Corte di Cassazione ordinanza n. 12853 depositata il 22 aprile 2022
contenzioso tributario – motivi di appello – documentazione prodotta in primo grado acquisita automaticamente in appello
considerato che:
dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Antonio Romaniello, titolare della ditta individuale Car Service, un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno 2006, aveva rettificato il reddito di impresa ed il valore della produzione ai fini Irpef ed Irap e disconosciuto la detraibilità dell’iva in quanto relativa a fatture emesse da società cartiere, prive di struttura operativa e gestionale idonea allo svolgimento dell’attività di impresa; avverso l’atto impositivo il contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma che lo aveva accolto; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale del Lazio ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: gli elementi indiziari forniti dall’amministrazione finanziaria erano idonei a ritenere raggiunta la prova del fatto che le società che avevano emesso le fatture non disponevano di magazzini o unità locali ove svolgere l’attività, le sedi erano inesistenti, risultavano essere evasori totali, non avevano effettuato i dovuti versamenti d’imposta; non poteva essere posto a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di fornire ulteriori elementi di prova circa la partecipazione o la consapevolezza della frode da parte del contribuente;
avverso la suddetta pronuncia il contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione affidato a quattro motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;
considerato che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 342, cod. proc. civ., e dell’art. 53, d.lgs., per non avere rilevato l’inammissibilità dell’atto di appello dell’Agenzia delle entrate, atteso che lo stesso si limitava a ripetere il contenuto del processo verbale di constatazione, senza, tuttavia, indicare le parti della sentenza del giudice di primo grado da censurare e le ragioni della censura;
il motivo è infondato;
va evidenziato che la censura non è stata correttamente rubricata, posto che la ragione espressa nel motivo di ricorso in esame attiene ad un vizio di error in procedendo, censurabile con riferimento al n. 4), comma primo, cod. proc. civ., ma lo stesso è comunque ammissibile proprio in considerazione del contenuto sostanziale del presente motivo;
ciò precisato, risulta agli atti (controricorso pagg. 6-17) che l’Agenzia delle entrate aveva specificamente censurato la statuizione della pronuncia di primo grado che aveva ritenuto illegittima la pretesa; in particolare, risulta che era stato espressamente evidenziato che: “dopo una esposizione acritica dei fatti di causa, infatti, solo a pag. 4 della motivazione della sentenza i giudici di prime cure si sono limitati a prendere atto del fatto che poiché il ricorrente avrebbe offerto la prova di avere versato somme per l’acquisto di autoveicoli, poi rivendute in Italia, non si ravviserebbe la sua compartecipazione ad azioni in frode alla legge italiana”;
inoltre, risulta specificamente indicata, quale ulteriore profilo di censura, la considerazione espressa dal giudice di prime cure che la mancanza di partecipazione alla frode fiscale non poteva essere riscontrata sulla base del fatto che le valutazioni sul mercato italiano degli autoveicoli acquistati in Germania avevano consentito al contribuente di potere proporre un’offerta commerciale più conveniente;
proprio le considerazioni espresse dal giudice di primo grado, specificamente indicate, risultano essere state oggetto di specifica doglianza in sede di appello, avendo censurato la pronuncia deducendo, in linea generale, che “la motivazione della sentenza di prime cure risulta formulata in maniera acritica rispetto al quadro probatorio emerso nel primo grado di giudizio’ e che: “diversamente da quanto addotto dai giudici di prime cure, la sentenza va riformata”, sussistendo idonei elementi presuntivi per ritenere provata la frode;
i successivi passaggi dell’atto di appello, invero, hanno la finalità di porre all’attenzione del giudice del gravame proprio quel quadro probatorio che l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto non adeguatamente valutato dal giudice di primo;
non può, quindi, ragionarsi in termini di inammissibilità dell’atto di appello;
va peraltro ribadito che, in tema di contenzioso tributario, la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni poste a fondamento dell’originaria impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della legittimità dell’accertamento (per l’Amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n.546 del 1992, art. 53, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci (Cass. civ., 20 dicembre 2018, n. 32954);
nel caso in esame, per quanto esposto, è avvenuto proprio quanto appena indicato, come pure emerge dalla stessa pronuncia impugnata che ha sintetizzato i motivi di appello proposti ed ha posto l’attenzione sulla inequivoca ragione di dissenso compiuta nell’atto di appello alla statuizione del giudice di primo grado e sulla conseguente necessaria verifica degli elementi di prova diretti ad accertare l’inesistenza delle operazioni;
con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, cod. civ., dell’art. 342, cod. proc. civ., e dell’art. 53, d.lgs. n. 546/1992;
in particolare, parte ricorrente evidenzia che il giudice del gravame avrebbe ritenuto fondato l’appello unicamente sulla base delle difese già svolte dall’Agenzia delle entrate in primo grado, senza che questa avesse prodotto nuovi elementi o ulteriori a supporto della domanda, invertendo, in tal modo, l’onere della prova a danno del contribuente, non avendo, peraltro, tenuto conto degli elementi di prova che erano stati dallo stesso fatti valere in primo grado;
il motivo è fondato;
va osservato, in termini generali, che nel processo tributario l’onere di impugnazione specifica richiesto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, non impone all’appellante di porre a sostegno dell’impugnazione argomenti giuridici o fatti di prova nuovi rispetto a quelli già respinti dal giudice di prime cure;
invero, secondo un orientamento ampiamente condiviso da questa Corte, la riproposizione, a supporto dell’appello avanzato dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, atteso il carattere devolutivo pieno, nel processo tributario, dell’appello, mezzo quest’ultimo non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (Cass. civ., 22 gennaio 2016, n. 1200; Cass. civ., 19 dicembre 2018, n. 32838; Cass. civ.,
16 giugno 2021, n. 16984);
tuttavia, questa Corte (Cass. civ., 6 novembre 2020, n. 24895) ha altresì precisato che, nel processo tributario, che si distingue dal processo civile ordinario di cognizione, i fascicoli di parte sono inseriti in modo definitivo nel fascicolo di ufficio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, sino alla sentenza passata in giudicato e, quindi, le parti non hanno facoltà, come nel giudizio civile, di ritirare i rispettivi fascicoli di parte in sede di precisazione delle conclusioni, ai sensi degli artt. 168 e 169 c.p.c.. Piuttosto, l’art. 25 citato, dispone che “I fascicoli di parte restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo” e le parti possono soltanto ottenere copia autentica degli atti e dei documenti contenuti nei fascicoli di parte e d’ufficio, ma non la restituzione dei fascicoli in originale, se non dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
ciò comporta che la documentazione depositata in primo grado dal contribuente, sebbene non si sia costituito in appello, proprio in ragione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, era ormai entrata automaticamente nel procedimento di appello e avrebbe dovuto essere comunque utilizzata dai giudici di appello ai fini della decisione;
nel caso di specie, il giudice del gravame ha provveduto ad una rivalutazione del complessivo quadro probatorio posto alla sua attenzione tenendo conto solo degli elementi di prova presuntiva prospettati dall’Agenzia delle entrate (le società che avevano emesso le fatture non disponevano di magazzini o unità locali ove svolgere l’attività, le sedi erano inesistenti, le suddette società erano risultate evasori totali e non avevano effettuato i dovuti versamenti di imposta), limitandosi ad affermare che era onere del contribuente dimostrare la veridicità delle operazioni commerciali, senza, tuttavia, esaminare la documentazione dallo stesso prodotta, incorrendo, in tal modo, nella violazione di legge;
con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 19, comma 1, e 21, comma 7, d.P.R. n. 633/1972, nonché dell’art. 2697, cod. civ., per non avere posto a carico dell’Agenzia delle entrate l’onere di provare la consapevolezza del contribuente di partecipare alla frode;
il motivo è fondato;
questa Corte ha precisato, in tema di riparto dell’onere della prova, che, nell’ambito di una frode carosello o meno, l’Amministrazione ha l’onere di provare solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ossia la sua non operatività, oltre che la consapevolezza del destinatario di essere parte di un’evasione, anche in via presuntiva in quanto avrebbe dovuto conoscere l’inesistenza del contraente, dovendo poi provare il contribuente di aver rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. 20 aprile 2018 n. 9851);
il giudice del gravame non si è attenuto ai suddetti principi, pur avendo compiuto un accertamento in fatto in ordine alla valenza presuntiva degli elementi indiziari idonei a ritenere che i soggetti che avevano emesso le fatture fossero inesistenti, ha, tuttavia, erroneamente posto a carico del contribuente l’onere di provare la propria buona fede, senza tenere conto, invece, se sussistevano prove, anche indiziarie, fornite dall’amministrazione finanziaria, in ordine alla circostanza che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere della partecipazione alla frode;
con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame circa fatti decisivi e controversi per il giudizio, non avendo esaminato gli elementi di prova forniti dal contribuente in ordine alla propria diligenza e, quindi, alla propria condizione di buona fede;
le considerazioni espresse in relazione al terzo motivo di ricorso hanno valore assorbente del presente motivo;
in conclusione, sono fondati il secondo e terzo motivo, infondato il primo e assorbito il quarto, con conseguente cassazione della sentenza per i motivi accolti e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il secondo e terzo motivo, infondato il primo e assorbito il quarto, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite.
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