CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 10953 depositata il 26 aprile 2023

Lavoro – Contributi non versati sulla indennità di camice – Retribuzione dovuta al dipendente ma non erogata – Concetto di retribuzione imponibile e di minimale contributivo – Base contributiva determinata sul “dovuto” e non sull’effettivamente erogato – CCNL integrativo regionale per le farmacie rurali – Previsione dell’indennità di camice come retribuzione dovuta – Accoglimento

Rilevato che

La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 552 del 2017, ha rigettato l’impugnazione proposta dall’INPS avverso la sentenza di primo grado, che aveva accolto l’opposizione proposta da F.S. (in proprio e n. q. di legale rapp.te della s.a.s. F.S. D.RI F. S. e C. Z.) all’avviso di addebito con il quale l’INPS aveva intimato il pagamento di euro 2.084,90 a titolo di contributi non versati sulla indennità di camice, voce prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro, ma non versata alla dipendente C.Z. e C.M.;

la Corte d’appello ha condiviso il giudizio del primo giudice, il quale aveva accertato la circostanza che la s.a.s. aveva fornito a proprie spese alla dipendente il camice professionale, provvedendo direttamente anche al lavaggio, per cui non vi era alcuna voce retributiva in effetti dovuta e non corrisposta, con la conseguenza che, anche sotto il versante contributivo, nulla era dovuto all’INPS;

avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione l’INPS sulla base di un motivo, successivamente illustrato da memoria;

resiste F.S. (in proprio e n. q. di legale rapp.te della s.a.s. Farmacia D.ri F. S. e C. Z.) con controricorso;

chiamata la causa all’adunanza camerale del 7 marzo 2023, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, c.p.c.);

Considerato che

con l’unico motivo di ricorso, l’INPS denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153 e succ. modif., dell’art. 1, comma 1, legge n. 876 del 1986, dell’art. 4, comma 2 bis, d.l. n. 173 del 1988 conv. con modif. nella legge n. 291 del 1988 e succ. modificazioni e dell’art. 1 d.l. n. 338/89 convertito in legge n. 389/89;

l’Istituto evidenzia l’ erroneità della decisione in ragione del fatto che si è ritenuta non soggetta a contribuzione una parte della retribuzione dovuta al dipendente, secondo le previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile, ma, in concreto, non erogata alla lavoratrice;

si sarebbe cioè confuso il concetto di retribuzione imponibile e quello di minimale contributivo, con l’effetto di escludere dal versamento della contribuzione somme che, invece, dovevano essere considerate;

in particolare, la questione controversa è quella della sussistenza dell’obbligo contributivo anche in relazione alle somme che il c.c.n.l. prevede a titolo di indennità di camice, quando questa non è stata erogata ed in sua sostituzione è stato offerto al lavoratore il camice e sia provveduto alla sua manutenzione;

il motivo è fondato;

questa Corte di cassazione ha, da tempo, (vd. Cass. n. 21105 del 02/10/2009; Cass. 7-12-2004, n. 22921, che a sua volta richiama l’orientamento delle Sezioni unite n. 1081 del 13 febbraio 1994) chiarito, al fine di fissare il contenuto dell’obbligo contributivo, i limiti di sostanza del c.d. principio di onnicomprensività della retribuzione, posto che non può dirsi esistente nel nostro ordinamento, neanche allo stato tendenziale, un principio generale ed inderogabile di onnicomprensività della retribuzione, ma nel disciplinare la base di calcolo degli istituti retributivi contrattualmente previsti, alcune disposizioni di legge richiamano nozioni di retribuzione normale onnicomprensiva, inderogabili dalla contrattazione collettiva, mentre altre disposizioni si limitano a richiamare, puramente e semplicemente, la generica nozione di retribuzione, riservandone la determinazione alla competenza istituzionale dell’autonomia collettiva;

da tale precisazione deriva che, ove non sia la legge a prescriverne espressamente la onnicomprensività, la misura degli istituti contrattuali indiretti viene regolata esclusivamente ed esaustivamente dalla contrattazione collettiva;

diverso è invece il concetto di retribuzione “utile” ai fini contributivi, con cui si determina quale e quanta parte della retribuzione debba essere sottoposta al prelievo contributivo, il c.d. imponibile contributivo;

questa disciplina non può che essere dettata dalla legge, e non già dalla contrattazione collettiva che non può certo disporre del diritto dell’ente assicuratore, anche se tra le due categorie esistono delle connessioni;

la disciplina della retribuzione imponibile ai fini contributivi, originariamente racchiusa nell’art. 12 della legge 30 aprile 1969 n. 153, tendenzialmente sottoponeva a contribuzione “tutto” quanto veniva erogato per compensare la prestazione lavorativa;

la medesima disposizione escludeva dalla sottoposizione a contribuzione alcune voci, tassativamente indicate (ad es. il 50% dell’indennità di trasferta, l’indennità di cassa ed altro), mentre ulteriori episodiche disposizioni furono poi emanate per eliminare dall’imponibile contributivo altre voci, come i corrispettivi dei servizi di mensa e trasporto (art. 17 d. l.gv. 30 dicembre 1992 n. 503) e le indennità spettanti ai c.d. trasfertisti (art. 9 ter legge n. 166 del primo giugno 1991, di conversione del d.l. 29 marzo 1991);

il sistema è stato poi completamente innovato ad opera del decreto legislativo 3 settembre 1997 n. 314 (legge delega emanata con l’art. 3 comma 19 della legge 23 dicembre 1969 n. 662);

dal riferimento dell’art. 12 citato, quanto alla base per il computo dei contributi, a quanto il lavoratore “riceve” in ragione del rapporto di lavoro, alcuni interpreti avevano tratto che la disposizione alludesse ad un dato di “effettività” e non al contenuto astratto di un obbligo, per cui ritennero che, per determinare l’ammontare dei contributi, la percentuale di legge dovesse applicarsi sulla retribuzione concretamente erogata e non a quella dovuta;

la consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6434 del 26 giugno 1990, n. 9540 del 12 settembre 1991, n. 677 del 20 gennaio 1993, n. 5547 del 15 maggio 1993, n. 3630 del 13 aprile 1999) disattese questo indirizzo, affermando che “Alla base del calcolo dei contributi previdenziali deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, in quanto l’espressione usata dall’art. 12 della legge n. 153 del 1969 per indicare la retribuzione imponibile (“tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro…”) va intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”, ove si consideri che il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l’obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti“;

nella specie l’Inps rivendica una differenza di contributi, sostenendo che i medesimi sono stati versati su una base imponibile inferiore a quella esatta, perché la retribuzione dovuta sarebbe maggiore dovendo comprendere l’indennità di camice;

per verificare la fondatezza della pretesa, va in primo luogo rilevato essere pacifico in causa che la lavoratrice “non” riceve l’indennità di camice ma ciò, al contrario di quanto ritenuto dai giudici del merito, non è sufficiente a rigettare la richiesta dell’Istituto, dovendosi ancora accertare se la retribuzione dovuta dovesse in effetti includere l’indennità di camice, posto che come già detto la base contributiva si determina sul “dovuto” e non sull’effettivamente erogato;

la Corte d’appello avrebbe dovuto procedere ad individuare il “dovuto” interpretando il contratto collettivo nazionale di lavoro integrativo regionale per le farmacie rurali applicabile al rapporto, al fine di accertare se l’ammontare della retribuzione “dovuta” comprendesse l’indennità di camice;

in particolare, va qui riaffermato il principio secondo il quale, se la retribuzione da assoggettare a contribuzione è quella “dovuta” al lavoratore, e se questa, a norma di contratto nazionale, non è onnicomprensiva, anche la base di calcolo non potrà essere onnicomprensiva. Nello stesso senso segue che, ove a livello di contrattazione aziendale o provinciale vengano previste indennità ulteriori rispetto a quanto previsto nel contratto nazionale, anche in tal caso occorre necessariamente interpretare il contratto, per accertare se una voce retributiva debba essere inclusa negli istituti indiretti, perché solo così si determina il “dovuto” spettante al lavoratore e di conseguenza la base di calcolo dei contributi;

l’art. 3 del DL 14 giugno 1996 n. 318, convertito nella legge 29 luglio 1996 n. 402, inoltre, dispone appunto che “La retribuzione dovuta in base ad accordi collettivi di qualsiasi livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi dalle parti stipulanti, in riferimento alle clausole di non computabilità nella base di calcolo di istituti contrattuali e di emolumenti erogati a vario titolo, diversi da quelli di legge, ovvero sulla quantificazione di tali emolumenti comprensiva dell’incidenza sugli istituti diretti o indiretti.

Allo stesso fine valgono le clausole per la limitazione di tale incidenza relativamente ad istituti retributivi introdotti da accordi integrativi aziendali, in aggiunta a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Le predette disposizioni operano anche agli effetti delle prestazioni previdenziali.”;

quanto alle disposizioni sul c.d. minimale, va rammentato in punto “minimale” che le Sezioni unite di questa Corte n. 11199 del 29 luglio 2002, seguite da numerose altre decisioni tra cui Cass. n. 19284 del 2017, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che “L’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che sarebbe dovuta, ai lavoratori di un determinato settore, in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale; si tratta del cd. minimale contributivo secondo il riferimento ad essi operato, con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale, dall’art. 1 del DL 9 ottobre 1989 n. 338, convertito nella legge 7 dicembre 1989 n. 389.” La legge del 1989 determina quindi un imponibile “minimo” da sottoporre a contribuzione, al di sotto del quale non è possibile scendere, ancorchè la retribuzione “dovuta” al lavoratore sia inferiore;

è pertanto la fonte collettiva che funge da parametro per la determinazione dell’obbligo contributivo minimo e per scelta legislativa questo parametro viene ritenuto il più idoneo ad adempiere alla funzione di tutela assicurativa, nonché a garantire l’equilibrio finanziario della gestione. Con la legge del 1989 si è dunque posto un limite minimo “incomprimibile” di retribuzione valevole esclusivamente ai fini previdenziali, al di sotto del quale non si può scendere, con la precisazione che resta ferma la piena operatività degli accordi collettivi diversi da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (ad es. gli accordi aziendali), ovvero gli accordi individuali, quando determinino una retribuzione “dovuta” superiore al minimale;

in definitiva, le disposizioni sull’imponibile previdenziale e quelle sul minimale operano su piani diversi e richiedono operazioni distinte:

con la prima, che è quella oggetto della presente causa, si determina quali voci della retribuzione erogata devono essere sottoposte a contribuzione, quali cioè entrano nella base imponibile a cui si applica l’aliquota, e quali invece ne sono esenti;

con le disposizioni sul c.d. minimale, si prescrive che – qualunque sia la retribuzione erogata o dovuta al lavoratore – la retribuzione valida ai fini contributivi, ossia l’imponibile su cui applicare l’aliquota di pertinenza, non può essere inferiore ad un certo ammontare, che la legge determina richiamando la contrattazione collettiva;

nel caso di specie, va dunque esaminata la previsione contrattuale di cui si discute, contenuta nell’art. 6, comma 2, titolo V, del CCNL integrativo regionale per le farmacie rurali ( pacificamente applicato al rapporto di lavoro de quo e debitamente riprodotto ed allegato dal ricorrente) che espressamente indica < […] A decorrere dal 2002 verrà riconosciuta ad ogni dipendente delle farmacie private della Lombardia un’indennità sostitutiva camici/lavaggio pari a lire 800mila annue, per le farmacie che forniranno i camici tale indennità sarà ridotta a lire 600mila annue, l’indennità camici/lavaggio sarà erogata con le competenze del mese di aprile di ciascun anno>;

è evidente che tale previsione integra un vero e proprio diritto del dipendente ad ottenere la somma indicata, e l’indennità, in quanto dovuta, non può essere esclusa dal computo della retribuzione;

quindi, interpretando il contratto, resta accertato che si tratta di una voce retributiva spettante ai lavoratori attraverso la quale si determina il “dovuto” spettante al lavoratore e di conseguenza la base di calcolo dei contributi;

non modifica tale conclusione l’adattamento concreto che le parti hanno raggiunto perché, come si è chiarito sopra, il parametro di legge non può essere derogato dalle iniziative negoziali dei privati (vd. Cass. 15411 del 2021; Cass. n. 19932 del 2021);

il ricorso va, quindi, accolto e la sentenza impugnata va cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti, ai sensi dell’art. 384, secondo comma c.p.c., la causa va decisa nel merito con il rigetto dell’opposizione ad avviso di addebito;

quanto alle spese, vanno compensate sia quelle dei gradi di merito che quelle relative al presente giudizio, in ragione dell’assenza di specifici precedenti di legittimità relativi all’interpretazione della contrattazione collettiva istitutiva dell’indennità di camice, oggetto di causa.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione ad avviso di addebito proposta da F.S., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della F.S. DR. I.F. S. e C. Z. S.A.S.

Dichiara compensate le spese dell’intero processo.