Corte di Cassazione ordinanza n. 10679 depositata il 4 aprile 2022
utili extracontabili – società di capitali a base ristretta -sospensione art. 295 cpc
RILEVATO CHE
1. Gerardo Rega ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che aveva accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della C.T.P. di Napoli che, aderendo alle doglianze del contribuente, aveva annullato l’avviso di accertamento emesso, per l’anno 2004, ai fini del recupero di Irpef, sulla base del maggior reddito accertato in capo alla Strianese Conserve r.l., società a ristretta base azionaria, di cui il Rega era socio.
2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, ha accolto l’impugnazione dell’Agenzia delle entrate, ritenendo provata la ristretta base azionaria della società e presuntivamente distribuiti ai soci gli utili accertati, richiamando la giurisprudenza di questa Corte che riconosce al contribuente la possibilità di fornire la prova che gli utili extra-contabili sono stati accantonati ovvero Ha, in particolare, rilevato che, nel caso di specie, dalla sentenza emessa in grado di appello nei confronti della Strianese Conserve s.r.l. si evinceva che era stata la stessa società ad eccepire che parte del maggior reddito accertato consisteva in maggiori ricavi derivanti dal conto finanziamento socio, operazione contabile che l’Ufficio aveva ritenuto finalizzata ad occultare semplici ricavi, posto che i soci, tra l’altro, non avevano dimostrato in sede di indagini finanziarie una capacità contributiva tale da giustificare il finanziamento. A fronte di tale circostanza, ad avviso dei giudici di appello, era evidente che il Renga avrebbe dovuto fornire la prova contraria, che non era stata tuttavia offerta.
3. L’Agenzia delle entrate ha resistito mediante controricorso.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 54, 61 e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe minimamente preso in considerazione la memoria di costituzione in giudizio dallo stesso depositata, e, segnatamente, la circostanza che l’avviso di accertamento emesso nei confronti della Strianese Conserve s.r.l. non era ancora divenuto definitivo. Inoltre, secondo il ricorrente, nonostante la documentazione esibita, i giudici di appello avevano trascurato di considerare che l’accertamento a danno della società riguardava un maggior reddito di natura esclusivamente contabile che non si prestava, pertanto, ad una eventuale occulta distribuzione ai soci.
1.1 Il motivo non può essere accolto.
1.2 La censura è inammissibile, per carenza di autosufficienza, laddove il ricorrente si duole che i giudici di merito non avrebbero fatto menzione del contenuto della memoria di costituzione in giudizio dallo stesso depositata, in quanto il Renga omette di riprodurre o trascrivere in ricorso le deduzioni difensive esposte in tale memoria, in tal modo non consentendo a questa Corte di vagliare l’eventuale fondatezza della doglianza.
Peraltro, benché la sentenza impugnata non contenga alcun riferimento a tale circostanza, questo Collegio deve rilevare che l’accertamento rivolto alla società Strianese Conserve s.r.l. è ormai divenuto definitivo. Infatti, questa Corte, con la sentenza n. 27155 del 28 dicembre 2016, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla società avverso la sentenza d’appello che aveva integralmente confermato l’atto impositivo ad essa notificato a rettifica delle dichiarazioni fiscali per l’anno 2004.
1.3 La doglianza è, invece, infondata nella parte in cui prospetta una carenza di motivazione per avere i giudici regionali trascurato di considerare che l’accertamento emesso a danno della società riguardasse un reddito di natura esclusivamente contabile.
Ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass., sez. 6 – 5, 7/04/2017, n. 9105).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, in particolare, chiarito che «La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da errar in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232).
Ciò non ricorre nel caso in esame, laddove la C.T.R., sia pure in maniera sintetica, ha ritenuto di dovere confermare la ripresa a tassazione – aderendo alla ricostruzione dell’Agenzia secondo cui l’operazione contabile di finanziamento celava in realtà ricavi non contabilizzati – e di considerare operante la presunzione di distribuzione di utili tra i soci, vertendosi in ipotesi di società di capitali a ristretta base azionaria, in ragione del numero ridotto dei soci e dei rapporti molto stretti che li legavano.
Si tratta di una motivazione che non può considerarsi meramente apparente, in quanto esplicita le ragioni della decisione, posto che la considerazione complessiva del tessuto motivazionale, nella totalità delle sue componenti testuali, risulta idonea a rendere conoscibile il percorso logico-giuridico seguito dalla Commissione tributaria regionale. Le conclusioni a cui i giudici di appello sono pervenuti, d’altro canto, condivisibili o meno, evidenziano in modo chiaro il percorso argomentativo seguito e, implicitamente, disattendono le deduzioni svolte dalla parte contribuente incompatibili con l’impostazione della decisione.
2. Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 295 proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., il contribuente contesta alla C.T.R. di avere omesso di applicare la norma richiamata in rubrica, dato che il procedimento riguardante l’accertamento emesso a danno del socio doveva essere sospeso in attesa della definizione di quello incardinato dalla società nei confronti dell’avviso di accertamento ad essa rivolto.
2.1 La censura, in tesi fondata, non può condurre alla cassazione della sentenza impugnata.
2.2 Con orientamento ormai consolidato questa Corte ha affermato che la sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ. è applicabile anche al processo tributario qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità tale che la definizione dell’uno costituisce indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto al giudicato (Cass., sez. 6-5, 08/02/2012, n. 1865; Cass., sez. 5, 30/11/2012, n. 21396; Cass., sez. 5, 20/09/2017, n. 21765).
2.3 E poiché si è pure chiarito che l’accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a base ristretta, in ipotesi come quelle riferibili alla contestazione di utili extracontabili, costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, si è anche affermato che non ricorrendo, come invece accade per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in ordine ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’art. 1 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass., sez. 5, 31/01/2011, n. 2214).
La sospensione pertanto s’impone ogni qual volta vi sia pendenza separata di procedimenti relativi all’accertamento del maggior reddito contestato ad una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società (Cass., sez. 6-5, 31/10/2014, n. 23323; cfr. anche Cass., sez. 6-5, 07/03/2016, n. 4485). I principi dispensati riguardano dunque non solo ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili, ma più in generale tutti i casi di contestazioni rivolte alla compagine sociale, che siano relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.
2.4 Posto ciò, nel caso in esame l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società a ristretta base azionaria è, medio tempere, divenuto definitivo e, pertanto, la sentenza va esente dalla censura ad essa
3. Con il terzo motivo – rubricato: violazione e/o falsa applicazione del d.P.R. n. 917 del 1986 e degli artt. 2697, 2727 e 2729 civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. e con riferimento alla consolidata giurisprudenza di codesta Corte di cassazione – il ricorrente ribadisce che l’accertamento a carico della società aveva natura contabile, poiché l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione l’importo del conto finanziamento soci, posta contabile, e quattro fatture di acquisto sul presupposto che i relativi costi fossero carenti del requisito della inerenza e, pertanto, non deducibili, benché fosse pacifico che tali costi erano stati effettivamente sostenuti. Soggiunge che la giurisprudenza di questa Corte, in merito alla presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati, si riferisce agli utili extra contabili e non ad utili derivanti da costi non deducibili o da rettifiche al ribasso di passività nello stato patrimoniale. Peraltro, vertendosi in ipotesi di accertamento a carico della società di natura esclusivamente contabile, incombeva sull’Amministrazione finanziaria l’onere di fornire prova dell’eventuale passaggio di poste finanziarie dalla società al socio.
3.1. Il terzo motivo è infondato.
3.2 E’ opportuno rammentare che, in caso di società a ristretta base partecipativa, per questa Corte è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Cass., 5, 2/03/2011, n. 5076; Cass., sez. 5, 22/04/2009, n. 9519; Cass., sez. 5, 18/10/2017, n. 24534; Cass., sez. 5, 22/11/2017, n. 27778; Cass., sez. 5, 20/12/2018, n. 32959; Cass., sez. 6-5, 24/01/2019, n. 1947; Cass., sez. 5, 11/08/2020, n. 16913).
3.3 Il fondamento logico della costruzione giurisprudenziale si rinviene nella «complicità» che normalmente avvince un gruppo societario composto da poche persone, in genere da due fino ad un massimo di sei (ma non v’è alcun dato numerico preciso, trattandosi di una presunzione semplice), sicché vi è la presunzione che gli utili extracontabili siano stati distribuiti ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, salva la prova contraria a carico del contribuente (Cass., 5, 26 maggio 2008, n. 13485). Non è, poi, in alcun modo necessaria l’esistenza di un rapporto di parentela stante l’esiguità del numero dei soci (Cass., sez. 6-5, 12/11/2012, n. 19680).
3.3 Si è evidenziato che nella presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili il fatto noto, che sorregge la distribuzione degli utili extracontabili, non è costituito dalla sussistenza di questi ultimi, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass., sez. 6-5, 19/03/2015, n. 5581). E tali principi sono stati completati con l’ulteriore precisazione che la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio può essere vinta dal contribuente fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cass., sez. 6-5, 2/02/2016, n. 1932; Cass., sez. 5, 14/07/2017, n. 17461; Cass., sez. 6-5, 22/12/2016, n. 26873; Cass., sez. 6-5, 9/07/2018, n. 18042; Cass., sez. 5, 27/09/2018, n. 23247).
3.4 Secondo l’assunto difensivo del ricorrente, la ripresa di costi, ritenuti non inerenti, e di una posta meramente contabile riguardante il conto finanziamento soci non sarebbe di per sé idonea a determinare l’esistenza di maggiori utili distribuibili e non consentirebbe, di conseguenza, l’applicazione della presunzione di riparto, tra i soci, degli utili occultati.
La tesi non è condivisibile.
Come rilevato in controricorso dall’Agenzia delle entrate, le voci recuperate a tassazione avevano un loro diretta incidenza sull’imponibile della società, considerato che l’indeducibilità di costi fatturati e il mancato riconoscimento del finanziamento da parte dei soci comporta un inevitabile incremento dell’imponibile e genera un maggior utile, non contabilizzato, al quale non può che applicarsi la presunzione di distribuzione degli utili, in virtù della ristretta compagine sociale.
A tal fine è utile richiamare il principio di diritto, già enunciato da questa Corte (Cass., sez. 5, 29/01/2008, n. 1906), secondo cui «il reddito imponibile di una società di capitali aumenta del valore dei costi fittizi e corrisponde a ricavi extrabilancio», salva ovviamente la prova contraria da parte del socio, che, nel caso di specie, non risulta essere stata offerta, come accertato dalla C.T.R.
Invero, la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili da parte di società di capitali a ristretta base azionaria non si applica solo se il maggior reddito accertato tragga origine da ricavi occultati o da costi fittizi, ma anche nell’ipotesi di costi indeducibili.
Questa Sezione (Cass., sez. 5, 19/10/2012, n. 17959 e n. 17960) ha sul punto affermato che i costi costituiscono un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché quando essi siano «fittizi» o «indeducibili», scatta la presunzione che il medesimo è maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio, con la conseguenza che non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi.
Tale principio, invero, trova applicazione nelle società a ristretta base partecipativa quando la società abbia indicato in bilancio dei costi inesistenti, quindi indeducibili perché non documentati. In tale ipotesi, infatti, costi non sono stati in alcun modo sostenuti dalla società, sicché il reddito di impresa effettivo conseguito nel corso dell’esercizio è costituito da quello dichiarato con l’aggiunta però dei costi inesistenti. Tale reddito maggiorato, quindi, si presume sia stato distribuito nel corso del medesimo esercizio ai soci. E ad analoga conclusione deve pervenirsi nel caso in cui il costo è indeducibile, per le più variegate ragioni, ma è stato effettivamente sostenuto, con somme erogate in concreto dalla società. Anche in tali casi la società matura un reddito di impresa di importo maggiore a quello dichiarato, con presunzione di distribuzione dello stesso ai soci in proporzione della quota posseduta. In tali ipotesi, infatti, la società eroga tutte le somme presenti nel passivo del conto economico tra i costi, ma si tratta di costi indeducibili che vanno ad alterare il conto economico, che, una volta emendato da tale errore, comporta inevitabilmente ricavi maggiori e, quindi, un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato. Anche in questo caso si genera un maggiore reddito che si presume distribuito ai soci delle società a ristretta partecipazione.
Anche di recente, questa Corte, affrontando la questione, ha ribadito (Cass., sez. 5, 24 luglio 2020, n. 15895) che «i costi, come i maggiori ricavi non dichiarati, possano essere assunti nella determinazione del quantum degli utili extracontabili presunto come distribuiti tra i soci della società a ristretta base partecipativa». E, ancora, che anche i costi non deducibili portano ad un aumento del reddito di impresa e ad una conseguente distribuzione dei maggiori utili tra i soci di società a ristretta partecipazione (Cass., sez. 6-5, 18/02/2020, n. 3980; Cass., sez. 5, 2/02/2021, n. 2224).
Non sussistendo ragioni per discostarsi da tale orientamento giurisprudenziale, deve anche in questa sede confermarsi che i costi indeducibili, quale che sia la ragione di tale indeducibilità, non possono essere considerati nel passivo del conto economico del bilancio, che, per il principio di derivazione di cui all’art. 83 d.P.R. 917/1986, è alla base del bilancio fiscale. Cosicché, eliminate le poste indeducibili dal passivo del conto economico, ne scaturisce, a parità dei ricavi già contabilizzati, un aumento del reddito di impresa e maggiori imposte a carico della società e, quindi, dei soci.
Analoghe considerazioni valgono anche per la ripresa del finanziamento dei soci, trattandosi di posta passiva del conto economico.
4. Il ricorso va, pertanto, respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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