Corte di Cassazione ordinanza n. 12886 depositata il 22 aprile 2022
azione revocatoria
FATTI DI CAUSA
1. G.G. di C.G. & s.a.s., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché C.G. e C.A. ricorrono con tre motivi contro l’Agenzia delle entrate per la revocazione della sentenza della Suprema Corte di Cassazione n.9436/2020, depositata il 22 maggio 2020n.22086/2020, che ha rigettato il ricorso dei contribuenti, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento per Irap, Iva ed Irpef dell’anno 2005.
2. Con l’ordinanza impugnata, per quanto qui di interesse, la Corte riteneva infondato il primo motivo di ricorso, con cui contribuenti avevano denunziato la violazione di legge per falsa o erronea applicazione dell’art. 39, secondo comma, del P.R. n. 600/1973, in quanto nella fattispecie non sussistevano i presupposti per procedere all’accertamento induttivo, con la conseguenza che non sarebbe stato possibile attribuire rilevanza alla circostanza che i versamenti a titolo di finanziamento dei soci fossero avvenuti per cassa. Secondo la Corte, infatti, la C.t.r. aveva correttamente ritenuto legittimo il tipo di accertamento svolto, evidenziando il contrasto tra la contabilità ed i criteri di ragionevolezza ed economicità della gestione, contrasto desunto da diversi elementi, puntualmente indicati nella sentenza di appello, dovendosi ritenere che la discrasia, tra le perdite di esercizio ed il notevole incremento delle rimanenze, da un lato, e la riduzione delle passività verso fornitori e banche, dall’altro, non poteva considerarsi giustificata facendo leva sugli smobilizzi documentati dai soci, nettamente inferiori alle somme che essi avevano apportato alla società.
In relazione al secondo motivo, con cui i ricorrenti avevano lamentato, sotto diversi profili, il fatto che la C.t.r. avesse trascurato l’esame di alcuni documenti prodotti dai ricorrenti, idonei a dimostrare l’esistenza di un maggior importo complessivo derivante dalla dismissione dei titoli, nonché l’esistenza di maggiori disponibilità finanziarie dei soci, la Corte ne aveva ritenuto l’inammissibilità, osservando quanto segue: in primo luogo, non era dato ricavare, né dal ricorso né dalla sentenza, se i documenti, asseritamente trascurati dalla C.t.r., afferissero ad operazioni effettivamente non considerate ai fini del calcolo complessivo degli 189 mila euro, già presi in considerazione dall’ufficio a titolo di smobilizzo di investimenti; in secondo luogo, sotto il profilo dell’asserita carenza di motivazione, la censura ometteva del tutto di rimarcare la decisività del fatto trascurato, in quanto, pur considerando le ulteriori somme, a dire dei ricorrenti non conteggiate nel calcolo complessivo degli smobilizzi, l’ammontare di questi ultimi si sarebbe incrementato, ma non al punto da raggiungere la somma di 398 mila euro, pari all’ammontare complessivo degli apporti alla società; in terzo luogo i ricorrenti, pur avendo affermato di aver prodotto documenti trascurati dalla C.t.r., avevano omesso di specificare quale significato avessero assegnato ai documenti nel corso del giudizio di merito.
Con riguardo al terzo motivo, con cui i ricorrenti avevano lamentato la violazione di legge (in particolare dell’art. 7 della legge n. 212/2000, dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), in quanto gli atti impositivi notificati ai soci erano stati motivati per relationem ad atti non allegati o non notificati ai soci stessi, attraverso il mero riferimento all’avviso di accertamento emesso nei confronti della società, la Corte ne aveva ritenuto l’infondatezza, in quanto la C.t.r. si era uniformata al principio di diritto, secondo cui «in tema di imposte sui redditi, l’obbligo di motivazione degli atti tributari, come disciplinato dall’art. 7 della legge n. 212 del 2000, e dall’art. 42 dei d.P.R. n. 600 del 1973, è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii per relationem a quello riguardante i redditi della società, ancorché solo a quest’ultima notificato, giacché il socio, ex art. 2261 e.e., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi>> (Cass. n. 17463/2019 e n. 14275/2018).
Infine, con riferimento al quarto motivo, relativo alla violazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, avendo errato la C.t.r. nel ritenere notificato l’avviso di accertamento in data 17 dicembre 2010 e non nel momento in cui il legale rappresentante aveva avuto piena conoscenza dell’avviso, ossia in data 29 gennaio 2011 (quando era ormai maturato il termine di decadenza entro il quale la notifica doveva avvenire), la Corte ne aveva rilevato l’inammissibilità, affermando che i ricorrenti avevano omesso di trascrivere il contenuto dei documenti prodotti in primo grado e che, comunque, l’asserzione contrastava irrimediabilmente con quanto affermato dalla C.t.r. (che invece considerava decisiva la data del 17 dicembre 2010, allorché il legale rappresentante della società rifiutò di sottoscrivere l’atto di ritiro), sicché la doglianza avrebbe, al più, dovuto essere oggetto di revocazione.
3. A seguito del ricorso dell’Agenzia delle entrate resiste con
Il ricorso è stato fissato per l’udienza pubblica del 5 aprile 2021. I ricorrenti hanno depositato memoria.
Il sostituto procuratore generale, C.A., ha depositato conclusioni scritte, con cui ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 Con il primo motivo, i ricorrenti denunziano il vizio ex 395, n.4, cod. proc. civ., in relazione al primo motivo di ricorso per cassazione, con riferimento alla mancata percezione dei finanziamenti dei soci ed al rilievo della circostanza per la rideterminazione dell’imponibile.
Con il secondo motivo, i ricorrenti denunziano il vizio ex art.395, n.4, cod. proc. civ., in relazione al secondo motivo di ricorso per cassazione, con riferimento alla mancata percezione dei finanziamenti dei soci ed al rilievo della circostanza per la rideterminazione dell’imponibile.
Con il terzo motivo,· i ricorrenti denunziano il vizio ex art.395, n.4, cod. proc. civ., in relazione al secondo motivo di ricorso per cassazione, con riferimento alla mancata percezione dei finanziamenti dei soci ed al rilievo della circostanza per la rideterminazione dell’imponibile.
1.2 I motivi sono inammissibili.
Con i motivi di ricorso per revocazione, G.G. di C.G. & C. s.a.s., Giorgio Cosentino e Anna Consiglio invocano l’errore di fatto in cui sarebbe incorsa la Corte di cassazione nel non aver considerato i finanziamenti dei soci, i quali, ove adeguatamente valutati nel loro ammontare, avrebbero escluso la legittimità dell’accertamento induttivo.
Il sostituto procuratore generale osserva che la circostanza di fatto di cui sopra costituì un punto controverso sul quale l’ordinanza di cui si chiede la revocazione ebbe espressamente a pronunciarsi, proprio con riferimento all’ammontare contestato.
Il che escluderebbe l’ammissibilità della revocazione (vedi Cass., Sez. I, n. 9527/2019; n. 27094/2011).
La Corte condivide tale conclusione, rilevando che le Sezioni Unite hanno precisato che <<non costituiscono vizi revocatori delle sentenze della S.C., ex artt. 391 bis e 395, n. 4, c.p.c., né l’errore di diritto sostanziale o processuale, né l’errore di giudizio o di valutazione>> (Cass. S.U. n. 30994/2017; Cass. S.U. n.8984/2018). Dunque, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, l’istanza di revocazione di una pronuncia della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. civ., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato (cfr. anche Cass. n. 442/2018).
Nel caso di specie non è ravvisabile l’errore di fatto risultante dagli atti e documenti di causa e non ricorre la condizione prevista nell’ultimo capoverso del n.4 dell’art.395 cod. proc. civ., a mente del quale il fatto non deve costituire un punto controverso sul quale il giudice ebbe a pronunciarsi.
Invero, la sussistenza dei presupposti per l’accertamento induttivo è stata oggetto di discussione tra le parti e di valutazione da parte dei giudici di merito e della Cassazione.
La parte ricorrente ritiene che tutte le rationes decidendi enunciate dalla Corte di cassazione derivino dall’errore indotto dalla scarna motivazione del secondo giudice.
In particolare, la tesi dell’ufficio era che gli apporti fatti nell’anno 2005 di euro 398.005,74, comprovati solo per euro 56.905,15 da documentazione bancaria e confluiti per euro 321.600,99 nel conto cassa contante, fossero riconducibili a introiti della società realizzati «in nero», non transitati nella contabilità della società come componenti positivi di reddito.
Tuttavia, in considerazione che le dismissioni ed acquisizioni patrimoniali dei coniugi nel periodo 2000/2005 evidenziavano per l’anno 2005 un differenziale positivo di euro 112.500,00, prudenzialmente l’ufficio aveva considerato quest’ultimo valore apportato nella società, per cui riteneva che nella casse della società fosse affluito in maniera contabilmente ingiustificata l’importo di euro 209.100 pari cioè a 321.600,99 meno 112.500,00.
I contribuenti depositavano documentazione per giustificare la somma di euro 209.609,99, contestata e considerata come derivante da introiti in nero, e tale documentazione è stata oggetto d’esame da parte delle Commissioni provinciale e regionale, rispettivamente nel primo e nel secondo grado di giudizio.
Dunque ciò che i contribuenti ritengono pacifico in realtà non lo è, in quanto gli stessi fanno rientrare in quella che definiscono «un’operazione matematica di immediata percezione» le dismissioni di strumenti finanziari non considerate dall’ufficio in quanto ritenute non dimostrate.
Pertanto, la decisione della Corte, che ha rigettato il ricorso dei contribuenti, non è affetta da un errore revocatorio, ma, eventualmente, da errores in procedendo e in iudicando, relativi alla valutazione delle risultanze processuali, i quali, però, non sono denunciabili con la domanda di revocazione ex arti. 391 bis e 395 n. 4 cod. proc. civ.
Sotto altro profilo, si evidenzia che i presunti errori di percezione delle risultanze del processo attengono direttamente a questioni (e cioè, da una parte, la sussistenza, nella specie, dei presupposti legittimanti l’adozione del metodo induttivo, e dall’altra, la correttezza e legittimità della rideterminazione dell’imponibile effettuata dall’ufficio) le quali, avendo formato oggetto del dibattito processuale sin dal primo grado di giudizio, non possono dar luogo ad un errore c.d. revocatorio ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod.proc.civ. (che esclude, appunto, la revocabilità della sentenza qualora l’errore vetta su “fatti controversi”).
Per quanto fin qui detto, il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.
I ricorrenti vanno condannati alle spese del giudizio, secondo la liquidazione effettuata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.