Corte di Cassazione ordinanza n. 10712 depositata il 4 aprile 2022
accertamento prelevamenti e versamenti bancari – accertamento induttivo puro – contenzioso tributario – omessa pronuncia
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate – Ufficio di Napoli 2 notificava a C.M., esercente l’attività di commercio al dettaglio di articoli di gioielleria, un avviso di accertamento con cui recuperava importi Irpef, Irap e Iva, avuto riguardo all’anno 2005. Nella prospettazione erariale emergevano, infatti, la condotta antieconomica del contribuente nell’anno d’imposta, prelevamenti e versamenti non giustificati, la tenuta irregolare delle scritture contabili. Il reddito complessivo e il volume d’affari venivano, pertanto, rideterminati, dal che la maggiore imposizione fiscale tradotta nell’avviso di accertamento.
Il C.M. ricorreva alla CTP di Napoli. Quest’ultima, ritenendo legittimo l’impiego da parte dell’Ufficio del metodo dell’accertamento induttivo di cui all’art. 39, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973, accoglieva solo parzialmente il ricorso in relazione ai costi sopportati, riducendo nella misura del 30% l’importo dei ricavi accertati in capo al contribuente.
Avverso la sentenza, sia il C.M. che – successivamente – l’Agenzia proponevano appello.
La CTR della Campania rigettava il gravame del contribuente e accoglieva quello dell’Agenzia, per l’effetto confermando l’avviso di accertamento originariamente impugnato e compensando le spese del giudizio.
Il ricorso di C.M. è affidato a sei motivi.
L’Agenzia è rimasta intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, il contribuente lamenta l’illegittimità della sentenza per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la CTR trascurato di pronunciarsi sul “fatto dedotto, decisivo per il giudizio, della già emersa corrispondenza tra talune delle movimentazioni bancarie desumibili dagli estratti conto in possesso dell’Ufficio sia in ordine ai prelevamenti, che ai versamenti, attraverso la lettura delle causali giustificatrici e dei nomi dei beneficiari o traenti degli assegni emessi o ricevuti, e le scritture contabili in possesso dell’Ufficio, oltre che di quanto già dichiarato (come corrispettivi e costi) nella dichiarazione dei redditi, Iva e Irap presentata dal ricorrente”; in particolare il giudice a quo avrebbe tralasciato di considerare che “erano stati provati e giustificati o non contestati movimenti vancari, sia in entrata che in uscita, imputabili all’attività d’impresa” nonché “altri movimenti bancari, sia in entrata che in uscita, estranei all’attività d’impresa e imputabili alla sua vita personale e familiare”.
Il motivo è inammissibile.
Le critiche articolate dalla difesa del ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità. Esse, sotto l’apparente deduzione del vizio di motivazione, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originato l’accertamento fiscale. In breve, la complessiva censura traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti.
Quello che viene segnalato quale fatto controverso e decisivo attiene – genericamente – alla “corrispondenza” tra le movimentazioni bancarie e le scritture contabili e sulla giustificazione piena delle prime. Tuttavia, come questa Corte ha già affermato l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nell’attuale testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018).
Con il secondo motivo di ricorso, il contribuente lamenta l’illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la CTR reso una motivazione che contiene la mera indicazione della propria fonte di riferimento, ma non sottende una autonoma valutazione critica del giudicante.
Il motivo è infondato.
La CTR, sia pure con motivazione asciutta, esprime un nucleo argomentativo corretto, in quanto in linea con i principi espressi dalla nomofilachia, mirando ad escludere forfettarie decurtazioni di costi non specificamente dimostrati.
‘E stato, infatti, osservato che “In tema di imposte sui redditi, l’accertamento induttivo di maggiori ricavi derivanti da un’attività di impresa non comporta l’automatico e forfettario riconoscimento degli elementi negativi del reddito, incombendo sul contribuente l’onere di provare la certezza dei costi e la loro inerenza all’attività” (Cass. n. 9888 del 2017).
Si è soggiunto che “In tema di accertamento induttivo delle imposte sui redditi, l’Amministrazione è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purché emergenti dagli accertamenti o dimostrate dal contribuente, su cui grava l’onere della prova dei costi deducibili dall’ammontare dei ricavi induttivamente determinati” (Cass. n. 22266 del 2016).
Si è, infine, considerato che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 fonda una presunzione relativa circa la natura di ricavi sia dei prelevamenti sia dei versamenti su conto corrente, superabile attraverso la prova, da parte del contribuente, che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; pertanto, in virtù della disposta inversione dell’onere della prova, grava sul contribuente l’onere di superare la suddetta presunzione (relativa) dimostrando la sussistenza di specifici costi e oneri deducibili, che dev’essere fondata su concreti elementi di prova e non già su presunzioni o affermazioni di carattere generale o sul mero richiamo all’equità” (Cass. n. 15161 del 2020; Cass. n. 16896 del 2014; Cass. 13035 del 2012; cfr. anche Cass. 11102 del 2017).
In definitiva, l’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, al pari dell’art. 51 d.P.R. n. 633 del 1972, impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale (Cass. n. 25365 del 2007; Cass. n. 20858 del 2007; Cass. n. 19330 del 2006).
Con il terzo motivo si contesta la violazione del “principio di non contestazione“, a cagione dell’errata e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1 d.lgs. n. 546 del 1992, 167,416, 88 e 115 c.p.c., 111 Cast., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. “e comunque in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4″, per avere la CTR “accolto la pretesa erariale sull’assunto che parte qui ricorrente non avesse provato una circostanza (la giustificazione di taluni versamenti e prelevamenti bancari, e segnatamente di quelli che avevano concorso a formare il reddito d’impresa ed il volume d’affari IVA e valore della produzione IRAP) che in realtà, doveva ritenersi provata, proprio perché non contestata”.
Il motivo è inammissibile.
Il mezzo di censura si concentra sulla corrispondenza fra prelevamenti e risultanze contabili e sulla giustificatezza che si correlerebbe ai primi sotto il profilo della “non contestazione”.
In realtà, la CTR ha contraddetto sia la corrispondenza che la giustificatezza in parola, argomentando su entrambi i profili. Segnatamente, il giudice di seconde cure evidenzia che “non risulta che il contribuente abbia prodotto alcuna prova giustificativa a supporto delle proprie tesi difensive”; sottolinea, inoltre, la mancanza di “prove specifiche fornite dal contribuente” e l’ “assenza di produzione di prove attestanti la rispondenza delle tesi difensive”. Pertanto, la censura tende a rivisitare sia il primo che il secondo profilo, con l’aspirazione di una lettura maggiormente favorevole al contribuente. L’inammissibilità appare conclamata.
Con il quarto motivo viene denunciata l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973 e 51, 54 e 55 d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto la CTR , avendo ritenuto non giustificati i versamenti e i prelevamenti bancari “avrebbe dovuto riconoscere legittima la riduzione del 30%” praticata dal giudice di primo grado, non potendo sorvolare sull’incidenza necessaria dei costi.
Il motivo è infondato.
I costi sostenuti non sono forfettizzabili, ma vanno partitamente dimostrati e ne va provata, altresì, l’inerenza.
Questa Corte ha, del resto, ancora di recente puntualizzato che “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (Cass. n. 22868 del 2018; v. anche Cass. n. 9888 del 2017).
Con il quinto motivo si censura la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia del giudice d’appello su questioni sollevate in primo grado in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., avendo sorvolato la CTR sulla lamentata mancanza di motivazione dell’atto impugnato e sulla interruzione della fase del contraddittorio senza formalizzazione di alcun processo verbale di chiusura nonché sulla emanazione ante tempus (dopo soli 32 giorni) dell’avviso di accertamento.
Il motivo è inammissibile sotto due convergenti aspetti.
Nella sentenza non v’è traccia della doglianza relativa alla mancanza di motivazione e alla censura sulla interruzione repentina e non formale della fase del contraddittorio. Sotto questo aspetto la censura si palesa del tutto nuova. Questa Corte ha, d’altronde, puntualizzato che “Qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa” (Cass. n. 32804 del 2019; Cass. n. 28480 del 2005). Inoltre, il lamentato vizio di motivazione dell’atto impositivo rimane addirittura imperscrutabile posto che l’avviso non è nemmeno riprodotto, risaltando un deficit tranciante di autosufficienza.
Con il sesto motivo di ricorso si contesta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 12, comma 7, I. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, per avere la CTR trascurato di considerare la circostanza dell’emanazione dell’avviso di accertamento prima dello scadere dei sessanta giorni dalla “chiusura delle indagini”.
Anche questa censura è inammissibile per novità della questione.
Ha chiarito questa Corte che “In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio” (Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018).
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Nulla sulle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.