CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 12720 depositata il 10 maggio 2023

Tributi – Avviso di accertamento – Fondo per impianto fotovoltaico – Immobile categoria catastale D/1 – Dichiarazione Docfa – Notifica atti processuali – Atto di diniego – Definizione agevolata – Competenze fiscalità locale – Classificazione fabbricato rurale – Esenzione ICI – Rigetto

Fatti rilevanti e ragioni della decisione

p. 1. La T.C.S.A. a r.l. ha proposto un articolato motivo di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale la commissione tributaria regionale, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento per Ici 2011 notificatole dal Comune di Gavorrano in relazione ad un fondo destinato ad impianto fotovoltaico (categoria D/1) realizzato nel 2011 ed asservito ad azienda agricola.

La commissione tributaria regionale, in particolare, ha osservato che:

– correttamente il Comune si era basato sul classamento in essere nel 2011 (D/1) escludente la natura esonerativa rurale del bene;

– qualora la società avesse inteso contestare la categoria attribuita, avrebbe dovuto impugnare a tempo debito il classamento nei confronti dell’Agenzia delle Entrate;

– soltanto nel 2015 la società aveva attivato una procedura Docfa di variazione da D/1 a D/10 (accolta dall’Amministrazione Finanziaria con effetto ex nunc) ma quest’ultima non poteva valere per il passato, non rientrando (perché tardiva) nella particolare disciplina di retroattività quinquennale su autocertificazione prevista per le dichiarazioni presentate entro il 30.9.2012 ai sensi del D.L. 26 luglio 2012;

– in effetti la società aveva già attivato una prima procedura Docfa di rettifica nel 2011, ma quest’ultima non aveva avuto seguito perché errata nella mancata allegazione della prevista autocertificazione.

p. 2. Con l’unico motivo di ricorso la società lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del d.m. Finanze 19 aprile 1994, n. 701, art. 1  del d.l. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2-bis, del D.M. 26 luglio 2012, art. 2, del d.l. n. 557 del 1993, art. 9 comma 3-bis e del d.l. n. 201 del 2011, art. 13 comma 8.

Per non avere la Commissione Tributaria Regionale considerato che:

– doveva al contribuente sempre riconoscersi il diritto di presentare una dichiarazione Docfa (di scienza) volta ad emendare errori precedentemente commessi nella classificazione del bene, con conseguente efficacia retroattiva della correzione; nel caso di specie la dichiarazione Docfa del febbraio 2015 valeva a far constare il carattere ab origine rurale del terreno, e dunque la sua iscrivibilità iniziale nella corrispondente categoria D/10, così da conformare la situazione giuridico-impositiva a quella fattuale (anche ex art. 53 Cost.);

– la procedura emendativa Docfa in questione non era stata affatto presentata ai sensi del d.l. n. 70 del 2011, art. 7 comma 2-bis, con scadenza prorogata al 30 settembre 2012, ma in via ordinaria, così da doversi ritenere pacificamente e normalmente retroattiva;

– come evincibile dall’evoluzione normativa in materia, l’iscrizione dell’immobile in categoria catastale D/10 non costituiva affatto condizione necessaria al fine del riconoscimento del requisito di ruralità dell’immobile (così da imporre l’impugnazione del classamento nei confronti dell’amministrazione finanziaria, pena la sua obbligatorietà anche per i Comuni ai fini dell’imposizione locale), ben potendo (dovendo) tale requisito essere affermato ogni qualvolta vi fosse prova di effettivo asservimento dell’immobile all’esercizio dell’agricoltura (art. 2135 c.c.; Circ.MEF 3/2012) come nel caso di specie.

p. 3. Resiste con controricorso il Comune di Gavorrano.

p. 4.1 In data 29.9.2022 la società ha presentato al Comune di Gavorrano domanda di “definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di Cassazione” l. n. 130 del 2022, ex art. 5, ma tale domanda, con provvedimento 25 ottobre 2022 notificato il successivo 26 ottobre, veniva respinta “tenuto conto che il Comune di Gavorrano non ha aderito all’applicazione delle disposizioni di definizione agevolata di cui alla l. n. 130 del 2022, predetto art. 5, comma 15, non essendo stato richiesto da parte di altri istanti, ed atteso che la domanda di definizione agevolata presentata dalla T.C. a r.l., L. n. 130 del 2022, ex art. 5, è l’unica ad oggi pervenuta al Comune” (segue una prognosi di infondatezza del ricorso per cassazione proposto ex adverso).

p. 4.2 La società ha proposto ricorso incidentale avverso il diniego di definizione per i seguenti motivi:

– 1, nullità per illegittimità della relativa notificazione alla parte, perché il Comune si è limitato a trasmettere un semplice messaggio di posta elettronica certificata, in modo non conforme alle “modalità previste per la notificazione degli atti processuali” l. n. 130 del 2022, ex art. 5 comma 11 e artt. 137 c.p.c. e segg.; né erano qui applicabili, trattandosi di atto amministrativo e non processuale, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 16bis e art. 156 c.p.c.;

– 2, illegittimità della motivazione negatoria, posto che il Comune non aveva facoltà, ma obbligo, di recepire la disciplina di definizione della lite l. n. 130 del 2022, ex art. 5 comma 15, mentre la disciplina in questione consentirebbe agli enti comunali di stabilire esclusivamente le modalità di applicazione per la definizione del giudizio pendente, disponendosi della l. n. 130 del 2022, art. 5 u.c., che “ciascun ente territoriale stabilisce, con le forme previste dalla legislazione vigente per l’adozione dei propri atti, l’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo alle controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte il medesimo ente o un suo ente strumentale”; né il diniego poteva basarsi su una valutazione prognostica di fondatezza-infondatezza del ricorso per cassazione del contribuente, parametro del tutto estraneo alla legge.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

p. 4.3 Va prioritariamente deciso il ricorso avverso il diniego di definizione della lite.

Tale ricorso è infondato.

Per quanto concerne la prima doglianza, si osserva che la l. n. 130 del 2022, art. 5 comma 11, prescrive che l’eventuale diniego alla definizione debba essere “notificato entro trenta giorni con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali”; è dunque la stessa legge sulla definizione a richiamare la disciplina notificatoria propria del codice di rito e ad estenderla espressamente all’atto di diniego.

Sennonché, il richiamo e l’estensione alla disciplina della notificazione degli atti processuali fa sì che debba ritenersi anche in materia applicabile l’art. 156 c.p.c., integrante causa di sanatoria della nullità della notificazione per raggiungimento dello scopo.

Nel caso di specie, l’atto di diniego non è stato portato a conoscenza della società attraverso una delle modalità previste dagli artt. 137 c.p.c. e segg. (in quanto comunicato via Pec), e tuttavia questa inosservanza non ha comportato l’inesistenza giuridica dell’atto di diniego quanto, a tutto concedere, la nullità della sua notificazione. Ciò va detto sia perché la notificazione non è un elemento costitutivo essenziale intrinseco all’atto, quanto una condizione della sua efficacia recettizia, sia perché la comunicazione è comunque qui avvenuta – alla parte – attraverso una modalità (recapito all’indirizzo Pec della richiedente) che non è affatto estranea alla notificazione né degli atti impositivi (d.p.r. n. 600 del 1973, art. 60) né degli atti processuali (art. 149bis c.p.c. e d.lgs. n. 546 del 1992, art. 16bis).

Ebbene, sul presupposto della nullità, si deve osservare come tale modalità abbia comunque pacificamente consentito alla società sia di ricevere e conoscere appieno l’atto di diniego, sia di ritualmente impugnarlo mediante ricorso incidentale per cassazione, con conseguente sua piena tutela. Contrariamente a quanto sostenuto dalla contribuente, quindi, sussistono appieno i requisiti sananti del raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 cit., dovendosi in proposito distinguere tra la natura amministrativa dell’atto e la natura processuale delle norme richiamate dalla l. n. 130 del 2022, per la sua notificazione.

Aldilà di quanto così osservato, è comunque dirimente la circostanza (che sarà di seguito fatta oggetto specifico della disamina del secondo motivo di ricorso avverso il diniego) che un’eventuale (ma, come detto, qui insostenibile) radicale inesistenza della notificazione del diniego di definizione della lite non potrebbe evidentemente valere – ove di questa definizione difettasse il requisito legale fondante costituito dal recepimento della sua disciplina da parte del Comune – a costituire in capo alla contribuente un diritto (appunto quello alla definizione) non riconosciutole dall’Ordinamento.

Sicché l’eventuale invalidità non sanata della notificazione potrebbe, in ipotesi, influire sui termini e modi dell’impugnazione del diniego da parte del contribuente, giammai sulla gemmazione di un’agevolazione non prevista dalla legge.

E venendo, con ciò, alla seconda doglianza, dispone la l. n. 130 del 2022, art. 5 comma 15, che: “Ciascun ente territoriale stabilisce, con le forme previste dalla legislazione vigente per l’adozione dei propri atti, l’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo alle controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte il medesimo ente o un suo ente strumentale”.

La sola lettera della legge (“stabilisce”) non sembra elemento interpretativo sufficiente a fondare la qui sostenuta obbligatorietà dell’applicazione, da parte degli enti locali, delle disposizioni sulla definizione agevolata in questione.

L’art. 6 (Definizione agevolata delle controversie tributarie) d.l. n. 119 del 2018, conv. in l. n. 136 del 2018, afferma al comma 16, che ciascun ente territoriale “può stabilire” questa applicazione; e così pure la l. n. 197 del 2022, art. 1, recante un’altra procedura di definizione delle controversie tributarie, anche in questo caso comprese quelle pendenti innanzi alla Corte di Cassazione, prescrive al comma 205 che ciascun ente territoriale “può stabilire” entro il 31 marzo 2023 (…) l’applicazione delle disposizioni definitorie in cui sia parte il medesimo ente ovvero un suo ente strumentale.

Sarebbe dunque davvero singolare, in assenza di altri elementi normativi univoci volti a logicamente giustificare questa eccezione, che soltanto la l. n. 130 del 2022, abbia inteso sancire la vincolatività-obbligatorietà della disciplina di definizione per gli enti territoriali, pur ponendosi quest’ultima disciplina in complessiva continuità con normative del tutto analoghe e pressoché coeve, nell’ambito delle quali questa vincolatività è invece indubitabilmente esclusa.

Avendo riguardo alla linea evolutiva della legislazione in materia ed alla ratio legislativa volta a demandare all’autonomia delle amministrazioni locali la decisione ultima – perché non priva di risvolti anche prettamente politici e di immediata incidenza sul governo delle comunità e dei territori – di recepire o meno la disciplina definitoria delle liti pendenti, il solo dato letterale secondo cui ciascun ente locale “stabilisce” l’applicazione di questa disciplina non può ritenersi significativa di una volontà legislativa nuova e diversa; che – solo in quest’unico caso, e nonostante l’evidente comunanza sistematica di disciplina con il panorama degli altri analoghi istituti latamente condonistici – imponga senz’altro agli enti territoriali di accedere alla disciplina di favore.

Ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che la l. n. 130 del 2022 (art. 5 comma 15 cit.) non solo non mostra di voler sovrapporre la disciplina statuale alle autonomie comunali, ma anzi testualmente sancisce che il recepimento di tale disciplina ad opera di queste ultime avvenga nelle “forme previste dalla legislazione vigente per l’adozione dei propri atti”, con ciò rinviando appunto alle forme di adozione di atti prettamente deliberativi di contenuto non vincolato, che gli organi del governo comunale correntemente assumono nel pieno esercizio della propria autonomia, anche in materia impositiva e di gestione delle liti.

Da questo punto di vista, la obiettiva mancanza di parametri letterali e logico-giuridici volti a sostenere, con assoluta certezza, l’asserita obbligatorietà dell’adesione non può che essere colmata in senso costituzionalmente orientato; e dunque nel senso della affermazione – non esclusione – dell’autonomia in materia dei Comuni, secondo quanto stabilito in linea generale, e seppure entro il perimetro delle prescrizioni statuali in materia di federalismo fiscale e di coordinamento del sistema tributario nazionale, dagli artt. 117 e 119 Cost.. Sicché alle competenze (tariffarie-regolamentari, accertative, riscossive) attribuite ai Comuni in ordine ai tributi locali più armonicamente si associa la potestà (non l’obbligo) di valutare l’estensione ad essi (più esattamente, alle liti che li riguardano) del regime di definizione agevolata nella preminente e discrezionale valutazione, non ultimo, dell’impatto di tale estensione sul gettito atteso e sulle funzioni pubbliche locali che con esso si intendono perseguire e si sono programmate.

Quanto infine – sotto diverso aspetto – alla motivazione reiettiva basata sulla prognosi di infondatezza del ricorso per cassazione siccome proposto dalla T.C., basterà osservare come si tratti di argomentazione estranea non solo alla legge (come esattamente rilevato dalla ricorrente) ma anche, a ben vedere, al nucleo fondante della stessa decisione di diniego, la quale trova bastevole spiegazione nel dato di natura legislativa, chiaramente esplicitato e di per sé dirimente di ogni altra più o meno ultronea considerazione, costituito dal fatto oggettivo del mancato recepimento da parte dell’amministrazione comunale di Gavorrano dell’istituto definitorio di cui alla legge da ultimo richiamata.

In modo tale che l’atto amministrativo di diniego in questione risulterebbe comunque del tutto legittimo, pur quando se ne rilevasse l’incongruenza nell’ulteriore e sovrabbondante richiamo a quella prognosi processuale.

p. 5. Assodato dunque che non sussistono i presupposti per la definizione della lite pendente, e venendo con ciò al ricorso principale, se ne ravvisa la completa infondatezza.

La Tenuta sovrappone indebitamente i ben diversi piani del classamento catastale (da porsi in relazione con l’amministrazione finanziaria) e quello della determinazione dei presupposti e della base imponibile ai fini dell’imposizione locale Ici/Imu che quel classamento non può porre in discussione e che fa esclusivamente capo al rapporto tributario obbligatorio con il Comune.

In altri termini, il Comune recepisce – nella determinazione del valore dell’immobile tassato L. n. 504 del 1992, ex artt. 2 e 5 (ndr D.Lgs. n. 504 del 1992, ex artt. 2 e 5) – la classificazione catastale dell’immobile così come attribuitagli dall’amministrazione finanziaria, sicché ogni contestazione concernente quest’ultimo aspetto non può che essere rivolta all’amministrazione finanziaria e nell’ambito della procedura di classificazione.

Nel caso di specie è del tutto pacifico che alla data del 1 gennaio della annualità di imposizione il terreno in questione fosse iscritto in catasto in categoria D/1; una diversa classificazione di esonero per ruralità (D/10) venne effettivamente richiesta dalla società sia nel 2013 sia nel 2015, ma queste procedure Docfa non possono di per sé sortire alcun effetto sulla presente controversia, dal momento che la prima risultò errata per fatto imputabile alla contribuente, mentre la seconda venne sì accolta dall’amministrazione finanziaria ma soltanto con efficacia ex nunc.

In modo tale che ogni motivo di opposizione volto invece ad ottenere l’attribuzione retroattiva della categoria di ruralità anche per gli anni antecedenti alla procedura Docfa del 2015 (per giunta dichiaratamente al di fuori della specifica procedura di regolarizzazione autocertificata ad effetto retroattivo quinquennale di cui al d.l. n. 70 del 2011, i cui termini erano inutilmente spirati) doveva essere rivolto contro il provvedimento di classificazione catastale, e non avverso l’avviso di accertamento Ici-Imu con il quale l’amministrazione comunale ha semplicemente recepito la categoria attribuita ed in quel momento vigente.

Ne’ varrebbe obiettare, con la società ricorrente, che l’imposizione locale dovrebbe radicalmente prescindere da qualsivoglia classificazione catastale e riconoscere al terreno in esame il trattamento di favore proprio degli immobili rurali per il solo fatto che esso fosse comprovatamente asservito allo svolgimento dell’attività agricola.

Ora, questa tesi muove anch’essa da un errore di prospettiva che inficia l’intera impostazione difensiva della ricorrente, là dove vorrebbe in sostanza annichilire la categoria catastale attribuita, come se il Comune ne potesse-dovesse tout court prescindere sulla scorta di altri ed autonomi parametri determinativi dei presupposti dell’imposizione locale e della relativa base imponibile (appunto in contrasto con la richiamata disciplina Ici-Imu).

Si tratta, del resto, di tesi anche intrinsecamente destituita di fondamento alla luce del costante indirizzo di questa Corte, secondo cui il carattere rurale dell’immobile – con riguardo alla disciplina vigente ratione temporis – muove invece in via esclusiva e dirimente proprio dall’attribuzione ad esso delle relative categorie catastali (A/6 o D/10), dovendosi verificare il fattuale asservimento alla funzione agricola solo ed esclusivamente con riguardo agli immobili non accatastati (ipotesi qui non ricorrente).

Più in particolare, non vi sono ragioni per discostarsi da quanto stabilito da Cass., ss. uu., n. 18565/2009, secondo cui (in motiv.): “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto fabbricati come rurale, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal D.L. n. 557 del 1993, art. 9, conv. con L. n. 133 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1 bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, comma 1, lett. a). L’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad ICI: allo stesso modo il Comune dovrà impugnare l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10 al fine di potere legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta“. A tale orientamento hanno fatto seguito innumerevoli pronunce di legittimità (tra cui, Cass. nn. 7102/10; 8845/10; 20001/11; 19872/12; 5167/14), successivamente confermate – nel senso della ininfluenza dello svolgimento o meno, nel fabbricato, di attività diretta alla manipolazione o alla trasformazione di prodotti agricoli, rilevando unicamente il suo classamento – tra le altre, da Cass. n. 16737/15 e da Cass. n. 7930/16.

Va altresì osservato come quanto stabilito dalle SSUU nella sentenza cit. si sia fatto carico anche dei profili di jus superveniens riconducibili all’emanazione sia del d.l. n. 557 del 1993, art. 9 comma 3 bis, conv. in l. n. 133 del 1994, come introdotto dal d.l. n. 159 del 2007, art. 42bis, conv. in l. n. 222 del 2007; sia del d.l. n. 207 del 2008, art. 23 comma 1 bis, conv. in l. n. 14 del 2009.

Con la conseguenza che nemmeno in base a questa normativa – salva l’ipotesi di mancato accatastamento – è dato al giudice tributario di accertare in concreto, incidentalmente, il carattere rurale del fabbricato di cui si sostenga l’esenzione da Ici.

La stessa conclusione va, infine, riaffermata (così Cass. 7930/2016 cit. ed innumerevoli altre) pur alla luce dell’ulteriore jus superveniens (d.l. n. 70 del 2011, conv. in l. n. 106 del 2011; d.l. n. 201 del 2011, conv. in l. n. 214 del 2011; d.l. n. 102 del 2013, conv. in l. n. 124 del 2013) che ha attribuito al contribuente la facoltà di presentazione di domanda di variazione catastale per l’attribuzione delle categorie di ruralità A/6 e D/10, con effetto per il quinquennio antecedente.

Si tratta infatti di disposizioni che rafforzano l’orientamento esegetico già adottato dalle SSUU nel 2009, in quanto disciplinano le modalità (di variazione-annotazione) attraverso le quali è possibile pervenire alla classificazione della ruralità dei fabbricati, anche retroattivamente, onde beneficiare dell’esenzione Ici; sulla base di una procedura ad hoc che non avrebbe avuto ragion d’essere qualora la natura esonerativa della ruralità fosse dipesa dal solo fatto di essere gli immobili concretamente strumentali all’attività agricola, a prescindere dalla loro classificazione catastale conforme.

p. 6. Ne segue il rigetto tanto del ricorso contro il diniego di definizione della lite pendente quanto quello contro l’avviso di accertamento. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

– rigetta tanto il ricorso contro il diniego di definizione della lite pendente quanto quello contro l’avviso di accertamento;

– condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario ed accessori di legge;

– v.to il d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla l. n. 228 del 2012;

– dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.