Corte di Cassazione ordinanza n. 11269 depositata il 7 aprile 2022

operazioni soggettivamente inesistenti – IVA

Fatti di causa 

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Cek Group sr.l. tre avvisi di accertamento, relativi agli anni 2006, 2007 e 2008, in materia di sanzioni Iva per irregolarità nelle cessioni di beni; la società aveva proposto separati ricorsi con i quali aveva contestato la legittimità degli avvisi di accertamento in quanto non erano stati correttamente notificati e non contenevano l’indicazione del nominativo del responsabile del procedimento; la  Commissione  tributaria provinciale di Bergamo, previa riunione, li aveva rigettati; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello, rilevando che nelle more del giudizio di primo grado era entrato in vigore l’art. 8, d.l. n. 16/2012, sicchè di esso si sarebbe dovuto fare applicazione, e, inoltre, contestando la nullità della sentenza di primo grado per non essere stato disposto il differimento dell’udienza di discussione stante il legittimo impedimento del difensore.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non poteva essere accolto il motivo di appello  relativo  alla nullità della sentenza di primo grado, in quanto la contribuente non aveva compiutamente provato la sussistenza dei presupposti del legittimo impedimento; erano da considerarsi inammissibili le domande proposte in appello relative al merito della pretesa  fiscale, in particolare la domanda  di applicazione dello ius superveniens di cui all’art. 8, d.l. n. 16/2012, in quanto la problematica relativa alle fatture soggettivamente inesistenti non rientrava nell’oggetto del giudizio, limitato dalla parte, con il proprio  ricorso introduttivo, alla sola questione del difetto di notifica degli avvisi di accertamento e della mancata indicazione del nominativo del responsabile del procedimento.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la società affidato a due motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

La Sesta sezione civile di questa Corte, con ordinanza dell’8 ottobre 2015, ha disposto il rinvio alla pubblica udienza non sussistendo i presupposti di cui all’art. 375, cod. proc. civ..

Ragioni della decisione 

Con il primo motivo del ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per avere erroneamente dichiarato inammissibile l’appello della contribuente diretto a contestare la mancata applicazione del giudice di primo grado della previsione di cui all’art. 8, d.l. n. 16/2012, e per non avere fatta corretta applicazione del principio “iura novit curia”.

In particolare, lamenta parte ricorrente che già durante il giudizio di primo grado era entrato in vigore l’art. 8, d.l. n. 16/2012, con valenza retroattiva, che aveva riconosciuto il diritto alla deduzione dei costi relativi alle operazioni soggettivamente inesistenti, sicchè, sia il giudice di primo grado che quello d’appello erano tenuti, anche d’ufficio, a fare applicazione della previsione normativa favorevole alla contribuente.

Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia, avendo il giudice del gravame eluso la questione, prospettata con l’atto di appello, della necessaria applicazione della normativa sopravvenuta ed inoltre, per avere reso una  pronuncia contraddittoria, in quanto ha ritenuto che la contribuente  aveva l’onere di sollevare in primo grado la questione della natura soggettivamente inesistente delle operazioni e della deducibilità dei costi nonostante il fatto che la nuova disciplina era entrata in vigore solo dopo la presentazione del ricorso al giudice di primo grado, sicchè questi avrebbe dovuto rilevare d’ufficio l’applicabilità della disciplina più favorevole.

I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono inammissibili.

Gli stessi attengono, sia sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione della sentenza censurata, alla questione dell’applicabilità retroattiva al caso di specie della previsione contenuta nell’art. 14, comma 4bis, l. n. 537/1993, come sostituito dall’art. 8, d.l. n. 16/2012, che prevede che nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista  dall’art. 157 c.p.. Qualora  intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate  in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.

È vero che, come sostenuto dalla ricorrente, l’art. 8, comma 3, d.l. nel dettare la disciplina transitoria, attribuisce alle suddette previsioni effetto retroattivo se più favorevoli al contribuente, con rilievo anche d’ufficio da parte del giudice (Cass., 661/2014; Cass., 26461/2014; Cass., 19617/2018).

Tuttavia, va osservato che le previsioni normative in esame sono applicabili ai soli fini delle imposte dirette, posto che le stesse si rivolgono    in    favore dei    soggetti coinvolti    in    operazioni soggettivamente inesistenti ai quali, pertanto, non è più contestabile la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato, ma, nella  maggior parte dei casi, per essere commercializzati e venduti, sicchè  non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi alle predette operazioni.

Sotto tale profilo, sia dalla sentenza censurata che dagli atti delle parti (ricorso e controricorso) è chiaramente evincibile che la pretesa dell’amministrazione finanziaria non era relativa alla deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette, ma aveva ad oggetto una maggiore Iva: non risulta, invece, che parte ricorrente abbia assolto all’onere di specificità dei motivi sia sotto il profilo della riconducibilità della ragione della ripresa in quanto basata su operazioni soggettivamente inesistenti  (in  sentenza  si fa solo riferimento ad Iva  per irregolarità in materia di cessioni di beni) sia in quanto relativa alla non deducibilità dei costi in materia di imposte dirette.

La circostanza che, invero, la ripresa aveva avuto riguardo all’Iva induce inevitabilmente a ritenere fuori prospettiva la deduzione di parte ricorrente circa la astratta applicabilità al caso di specie della previsione di cui all’art. 8, d.l. n. 16/2012.

Questa  Corte, invero, ha più  volte precisato  che in  tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. n. 537  del 1993, art. 14, comma 4 bis (nella formulazione  introdotta dal D.L. n. 16  del 2012, art. 8, comma 1,  conv. in L. n. 44  del 2012), che opera, in ragione del comma 3 della stessa disposizione, quale “ius superveniens” con efficacia retroattiva “in bonam partem “, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti,  anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cass., sez. 5, 6 luglio 2018,  n. 17788).  Diversamente,  in  tema d’IVA, è precluso il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto  il  profilo soggettivo,  poichè  l’indicazione  mendace  di  uno  dei soggetti  del rapporto  determina   l’evasione   del  tributo   relativo   alla  diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti. (Cass. civ., 8 ottobre 2020, n. 21706; Cass. civ., 7 ottobre 2015, n. 20060).

Ne  consegue l’inammissibilità del ricorso  e  la  condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio.

Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna  la ricorrente al pagamento  delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate che si liquidano in complessive euro 22.000,00, oltre spese prenotate a debito.