Corte di Cassazione ordinanza n. 11113 depositata il 6 aprile 2022

sentenze della Corte di Giustizia valore di fonte di diritto

Rilevato che:

1. L’Agenzia delle entrate notificò alla s.p.a. S.I.M., poi I. s.p.a., un avviso di accertamento per Irpeg ed Ilor di cui all’anno d’imposta 1991, con il quale, in base all’ art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, aveva rettificato la dichiarazione dei redditi della predetta contribuente, disconoscendo gli effetti fiscali derivanti da alcune compravendite di titoli azionari da essa poste in essere con fondi comuni di investimento e con soggetto estero (Salomon Brothers International di Londra), sull’assunto che attraverso il trasferimento (civilisticamente reale ed efficace) della titolarità delle azioni sarebbe stato indebitamente modificato il regime fiscale dei dividendi erogati dalle società emittenti.

Per quanto in questa sede ancora interessa, l’Amministrazione, quale corollario della ritenuta inopponibilità al fisco della predetta operazione, ritenne la contribuente responsabile di omessa  dichiarazione ai sostituti di imposta (cioè alle società – erogatrici dei dividendi), ascrivendole il ruolo effettivo di semplice intermediario, solo interposto, di soggetto interponente non residente e senza stabile organizzazione in Italia, ai fini della esatta applicazione della ritenuta del 32,40% prevista dall’art. art. 27, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, e chiedendo ad essa il pagamento della differenza, pari al 22,40% dei dividendi, tra la ritenuta effettivamente subita (10%), quale interposta, e quella che avrebbe dovuto essere applicata (32,40%) dalle società emittenti nei confronti dell’interponente Salomon Brothers International Ltd. di Londra.

Nella  sostanza,  l’Ufficio  contestò  alla  società  di  avere  concluso  atti negoziali qualificabili come operazioni di dividend washing, con conseguente accertamento di maggior IRPEG ed ILOR, rispetto al dichiarato, nonché, per quanto qui più rileva, di non aver fatto applicare ai sostituti d’imposta l’esatta, e maggiore,  ritenuta  sui dividendi  relativi ai titoli di proprietà della Salomon Brothers Ltd., società non residente. Nella ricostruzione dell’Amministrazione, dunque, l’interposizione della contribuente, società residente, era finalizzata ad evitare il trattamento fiscale dei dividendi più gravoso che sarebbe stato applicabile alla società inglese interponente, in quanto non residente. Della relativa differenza, pertanto, tra la ritenuta applicata all’interposta e quella maggiore applicabile all’interponente, la prima era chiamata a rispondere.

La contribuente  impugnò  l’atto  impositivo  dinnanzi  la  Commissione tributaria provinciale di Milano che, con la sentenza n. 292/26/99, accolse il ricorso solo con riferimento all’ inapplicabilità delle sanzioni irrogate.

La contribuente propose quindi appello avverso la sentenza di primo grado, respinto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza n. 454/35/00.

Proposto ricorso per cassazione dalla contribuente, questa Corte, con la sentenza del 22 ottobre 2010, n. 21692, così decise: « rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso; accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.».

  • E’ opportuno riportare il motivo accolto dalla predetta sentenza di legittimità, così come descritto nella motivazione di quest’ultima: « Con il secondo motivo la ricorrente – esposto che “uno dei cedenti delle azioni cui si riferiscono i dividendi … era la … Salomon Brothers International Ltd. di Londra” – denunzia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 21, comma 3, e art. 37, comma 3; del DPR n. 602 del 1973, art. 35”, “dei principi generali in materia di sostituzione tributaria”, “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia” e, “in subordine”, “violazione della Convenzione contro  le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito di Gran Bretagna, firmata a Pallanza  il  21 ottobre 1988” sostenendo, in primo luogo, che per le ragioni esposte a sostegno del primo motivo di ricorso la norma contenuta nell’art. 37, comma 3 “non è applicabile” al caso per cui “il corretto  trattamento fiscale dei dividendi coincide con quello effettivamente subito” da essa ricorrente (“ritenuta d’acconto … del 10%”).

“In via subordinata”, la contribuente (“come già esposto nell’atto di appello”) denunzia la “violazione” dell’art. 10, comma 2, lett. b) della “Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito di Gran Bretagna, firmata a Pallanza il 21 ottobre 1988”, “ratificata con n. 329 del 1990”, la quale “prevedeva l’applicazione della ritenuta nella misura del 15%” per cui  “la  maggiore  ritenuta  accertata dall’Ufficio avrebbe dovuto essere pari al 5% (15% meno il 10% già applicato) e non già il 22,40%”.».

  • Parimenti opportuno è trascrivere la motivazione per cui questa Corte accolse il motivo: << Il fondamento del secondo motivo di ricorso discende  dalla sentenza resa il  19 novembre  2009 dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella causa C-540/07, concernente un “ricorso per inadempimento” proposto dalla Commissione delle Comunità dette contro la Repubblica italiana: con tale decisione, infatti, è stato accertato che il nostro stato è venuto meno “agli obblighi” ad esso incombenti  “in forza  dell’art.  56, n. 1, CE” per avere assoggettato “i dividendi distribuiti a società stabilite in altri  stati  membri  ad  un regime fiscale meno favorevole di  quello  applicato  ai  dividendi distribuiti alle società residenti”.

Per effetto di tale pronuncia – che ha indicato, con effetto vincolante anche per questo giudice nazionale, l’esatta portata giuridica (fin dalla sua entrata in vigore) della norma comunitaria detta, di diretta applicazione nel nostro stato – il  “regime  fiscale”  dei  “dividendi distribuiti a società stabilite in altri stati membri” deve essere uguale a “quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti”.

Nella specie, come espone la stessa contribuente, “uno dei cedenti delle azioni cui si riferiscono i dividendi … era la … Salomon Brothers International Ltd. di Londra” cioè da una società stabilita nel Regno Unito, di Gran Bretagna, quindi in un altro stato membro della comunità europea, per cui è necessario verificare (per l’evidente incidenza sulla quantificazione di dette pretese) se ed in che misura il definitivo trattamento fiscale sugli stessi sia conforme a quello “applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti”, al quale quello oggetto del presente giudizio va comunque adeguato.

Conseguentemente,  in applicazione di tale principio, la    sentenza impugnata deve essere cassata.».  

2. Riassunto il giudizio da Intesa San Paolo Group Services s.c.p.a, già I. s.p.a., la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 31/38/2013, depositata 1’11 febbraio 2013, ha accolto l’appello della contribuente ed in riforma della sentenza appellata ha accolto il ricorso introduttivo della contribuente «nei limiti di cui in motivazione».

Sul punto, la motivazione così recita: « Nel caso  di  specie,  il trattamento fiscale non appare conforme a quello applicato alle società residenti.

Infatti, l’allora articolo 27, comma  terzo, del dpr. 600/73 disponeva una ritenuta d’acconto per società estera del 32,4%, mentre per le società residenti l’aliquota era del 10%.

Pertanto, l’avviso di accertamento di cui trattasi andrà dichiarato illegittimo nella sola parte relativa a recupero a tassazione  ( e se questa è avvenuta, dovrà essere restituita l’eventuale somma versata a tale titolo), della differenza tra la ritenuta a titolo di imposta applicata dalla società residente e quella che l’Ufficio pretende si sarebbe dovuta applicare alla società londinese.».

L’ Amministrazione ha quindi proposto ricorso, affidato ad un motivo, per la cassazione della sentenza emessa dalla CTR quale giudice del rinvio.

La contribuente si è costituita con controricorso ed ha successivamente depositato memoria.

Considerato che:

1. Con l’unico motivo di ricorso l’Amministrazione denuncia << Violazione e falsa applicazione degli artt. 27 c. 3 dpr 29.9.73 n. 600 nel testo vigente ratione temporis (1991); 10 parr. 1, 2 lett. b) e 4 lett. a), 24 par. 2 lett. a) convenzione tra Italia e Gran Bretagna per evitare le doppie imposizioni, ratificata con I. 5.11.1990  329; 56 e 58 par. 1 lett. a) Trattato CE (oggi 63 e 65 par. 1 lett. a) TFUE); 2697 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. ».

Assume, in sintesi, l’amministrazione ricorrente che:

  1. la sentenza della Corte di giustizia del 19 novembre 2009, causa C-540/07, « in sostanza censurò la permanente discriminazione nella tassazione dei dividendi in uscita rispetto ai dividendi domestici per il periodo transitorio intercorrente, giusta l’art. 1 c. 68 I. 244/2007, tra 1’1.1.2004 (entrata in vigore del sistema dell’esenzione) e 1’1.1.2008 (entrata in vigore del nuovo art. 27 c. 3 ter dpr 600/73, che equiparò del tutto i due tipi di dividendi)», mentre« Il regime precedente, fondato sul sistema dell’imputazione e del credito di imposta sui dividendi distribuiti, non venne preso in considerazione dalla sentenza della Corte: questa, attenendosi ai limiti della domanda giudiziale posta dalla Commissione nel ricorso per infrazione, si limitò a porre a raffronto l’aliquota proporzionale unica applicata ai dividendi domestici nel periodo 1.1.2004-1.1.2008 (1,65%) con l’aliquota della ritenuta a titolo di imposta nello stesso periodo applicata ai dividendi in uscita (27%).»; pertanto, la CTR avrebbe errato « allorché ha ritenuto che il precedente sistema, fondato sul credito di imposta interno riconosciuto al socio persona giuridica residente, e sulla ritenuta a titolo di imposta del 32,4% (poi 27%) applicata al socio persona giuridica residente in altro Stato membro, costituisse di per sé una discriminazione, e una discriminazione non giustificata, nella libera circolazione dei capitali, solo perché ciò era stato affermato dalla Corte di giustizia  con riferimento al regime successivo, basato sull’esenzione.», in quanto « Questa parificazione automatica tra i due successivi sistemi, tra loro antitetici, non è consentita dal tenore della sentenza della Corte di giustizia, che ha esaminato soltanto il sistema dell’esenzione»;
  2. la CTR ha anche violato l’art. 2697 cod. , in quanto « sarebbe infatti stato onere della contribuente, visto che invocava un beneficio, dimostrare analiticamente che il precedente sistema, nonostante le suddette, assai rilevanti, differenze strutturali e quantitative (cioè di base imponibile e di aliquota) intercorrenti tra il trattamento dei dividendi domestici e il trattamento dei dividendi in uscita, si traduceva in concreto in una discriminazione. Ma tale dimostrazione non venne né offerta né, tanto meno, fornita.»;
  3. «Anche a voler estendere al regime precedente l’approccio metodologico seguito dalla Corte di giustizia», la CTR avrebbe comunque errato, in quanto non avrebbe considerato che la verifica della presunta discriminazione rendeva « necessario confrontare il trattamento fiscale globale applicato alla società non residente (vale a dire l’insieme del trattamento ricevuto nel proprio Stato di residenza, da un  lato, e, dall’altro in Italia tramite la ritenuta sui dividendi in uscita) con il trattamento fiscale globale  che per  un reddito  complessivo del medesimo ammontare e formato dalle medesime componenti avrebbe ricevuto  una  società  residente  in Italia.», e non era quindi sufficiente paragonare la mera disciplina dei dividendi, né «limitarsi a rilevare che la ritenuta italiana sui dividendi poteva essere  imputata  all’imposta dovuta dalla società nel proprio Stato di residenza »;
  4. « la contribuente non fornì alcuna dimostrazione che il confronto tra il sistema di tassazione italiano dei dividendi distribuiti alla società inglese, e il sistema di tassazione che questa scontava nel proprio  Stato di residenza,  si traduceva in una discriminazione  disincentivante  all’investimento  in La CTR ha quindi anche sotto  questo  profilo  violato l’art. 2697 c.c.»; 
  5. la CTR avrebbe violato anche le disposizioni della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Gran Bretagna, ed in particolare « (per ciò che interessa la presente causa) la ritenuta in uscita a titolo di imposta, l’art. 24 par. 4 lett. a) della convenzione prevede che “a) l’imposta italiana dovuta ai sensi della legislazione italiana conformemente alla presente Convenzione, sia direttamente che per detrazione, sugli utili o redditi provenienti da fonti site in Italia (fatta eccezione nel caso dei dividendi, dell’imposta dovuta sugli utili con i quali sono pagati i dividendi stessi) è ammessa in deduzione dall’imposta del Regno Unito calcolata sugli stessi utili o redditi per i quali è stata calcolata l’imposta italiana”. Ciò significa che la ritenuta a titolo di imposta del 32,4% scontata in Italia dalla società britannica era integralmente deducibile dall’imposta sulle società dovuta nel Regno Unito. Il confronto dei due sistemi globali di tassazione, quale configurato concordemente dai due Stati attraverso la convenzione, portava quindi in ogni caso ad escludere la sussistenza di una discriminazione. Escludere l’applicazione della ritenuta alla fonte a titolo di imposta, in definitiva, avrebbe comportato attribuire alle società residenti in Gran Bretagna un beneficio contrario alla ripartizione della potestà impositiva concordata tra i due Stati, e il riconoscimento indebito del credito di imposta italiano senza che l’Italia potesse applicare alcuna tassazione sui dividendi in uscita. >>.

2. Preliminarmente, deve darsi atto che esulano da questo giudizio valutazioni in ordine alle ragioni per le quali la contribuente, residente in Italia, quale interposta debba essere assoggettata, quanto meno riguardo alla ritenuta applicabile, al regime fiscale, in materia di distribuzione dei dividendi, che avrebbe dovuto essere applicato all’interponente società non

Infatti, si tratta di questione già oggetto del giudicato formatosi a seguito del rigetto, con la sentenza di questa Corte del 22 ottobre 2010, 21692, degli altri motivi di ricorso per cassazione formulati dalla contribuente.

E’ però opportuno sottolineare che, nel caso sub iudice, proprio per effetto di tale presupposto, nonostante la società contribuente sia residente, si pone (in ragione della ridetta sentenza di questa Corte, ed in particolare del principio di diritto che essa ha demandato al giudice del rinvio di applicare) l’esigenza di verificare se il regime fiscale dei dividendi che sarebbe stato  applicabile all’interponente società inglese non residente (ma del quale è chiamata a rispondere la società italiana residente ) fosse, o meno, deteriore rispetto a quello in materia di dividendi distribuiti alle società residenti, al quale quello oggetto del presente giudizio va comunque adeguato.

3. Sempre preliminarmente, accogliendo in parte l’eccezione della controricorrente sul punto, deve ritenersi che il motivo (unico, ma composito) di ricorso sia ammissibile nei limiti che si diranno.

Deve considerarsi che il motivo di ricorso  della contribuente  accolto dalla sentenza di questa Corte del 22 ottobre 2010, n. 21692, che ha cassato con rinvio la precedente sentenza d’appello, era stato proposto per violazione e falsa applicazione  di norme e per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di  un  punto  decisivo  della controversia.

L’accoglimento del motivo è stato determinato dalla sentenza resa il 19 novembre 2009 dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella causa C-540/07, sopravvenuta alla  sentenza  impugnata in quel giudizio ed al ricorso per la sua cassazione.

Come questa Corte ha avuto già modo di precisare, le sentenze della Corte di Giustizia costituiscono, anche nell’ordinamento nazionale,  fonti di diritto, nel caso di specie ius superveniens: << In tema di giudizio di rinvio, rientrano nell’ambito dello “ius superveniens”, che travalica il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, anche i mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che hanno efficacia immediata nell’ordinamento nazionale.» (Cass. 12/09/2014,n. 19301).

Nello stesso senso, si è detto che « In tema di processo tributario, nel giudizio di legittimità il ricorso incidentale deve essere trattato preliminarmente rispetto a quello principale allorché attenga allo “ius superveniens” costituito da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha efficacia immediata nell’ordinamento nazionale, purché non siano necessari nuovi accertamenti di fatto, e valenza retroattiva, salvo il limite dei rapporti esauriti.» (Cass. 09/10/2019, n. 25278).

Pertanto, nel caso di specie, la sentenza n. 21692/2010 di questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza d’appello impugnata per una violazione di diritto sostanziale, somministrando al giudice del rinvio il principio di diritto rappresentato dalla ridetta sentenza della Corte di giustizia, ovvero dall’interpretazione del diritto comunitario espressa da quest’ultima.

Va poi considerato che << I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione  di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità.» (Cass. 14/01/2020, n. 448; conformi, ex plurimis, Cass. 24/10/2019, n. 27337; Cass. 26/09/2018, n. 22989; Cass. 06/07/2017, n. 16660).

Date tali premesse, la sentenza di cassazione con rinvio, imponeva quindi al giudice a quo di applicare,  al caso di specie,  il principio  di diritto tratto direttamente dalla citata pronuncia della Corte di giustizia, senza che il  giudice del rinvio dovesse,  e comunque potesse, valutare ex novo se il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, riguardasse o meno anche la fattispecie sub iudice.

Negli  stessi  limiti,  pertanto,  non è più ammissibile  per  la  ricorrente censurare, come ha invece fatto in ampia parte  del  motivo,  la pertinenza del relativo principio  di diritto al caso  di specie,  neanche sulla base di argomentazioni relative alla diversa disciplina, applicabile ratione temporis, del diritto interno, in materia di imposizione  sui dividendi distribuiti a contribuenti non residenti,  rispetto  a quella  presa in considerazione dalla pronuncia della Corte europea.

Infatti, l’applicabilità del principio ricavabile da quest’ultima è stata ormai accertata definitivamente dalla precedente sentenza di cassazione con rinvio, emessa da questa Corte in questa controversia. Fermo restando, peraltro, che il principio di diritto affermato  dalla Corte di giustizia con la sentenza in questione – ovvero che i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non possono essere assoggettati ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti-  integra l’affermazione di un principio che travalica di per sé la rilevanza del regime tributario interno che, per evitare il rischio di una doppia imposizione, applichi il meccanismo del credito d’imposta concesso al socio piuttosto che quello dell’esenzione, quasi integrale, dall’imposizione in capo a quest’ultimo, e richiede che, quale che sia il sistema applicato nel diritto nazionale, esso non si rilevi ingiustificatamente deteriore per le società non residenti di altri Stati membri.

In punto di fatto, il giudizio di rinvio, in considerazione della circostanza che la richiamata sentenza della Corte di giustizia costituiva ius superveniens, poteva invece aprirsi, eventualmente, a quegli accertamenti resi necessari proprio dalla pronuncia di cassazione con rinvio (cfr. Cass. 23/04/2019, n. 11178).

4. Il motivo è poi infondato  nella  parte  in cui assume  violato  l’art. 2697 cod. civ., in quanto « sarebbe infatti stato onere della contribuente, visto che invocava un beneficio, dimostrare analiticamente che il precedente sistema […] si traduceva in concreto in una discriminazione».

Invero, in ragione di quanto argomentato al paragrafo che precede, deve escludersi che l’applicazione di un principio di diritto comunitario, ritenuta peraltro necessaria già dalla precedente sentenza di cassazione con rinvio di questa Corte, possa considerarsi come un “beneficio” invocato dalla contribuente (che neppure, nel caso di specie, è attrice sostanziale, non agendo per ottenere un rimborso), integrando piuttosto un limite di legittimità della pretesa erariale oggetto dell’impugnato accertamento.

In ogni caso, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, oltre che dagli atti delle parti, come oltre si dirà, è lo stesso intrinseco fondamento della pretesa tributaria oggetto dell’accertamento che depone per la sussistenza, nel caso di specie, di un trattamento fiscale deteriore dei dividendi distribuiti a società non residenti, rispetto a quelli distribuiti a società residenti nel territorio nazionale.

5. Inammissibile, e comunque infondata, è inoltre la censura con cui la ricorrente, all’interno dell’unico motivo, assume, nella sostanza, che, al fine di verificare se nel caso di specie si fosse concretata o meno la paventata  discriminazione, la  CTR  avrebbe  dovuto  confrontare  il «trattamento fiscale globale applicato alla società non residente» con quello che <<per un reddito complessivo del medesimo ammontare e formato dalle medesime componenti avrebbe ricevuto una società residente in Italia>>. La ricorrente invero pretende un ampliamento d’indagine, esteso alla globalità del trattamento fiscale, che esorbita il thema decidendum delimitato dalla sentenza di cassazione con rinvio, univocamente  concentrato  sul trattamento  fiscale dei dividendi,  e non di altre componenti del reddito.

Del resto la stessa Corte di giustizia, nella ridetta sentenza del 19 novembre 2009, C-540/07, ai paragrafi 42, 43 e 56, aveva già respinto il tentativo dell’Italia, parte in causa, di sostenere che la differenza di trattamento in questione potesse essere negata tenendo conto <<del complesso del sistema di tassazione italiano», e non solo della disciplina impositiva sui dividendi.

6. Infondata è altresì la censura secondo cui la CTR non avrebbe considerato, al fine di valutare la sussistenza o meno della ritenuta discriminazione, le disposizioni della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Gran Bretagna, ed in particolare la circostanza che la ritenuta a titolo di imposta del 32,4% scontata in Italia dalla società britannica era integralmente deducibile dall’imposta sulle società dovuta nel Regno Unito.

Invero è la stessa sentenza della Corte di giustizia del 19 novembre 2009, C-540/07, che, ai paragrafi da 34 a 40, rileva che l’imputazione sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro dell’imposta trattenuta alla fonte in Italia non è garantita dalla normativa italiana, in quanto «la scelta di  tassare nell’altro  Stato  membro  i redditi provenienti  dall’Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro. La Repubblica italiana non ha, di conseguenza, alcun fondamento nel sostenere che l’imputazione dell’imposta ritenuta alla fonte in Italia sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro, in applicazione delle previsioni delle convenzioni contro la doppia imposizione, consenta in ogni caso di compensare la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale».

Con riferimento al caso sub iudice, la ricorrente non ha offerto argomentazioni concrete che conducano a superare tale principio.

In ogni caso, poi, l’ipotetica accessibilità della contribuente (o meglio della società interponente, essa non residente) ad effetti, anche derivanti dalla Convenzione, che avrebbero reso il trattamento fiscale dei dividendi in questione non deteriore ( o addirittura migliore) rispetto a quello che sarebbe stato applicabile ove essi fossero stati incassati da una società residente, contrasta logicamente con i presupposti fattuali e giuridici sui quali si fonda, nei confronti dell’interposta controricorrente, la pretesa erariale originaria, come si dirà al paragrafo immediatamente successivo.

7. Fermo restando quanto sinora premesso, appare evidente la contraddizione logico-giuridica sulla quale si basa la pretesa della ricorrente di negare che, come accertato infine dalla CTR, il trattamento fiscale cui sono stati sottoposti i dividendi in uscita in questione, conformato su quello riservato ratione temporis alle società non residenti, non fosse deteriore rispetto a quello che sarebbe spettato ad una società residente.

Infatti ( come la controricorrente mette in evidenza anche richiamando il p.v.c. della Guardia di finanza posto a fondamento dell’accertamento e riproducendone uno stralcio) il recupero a tassazione, ed il disconoscimento della titolarità in capo alla controricorrente delle azioni da cui derivavano i dividendi in esame, e dunque l’interposizione, trovavano giustificazione, secondo la ricostruzione dell’Ufficio (cfr. ricorso, pag. 1 ss.), anche nel fine della contribuente di modificare indebitamente, attraverso l’interposizione, il regime fiscale dei dividendi erogati, provocando l’applicazione nei confronti dell’interposta, in quanto residente, della ritenuta del 10%, piuttosto che di quella del 32,40% che avrebbe dovuto essere applicata dalle società emittenti nei confronti dell’interponente non residente Salomon Brothers International Ltd. (che, sugli utili derivanti dalle partecipazioni sociali, avrebbe subito una ritenuta a titolo d’imposta non scomputabile e non avrebbe beneficiato del credito d’imposta, secondo il p.v.c. citato nel controricorso).

Pertanto, la negazione erariale, in questa sede, del trattamento dei dividendi in uscita meno favorevole, appare contraddittoria con l’affermazione, a presupposto dell’imposizione nel suo complesso, che l’interposizione contestata trovasse la sua ragione, ed avesse il suo effetto indebito, proprio nell’alterare il regime fiscale dei dividendi per evitare il trattamento deteriore spettante alla società non residente e godere di quello più favorevole applicabile a quella residente.

8.Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9.Rilevato che  risulta  soccombente   una parte ammessa alla prenotazione a  debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.250,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.