di società unipersonali con medesimo socio persona fisica», interesse che si ricavava dalla irreperibilità del cessionario delle quote e dalla continuità nella gestione delle operazioni bancarie per conto di quella compagine ceduta. Ribadì, infine, «in ordine al riverbero dei rilievi inerenti i ricavi sui redditi del socio persona fisica», la legittimità dell’operato, «attesa la ristretta base familiare della compagine sociale».

3. Ricorre per la cassazione della suddetta decisione P.F.S., con quattro motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex 380-bis.1. cod. proc. civ.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

CONSIDERATO  CHE

1. Preliminarmente, con la memoria illustrativa il ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del controricorso perché privo di una sufficiente ed autonoma esposizione dei fatti di L’eccezione deve essere disattesa, in quanto nel giudizio di cassazione l’autosufficienza del controricorso, che non racchiuda, come nel caso di specie, anche un ricorso incidentale, assolvendo alla sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui,  è assicurata  ai sensi dell’art. 370, secondo comma, cod.  proc.  civ., che  richiama l’art. 366 cod. proc. civ., anche quando l’atto non contenga una autonoma esposizione sommaria dei fatti di causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero  alla narrazione di essi contenuta in ricorso (Cass., sez. 3, 21/09/2015, n. 18483).

2. Con il primo  motivo  di  impugnazione  il  ricorrente  deduce  la «illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia del giudice di appello su questioni sollevate nei gradi di merito, in relazione all’art. 360, primo  comma,  n.  4, cod. proc. civ. e per violazione  degli  artt. 112 cod.  proc civ., 115 cod. proc. civ. e 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. n.  546  del  1992,  in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.».

A supporto della censura evidenzia il ricorrente che,  già  nel ricorso introduttivo e poi in grado di appello, aveva  eccepito  la tardività dell’avviso di accertamento, stante l’insussistenza dei presupposti legittimanti il cd. raddoppio dei termini di cui all’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, in assenza di una tempestiva e fondata denuncia di reato di cui all’art. 331 cod. proc. pen. e, in ogni caso, per effetto del mancato deposito agli atti di causa di detta denuncia. Dai rilievi contestati non emergeva alcuna ipotesi di violazione rientrante in una ipotesi delittuosa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, ma il giudice di appello, investito della valutazione della fondatezza di questo preliminare motivo di gravame, non si era pronunciato.

Fa pure rilevare il ricorrente che, essendo la condotta  abusiva  a lui imputata strettamente legata ad una indeterminata ipotesi di interposizione e/o simulazione della stipulazione di atti e negozi, non integrante ipotesi delittuosa penalmente rilevante, l’Ufficio finanziario doveva ritenersi decaduto dal potere di accertamento per avere notificato  l’atto impositivo  il  20 gennaio  2012, oltre i termini ordinari di cui all’art. 43, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, e comunque decaduto dal potere di accertare materia imponibile ai fini Irap, trattandosi di imposta per la quale non opera il cd. raddoppio dei termini.

Lamenta, altresì, che il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciarsi  sull’altro  motivo di gravame con il  quale aveva  eccepito che l’avviso di accertamento  era stato emesso in violazione  dell’art.  7 del d.lgs. n. 269 del 2003, considerato che le sanzioni amministrative calcolate avrebbero dovuto essere poste a carico  della  società  di capitali, in via esclusiva.

2.1 E’ opportuno  premettere,  prima  di  procedere  allo  scrutinio dei mezzi di impugnazione, che la stessa Agenzia delle entrate, in controricorso (al punto 4 alla penultima pagina), ha precisato che con l’atto impositivo impugnato in questa sede non  è  stato  accertato maggior imponibile ai fini IRES, I.V.A. e IRAP a carico di P.F.S., ma nei confronti della   società RA. Costruzioni s.r.l., di cui nell’anno 2005 l’odierno ricorrente era  amministratore  e legale rappresentante, tanto che l’avviso di accertamento è  stato notificato al ricorrente «nella qualità di amministratore di fatto della società».

2.2 Posto ciò, deve, in primo luogo, escludersi, con riguardo a tutti i profili di doglianza fatti valere con il motivo in esame, la configurabilità del vizio di omessa pronuncia  ex 112 cod. proc. civ., posto che, per costante orientamento di questa Corte, ad integrare gli estremi di tale vizio non basta la mancanza  di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale  vizio, pertanto,  non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass., sez. 3, 29/01/2021, n. 2151; Cass., sez. 6-1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718).

I giudici di appello, nell’accogliere l’appello dell’Ufficio finanziario e nel confermare integralmente l’avviso di accertamento, hanno, seppure implicitamente, disatteso le doglianze riproposte con il mezzo in esame.

2.3 Sussiste, invece, il vizio ex 32 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto la sentenza impugnata, in relazione alle questioni prospettate, è affetta da difetto assoluto di motivazione.

Tuttavia, occorre, sul punto, rammentare che nella giurisprudenza di questa Corte prevale l’affermazione per cui la mancanza di motivazione  su  questione  di  diritto  e  non  di  fatto  deve  ritenersi irrilevante,  ai fini della  cassazione  della  sentenza,  qualora  il  giudice   del   merito    sia   comunque    pervenuto    ad        un’esatta       soluzione      del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo,  di  cui  all’art.  111, secondo  comma, Cost., ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un errar in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perché erroneamente ritenuta  assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., sez. U, 2/02/2017, 2731). Con conseguente possibilità d’integrare la motivazione della sentenza impugnata, ove lacunosa.

2.4 Ritiene, pertanto, il Collegio,  con  riferimento  al  primo  profilo di censura sollevato (decadenza dal potere di accertamento), che la motivazione della sentenza impugnata debba essere integrata nei termini che seguono.

2.4.1 Il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma  3, del d.P.R. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 (come modificati dall’art. 37, comma 24, del d.l. n. 223 del 2006), nel testo applicabile ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia  penale, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 30/05/2016, n. 11171).

2.4.2 Secondo la lettura di tale disposizione data dalla sentenza della Consulta sopra richiamata e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass., 5, 7/10/2015, n. 20043; Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037), il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche  alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente  al  momento dell’entrata in  vigore  delle  disposizioni  indicate  ( 4  luglio  2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento  delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data.  Questo  effetto  deriva  non  dalla  natura  retroattiva  delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, «la legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11, prima parte, del primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile; analogamente, l’art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»).

Il raddoppio deriva, quindi, dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna, dato il regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale e processo tributario, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000 (Cass., sez. 6-5, 11/04/2017, n. 9322).

Il giudice tributario deve, dunque, controllare, se  richiesto  con motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza (cioè  circa  la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. In presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.

2.4.3 I termini raddoppiati non si innestano su quelli «brevi» ordinari, ma operano autonomamente allorché si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. In particolare, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 247 del 2011 con riferimento ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, i termini «brevi» ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia  penale per reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie  per le quali v’è l’obbligo di denuncia. È, perciò, irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso di un periodo pari a quello del termine «breve» o possa non essere adempiuto entro tale termine: ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perché essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati  di accertamento (Cass., sez. 5, 16/12/2016, n. 26037; Cass., sez. 6-5, 28/06/2019, n. 17586; Cass., sez.   5,  2/07/2020, n. 13481; Cass., sez. 5, 6/07/2021, n. 19000).

2.4.4 Inconferente è, dunque, nel caso di specie che l’avviso di accertamento sia stato emesso allorché era scaduto il termine breve e che si riferisca ad annualità precedente all’entrata in vigore della disposizione censurata, dovendosi osservare come detta disposizione di legge sia entrata in vigore (4/7/2006) allorché non era ancora scaduto il termine ordinario per l’accertamento (trattandosi dell’annualità 2005).

2.4.5 Inoltre, è  pacifico  che  sia  stata  contestata  l’omessa presentazione della  dichiarazione  dei  redditi  e  della  dichiarazione I.V.A. in relazione alle operazioni imponibili  di cessioni di immobili della società P.R.C. s.r.l., fatto che, a prescindere da ogni valutazione circa il carattere elusivo dell’operazione, integra astrattamente l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000; correttamente, pertanto, il giudice di appello ha ritenuto applicabile il cd. raddoppio dei termini  di cui al comma  3  del citato art. 43 ed escluso, conseguentemente, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere di accertamento in relazione alla ripresa fiscale concernente l’IRES e !’I.V.A..

2.4.6 A diversa conclusione deve invece pervenirsi con riguardo all’Irap, costituendo orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui il «raddoppio dei termini», previsto dall’art. 43 del d.P.R. n.  600 del 1973, non può trovare applicazione anche per tale imposta, poiché le violazioni delle relative disposizioni non  sono presidiate da sanzioni penali (Cass., sez. 6 – 5, 3/05/2018, n. 10483).

3. Quanto, poi, all’ulteriore profilo di doglianza fatto valere con il mezzo in esame – violazione dell’art. 7 del lgs. n. 269 del 2003 – va osservato che secondo un orientamento di questa Corte, cui questo Collegio intende dare continuità, «le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio di società o enti con personalità giuridica, ex art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003), sono esclusivamente a carico della persona giuridica anche quando sia gestita da un amministratore di fatto, non potendosi fondare un eventuale concorso di quest’ultimo nella violazione fiscale sul disposto di cui all’art. 9 del d.lgs.  n. 472 del 1997, che non può costituire deroga  al predetto art. 7, ad esso successivo, che invece prevede l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 472 ma solo in quanto compatibili» (Cass., sez. 25/10/2017, n. 25284).

3.1 E’ stato inoltre precisato che «l’amministratore di fatto di una società alla quale sia riferibile il rapporto fiscale ne risponde direttamente qualora le violazioni siano contestate o le sanzioni irrogate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, stante la disposizione di diritto transitorio di cui all’art. 7, comma 2, del menzionato decreto e la disciplina precedentemente vigente dettata dagli artt. 3, comma 2, e 11 del lgs. 18 dicembre 1997, n. 472» (Cass., sez. 5, 23/04/2014, n. 9122).

3.2 Con la sentenza 28332 del 7 novembre  2018, questa Corte ha chiarito che tale orientamento incontra un limite nella artificiosa costituzione ai fini illeciti della società di capitali, potendo allora  le sanzioni amministrative tributarie essere irrogate «nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate. In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società è, al contempo, trasgressore e contribuente, e la  persona giuridica è una mera  fictio,  creata  nell’esclusivo  interesse  della persona fisica. Non opera pertanto, in tale caso, l’art. 7 del d.l. n. 269/2003, secondo cui nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente, in quanto detta norma intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente e, in particolare, l’ipotesi  di un amministratore di una  persona  giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni  nell’interesse della persona giuridica medesima» (così, in motivazione, Cass. n. 5924 del 8/3/2017, che richiama Cass. n. 19716 del 28/8/2013).

3.3 La C.T.R. ha implicitamente disatteso la doglianza prospettata, cosicché non è configurabile il lamentato vizio di omessa pronuncia, e aderendo alla ricostruzione operata dall’Amministrazione finanziaria ha ritenuto il ricorrente, quale amministratore di fatto della società, solidalmente responsabile per le sanzioni comminate alla società. Invero, con accertamento di fatto, non scrutinabile in questa sede, ha rilevato la sussistenza di un interesse personale del P.F.S. ad agire in nome e per conto della P.R.C.  s.r.l., che è stata «svuotata» dei propri beni, ceduti a favore di  società unipersonali  di cui il P.F.S. era socio, ed ha posto in rilievo che, anche a seguito della cessione delle quote in favore del cittadino albanese, l’odierno ricorrente ha continuato a gestire le operazioni bancarie per conto della società ceduta.

Le argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata non incorrono dunque nelle violazioni contestate e non si discostano dalla giurisprudenza sopra richiamata, che consente l’irrogabilità alla persona fisica di sanzioni amministrative riferibili a società di capitali, qualora, come nel caso in esame, l’amministratore di fatto abbia agito nel proprio esclusivo interesse.

4. Con il secondo motivo il contribuente deduce la «illegittimità della sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la qualità di amministratore di fatto del ricorrente,  che  è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.». Sostiene che in sede di merito aveva contestato tale qualità, in mancanza di elementi oggettivi di prova del compimento di atti gestori, ma il giudice di appello, nel riformare la sentenza di primo grado, non aveva supportato la decisione con elementi idonei a dimostrare l’ingerenza nell’attività di gestione dell’impresa.

Precisa, altresì, che il giudice di primo grado aveva escluso la sua qualità di amministratore di fatto e che in sede di appello l’Agenzia delle entrate aveva riproposto gli stessi elementi indicati nell’avviso di accertamento, riportando il solo dato della verifica dei conti correnti bancari della società dalla quale era emerso che egli aveva effettuato movimentazioni ininterrottamente fino a maggio 2006, senza tuttavia fornire evidenza di dette movimentazioni. I giudici regionali, accogliendo l’appello, ad avviso del contribuente, si sono appiattiti sulla tesi difensiva dell’Agenzia delle entrate, non adeguatamente valutando il fatto decisivo riferito alla qualità  o  meno  di amministratore di fatto e non vagliando in modo critico la prova della «continuità della  gestione», né la sussistenza  di accordi simulatori, né l’eventuale vantaggio fiscale conseguito attraverso l’intervenuta cessione delle quote della società.

4.1 Il secondo motivo è inammissibile.

4.2 La censura formulata è sostanzialmente volta a sindacare l’apprezzamento delle risultanze istruttorie svolto dai giudici di merito e si risolve in una mera critica alle argomentazioni attraverso le quali gli stessi sono pervenuti al loro convincimento.

Il ricorrente, infatti, pur lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo, si limita a dolersi della  ricostruzione  della  vicenda  operata dalla  C.T.R., ma  omette  di indicare  la circostanza  di fatto che i giudici di secondo  grado  avrebbero  trascurato  di prendere  in  considerazione e che, se adeguatamente valutata, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione.

Invero, il Collegio  non può che rilevare che le contestazioni  mosse dal ricorrente con il mezzo in esame non sono  inquadrabili  nel paradigma del nuovo art. 360, primo comma,  n.  5,  cod.  proc.  civ., come novellato dall’art. 54,  comma  1,  lett.  b),  del  ci.I.  22  giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, 134, applicabile alla fattispecie in esame.

La nuova formulazione del vizio di legittimità ha infatti limitato la impugnazione alla sola ipotesi di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di  discussione  tra  le parti», con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità  rimane circoscritto alla sola verifica della   esistenza   del   requisito   motivazionale   nel   suo   contenuto «minimo costituzionale» richiesto  dall’art.  111, sesto comma,  Cost. ed individuato «in negativo» dalla consolidata giurisprudenza  di questa Corte in relazione alle sole ipotesi che si convertono nella violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità. Pertanto, qualora non si contesti l’inesistenza del requisito motivazionale del provvedimento, il vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un «fatto storico» controverso e che appaia «decisivo» ai fini di una diversa decisione,  non essendo più  consentito  criticare  la  sufficienza  del  discorso  argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali, acquisiti al giudizio, ritenuti dal giudice di merito determinanti oppure scartati perché non pertinenti  o recessivi  (Cass., sez. U,  7/04/2014, n. 8053; Cass., sez. U, 22/09/2014, n. 19881; Cass., sez. 3, 10/06/2016, n. 11892).

4.3 Ebbene, la C.T.R. ha desunto la qualità di amministratore di fatto in capo al P.F.S. non solo dal fatto che egli aveva un interesse ad agire in nome e per conto della P.R.C. s.r.l., considerato che gli immobili da questa ceduti sono stati acquisiti dalle società unipersonali R. s.r.l. e N. s.r.l., di cui lo stesso P.F.S. era socio unico, ma anche dal fatto, emergente dalle indagini bancarie e finanziarie effettuate dall’Ufficio finanziario, i cui esiti sono stati evidenziati nell’avviso di accertamento, che l’odierno ricorrente ha  continuato  ad  operare,  «ininterrottamente  fino  al maggio  2006», sul  conto  corrente  intestato  alla  società  cedente,  pur  avendo  ceduto le quote da lui detenute, sin dal dicembre 2005, al cittadino albanese L.D..

Tali elementi fattuali, su cui poggia il decisum, non risultano in alcun modo scalfiti dalle deduzioni difensive del ricorrente, che sono volte a criticare il convincimento che il  giudice d’appello  si è formato in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della attendibilità delle fonti di prova offerte e, quindi, a sollecitare un riesame del merito della controversia, che non dà luogo al vizio di cui al novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.

5. Con il terzo motivo, denunciando  «illegittimità  della  sentenza per violazione degli    7,  12, comma  7,  della  legge  n.  212  del 2000, 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 55 del d.P.R. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.», il ricorrente censura la decisione gravata per non avere rilevato il  difetto  di  preventivo   contraddittorio  e  la  carenza   di motivazione dell’atto impositivo.

Precisa il ricorrente che, benché sia stato invitato dall’Ufficio a fornire la documentazione contabile della P.R.C. s.r.l., erroneamente i giudici di appello hanno affermato che egli non avrebbe raccolto l’invito, considerato che egli aveva risposto all’invito, presentandosi il 22 settembre del 2011 e dichiarando  in quella  sede di non essere più in possesso di alcuna documentazione contabile e fiscale della società relativa all’anno 2005 in quanto consegnata a L.D., cessionario delle quote sociali.

Il diritto del contribuente ad interloquire con il Fisco – soggiunge – va riferito ad ogni procedimento impositivo ed in relazione ad ogni pretesa fiscale che sia idonea ad incidere sulla situazione soggettiva del soggetto verificato; segnala, inoltre, che ove  l’Ufficio  avesse voluto contestare un abuso del diritto, avrebbe dovuto sicuramente instaurare, a pena di nullità, un contraddittorio rivolto ad acquisire le ragioni della scelta adottata nella stipula dei negozi che l’Ufficio ha ritenuto «simulati».

Quanto all’eccepito difetto di motivazione dell’avviso ed  alla illegittimità  della  rettifica  «induttiva»   del   reddito   d’impresa,   del valore della produzione e del volume d’affari, ribadisce il ricorrente di avere evidenziato la  violazione  del  richiamato  art.  39,  secondo comma, in quanto l’Ufficio aveva portato a tassazione ai fini IRES i presunti  ricavi  «ordinari»  tratti  dai   corrispettivi   derivanti   da operazioni imponibili (ai fini I.V.A.) al  netto  dei  soli  «acquisti» (operazioni passive) detraibili rilevati dalla  comunicazione  annuale, senza considerare gli altri costi deducibili ai fini delle imposte dirette, cosicché era stato determinato un ingiustificato reddito  d’impresa tassabile ai fini IRES  e IRAP al lordo e non al netto dei costi correlati a detti ricavi induttivamente calcolati. Aggiunge  che  aveva  anche ribadito la mancata detrazione da parte dell’Ufficio dell’I.V.A. sugli acquisti rilevati dai corrispettivi imponibili in seno alla procedura di accertamento induttivo ex art. 55 d.P.R. n. 633 del 1972, nonché l’illegittimità della ripresa I.V.A. ad aliquota ordinaria e non ridotta.

Aveva pure riproposto la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ., non essendo stata dimostrata, né in base a prove certe, né in base a presunzioni semplici, l’interposizione fittizia di cui all’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, lamentando l’irregolare svolgimento delle indagini bancarie e finanziarie per assenza di un previo contraddittorio.

5.1 Occorre premettere, invero, che, nella vicenda in giudizio, l’accertamento non è stato preceduto da un accesso, ispezione  o verifica, ma si è tradotto  in un accertamento  a  tavolino,  fondato sulle indagini bancarie e sugli atti di diretta acquisizione da parte dell’Ufficio.

Ciò comporta, quanto alle imposte dirette, l’infondatezza della esigenza di un previo contraddittorio, trattandosi di accertamento induttivo in cui non è previsto un obbligo generalizzato di preventivo contraddittorio.

5.2 Parimenti infondata è la doglianza quanto all’accertamento ai fini IVA. È ben vero, infatti, che, con riguardo ai tributi armonizzati, l’obbligo del contraddittorio preventivo discende direttamente dalla disciplina unionale alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, sicché l’Amministrazione, ove adotti provvedimenti destinati ad incidere sulle posizioni soggettive dei destinatari, è tenuta a mettere costoro in condizione di esporre  utilmente  il loro punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento  dell’atto medesimo (già Corte di Giustizia, sentenza 18 dicembre 2008, in C-349/07, Sopropé, punto 37; ex multis sentenza 22 ottobre 2013, in C276/12, Sabou,   punto   38;   sentenza   17  dicembre   2015,   in   C-419/14, WebMindlicenses, punto 84).

La giurisprudenza unionale ha comunque chiarito che qualora l’Amministrazione non sia stata rispettosa dell’obbligo di contraddittorio, la violazione – in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze (come pure precisato, per il nostro ordinamento, da Cass. n. 701 del  15/01/2019)  – comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (cd. prova di resistenza), ossia se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa (Corte di Giustizia, sentenze 10 ottobre 2009, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware, in C-141/08, punto 94; 10 settembre 2013, M.G. e N.R., in C-383/13, punto 38;  26 settembre  2013, Texdata Software, in C-418/11, punto 84; 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Da tema Hellmann Worldwide Logistics, in C-129/13 e C- 130/13, punti 79 e 79).

5.3 Come è stato precisato anche da questa Sezione (Cass., 5, 2021, n. 20436), il parametro di riferimento a tal fine è, dunque, costituito dal principio di effettività – per il quale  le  modalità procedurali interne «non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione» – che, tuttavia, come anche recentemente ribadito dalla Corte di Giustizia, «non esige che una decisione contestata, in quanto adottata in violazione dei diritti della difesa, sia annullata in tutti i casi. Infatti, una violazione dei diritti della difesa determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di detta irregolarità, il procedimento sarebbe potuto giungere a un risultato diverso» (sentenza 4 giugno 2020,  se C.F.  SRL,  in  c- 430/19, punti 35 e 37).

5.4 Peraltro, le Sezioni Unite, con la sentenza 24823 del 09/12/2015, hanno utilmente precisato  che il  requisito in questione va inteso «nel senso che l’effetto della nullità dell’accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali» ossia che «non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato …, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto» (Cass., sez. 6-5,  27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6- 5, 8/01/2019, n. 218).

5.5 Nella vicenda in giudizio, anche a voler prescindere dal rilievo che, invece, il contraddittorio si è sviluppato  con effettività  e pienezza nei confronti del ricorrente, che è stato invitato a depositare la documentazione contabile della società, risulta  evidente  che  la doglianza è del tutto carente quanto alla richiesta prova di Il ricorrente lamenta la  violazione  del  contraddittorio,  ma  in  alcun modo deduce o articola come, in mancanza  di  tale  vizio,  il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa e quali ragioni avrebbe potuto in concreto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, cosicché deve ritenersi che la C.T.R., escludendo la necessità di un previo «avviso o invito alla controdeduzione» nell’ambito di accertamento analitico induttivo, non sia incorsa nella violazione denunciata.

6. Inammissibile è la dedotta  violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente, in quanto, sebbene manchi nella motivazione della sentenza impugnata un espressa statuizione sul punto, il ricorrente, nell’illustrazione del motivo, omette di specificare  le ragioni  per le quali l’avviso difetterebbe di motivazione, formulando in tal modo una contestazione del tutto generica e non autosufficiente, ricadendo sul ricorrente l’onere di indicare in modo puntuale le presunte carenze dell’atto impositivo, che è atto amministrativo e non atto

7. Quanto alle ulteriori doglianze del ricorrente volte a contestare la ricostruzione dei ricavi e la rettifica induttiva del reddito d’impresa, i giudici di merito si sono  limitati ad affermare  che l’accertamento trova giustificazione nelle irregolarità riscontrate, ed in particolare, nell’omessa presentazione delle dichiarazioni I.V.A. e IRES, in tal modo uniformandosi al principio più volte affermato da questa Corte secondo cui, nella ipotesi di omessa presentazione  della dichiarazione, l’Ufficio può fare ricorso a presunzioni «supersemplici», anche prive, cioè, dei requisiti  di gravità, precisione e concordanza, comportanti l’inversione dell’onere della  prova  a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata induttivamente dall’Amministrazione (Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 10/02/2017, n. 3567).

Tuttavia, con sentenza n. 225/2005, la Corte costituzionale ha ricordato che devono dedursi i costi dai ricavi induttivamente o presuntivamente ricostruiti, in modo da rispettare il principio  di capacità contributiva, valorizzando l’incidenza percentuale dei costi relativi e, alla luce dell’intervento del Giudice delle leggi, questa Corte ha avuto modo di statuire che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte  del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, pur potendo ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, deve, comunque,  determinare,  sia pure induttivamente, i costi  relativi ai maggiori  ricavi accertati,  pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 109 del d.P.R. n. 917 del  1986  in  tema  di  accertamento  dei  costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (cfr. Cass. 5, n. 20/01/2017, n. 1506, ma già anche  Cass.,  sez.  5,  19/02/2009,  n. 3995).

In altri termini, quanto all’accertamento globalmente induttivo del reddito d’impresa, vale sempre la regola che il fisco deve ricostruire il reddito, tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinandole induttivamente e/o presuntivamente, al fine di evitare  che,  in contrasto con il principio della capacità contributiva, venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto (Cass., 6-5, 23/10/2018, n. 26748; Cass., sez. 5, 15/10/2013, n. 23314; Cass., sez. 5, 30/06/2020, n. 13119; conf. Circolare  dell’Agenzia  delle entrate n. 9/E/2015, §2). Ciò, peraltro, in conformità a quanto riconosciuto nei documenti di prassi, laddove si prevede che,  in queste   fattispecie,   «l’ufficio  non  può  non  tener di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei  …  ricavi accertati … » e che «il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche  in misura   percentualistica   –   in   ragione   dei ricavi accertati… » (Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 32/E/2006).

La  sentenza   impugnata   non  si  pone  in   linea   con  i  principi suesposti e, pertanto, sotto tale profilo, il mezzo in esame va accolto.

8. Non si sottraggono, invece, alla declaratoria di inammissibilità per difetto di autosufficienza gli altri profili di doglianza  fatti  valere con il mezzo in esame, con i quali si lamenta la mancata detrazione di costi o l’errata applicazione dell’aliquota ordinaria I.V.A. (al 20 per cento), anziché di quella ridotta (al 10 per cento), poiché il ricorrente ha omesso di trascrivere in ricorso i passi degli scritti difensivi in cui avrebbe sollevato tali questioni e di specificare, in concreto, le ragioni per cui la T.R. sarebbe incorsa nelle violazioni denunciate.

9. Con il quarto motivo il ricorrente deduce la «Illegittimità della sentenza per violazione degli artt. 89 e 47, comma 1, del t.u.i.r. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per l’acritica applicazione dell’imputazione degli utili da partecipazione in capo al ricorrente non accertati in detta qualità dall’Ufficio sul presupposto dell’omessa dichiarazione da parte della società partecipata a ristretta base azionaria. Erroneità e falsità del giudizio in relazione all’art. 360, primo comma, 4, cod. proc. civ.». Rileva che l’Ufficio  aveva emesso l’avviso di accertamento nei suoi confronti  qualificandolo come «amministratore e gestore di fatto», senza emanare l’avviso impositivo anche in relazione alla qualità di socio (unico) e ai fini del recupero dell’IRPEF.

Il giudice di appello, secondo il ricorrente, ha in modo sbrigativo concluso che «in ordine al  riverbero  dei  rilievi  inerenti  i  ricavi  sui redditi del  socio  persona  fisica,  deve  ribadirsi  la  legittimità dell’operato, attesa  la  ristretta  base  familiare  della  compagine sociale», senza verificare se potesse  trovare  applicazione  la  regola della cd. presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati nei confronti della società a ristretta base azionaria in capo ai soci.

9.1 La censura è inammissibile.

9.2 Anche se l’atto impositivo afferma la rilevanza dei maggiori redditi accertati in capo alla società ai fini del recupero di reddito di partecipazione (Irpef) in capo al socio, è del tutto evidente che, in assenza di un atto impositivo finalizzato alla ripresa fiscale di Irpef in capo al P.F.S., in qualità di socio della società a ristretta base azionaria, il ricorrente non abbia interesse a dolersi della statuizione oggetto di censura con la quale la C.T.R. ha, impropriamente, fatto riferimento alla presunzione di riparto degli utili sociali extracontabili.

10. Conclusivamente, vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il primo ed il terzo motivo di ricorso e rigettati il secondo ed il quarto motivo di ricorso, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla C.T.R., in diversa composizione, affinché provveda al riesame in ordine alle censure accolte, nonché alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il primo ed il terzo motivo di ricorso; rigetta il secondo ed il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria  regionale  della Campania, in  diversa  composizione,  cui  demanda  di  provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.