Corte di Cassazione ordinanza n. 13225 depositata il 27 aprile 2022

società di comodo – prova contraria

FATTI DI CAUSA

1. La Z. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, di cui all’epigrafe, che ha accolto l’ appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Benevento, che aveva accolto, dopo averli riuniti, i ricorsi della contribuente contro l’avviso d’accertamento, relativo all’Ires ed all’Irap di cui all’anno d’imposta 2006 e contro l’atto di recupero del credito Iva derivante dalla dichiarazione Unico/2007, indebitamente utilizzato per l’anno d’imposta

Infatti la s.r.l. aveva presentato nel 2007, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, un’istanza di disapplicazione delle disposizioni sulle società di comodo di cui al medesimo art. 30, che presume il reddito minimo di cui al comma 3 a carico delle società̀ che considera non operative, per non aver presentato, nell’ultimo triennio di esercizio, una media di ricavi, incrementi di rimanenze e proventi pari a quella stabiliti in base ai criteri dettati dalla stessa norma.

L’Agenzia delle entrate aveva respinto l’interpello e, non essendosi la controparte adeguata al parere dell’Amministrazione, aveva quindi emesso l’ avviso di accertamento e l’atto di recupero in questione.

2. L’Agenzia delle entrate si è costituita con

3. La contribuente ha prodotto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, num. 6-bis), legge n. 724 del 1994, per il quale le disposizioni del primo periodo dello stesso comma non si applicano « alle società̀ che nei due esercizi precedenti hanno avuto un numero di dipendenti mai inferiore alle dieci unità;».

Assume infatti la ricorrente che, non avendo essa mai avuto meno di dieci dipendenti nei due esercizi antecedenti quello accertato, la CTR avrebbe dovuto derivarne la conseguente inapplicabilità̀ dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, con esclusione pertanto della sua qualificazione come società̀ di comodo e della conseguente presunzione legale del reddito minimo imponibile.

Il motivo è inammissibile, atteso che, come eccepito dalla controricorrente e rilevato dal P.G., la relativa questione (che non ha natura puramente giuridica, ma presuppone l’accertamento in fatto dei presupposti dell’esclusione della presunzione legale di non operatività̀ delle società̀ di comodo) prevista dall’art. 30, comma 1, legge n. 724 del 1994) non è stata proposta dalla contribuente né con il ricorso introduttivo; né in appello, essendo la s.r.l. rimasta contumace innanzi la CTR.

Il motivo è comunque anche infondato.

Infatti questa Corte ha già̀ avuto modo di precisare, a proposito della causa di esclusione della presunzione di non operatività delle società̀ di mero godimento prevista dall’art. 30, comma 1, n. 6-sexies, legge n. 724 del 1994 – introdotta, con effetto dall’1 gennaio 2008, dall’art. 1, comma 128, lett. c), legge 24 dicembre 2006, n. 244- che si tratta di norma non avente natura neppure latu sensu processuale, ma solo sostanziale, in quanto idonea ad incidere direttamente sulla decisione di merito, sicché́ è priva di efficacia retroattiva e non è applicabile agli accertamenti riguardanti i periodi d’imposta anteriori al 2008 (Cass. 17/07/2018, n. 18912; Cass. 04/12/2019, n. 31626, in motivazione).

Tale conclusione è basata, nei predetti precedenti, sulla natura sostanziale della «causa di esclusione» prevista dal n. 6-sexies (società̀ congrue e coerenti ai fini degli studi di settore) che – privando di efficacia la presunzione di non operatività̀ della società̀ – rileva come elemento costitutivo, strutturale, del complesso congegno probatorio riguardante le società̀ di comodo.

Si tratta di una regola di giudizio che, ove ricorrano le condizioni per la sua applicazione, ha una diretta ricaduta sulla decisione di merito e non assume, certamente, la minore portata – tipica delle norme processuali e delle norme procedurali – di mera regola per la deduzione, l’ammissione e l’assunzione di una certa prova, oppure di semplice criterio di regolamentazione della procedura di accertamento o di riscossione di un tributo.

Ritiene il Collegio che tali argomentazioni valgano a determinare la natura sostanziale e l’irretroattività pure dell’esclusione della presunzione derivante dal numero dei dipendenti della società nei due anni precedenti, anch’essa introdotta, con effetto dall’1 gennaio 2008, dall’art. 1, comma 128, lett. c), legge 24 dicembre 2006, n. 244.

2. Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, proc. civ. ed agli artt. 2697 cod. civ. e 111, sesto comma, Cost., la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 30, comma 1, num. 4-bis), legge n. 724 del 1994.

Rileva infatti la contribuente che il ridetto comma 4-bis) consente la prova liberatoria, ai fini della disapplicazione delle relative disposizioni antielusive, « in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché’ del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4».

A detta della ricorrente, la CTR avrebbe errato nell’applicare tale disposizione, avendo dato rilievo, al fine di escludere (come già aveva fatto l’Amministrazione in sede d’interpello) la disapplicazione della disciplina delle società di comodo, ad un «elemento di carattere soggettivo, non previsto dalla norma», consistente nella circostanza che «la società ha artatamente costituito un patrimonio (immobili, macchinari ed impianti) al fine di fruire di ingenti contributi in conto capitali da parte dell’Autorità statale» (così la motivazione della sentenza impugnata).

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha invero già ritenuto che «In tema di società di comodo, l’art. 30 della l. n. 724 del 1994, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell’istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle “disposizioni antielusive”), in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento.» (Cass. 20/04/2018 , n. 9852). Si legge infatti nella motivazione di tale arresto che la normativa in esame « rispondente a fini antielusivi, è funzionale alla realizzazione piena del principio di capacità contributiva, cui è stato geneticamente collegato con la sentenza n.30055/08 delle Sezioni Unite di questa Corte; l’esigenza di coniugare l’equilibrio nel riparto del carico fiscale e il diritto di difesa del contribuente appare sufficientemente garantita dagli strumenti del contraddittorio e della necessaria motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento;» (Cass. 20/04/2018 , n. 9852, cit., in motivazione; conformi, ex aliis, Cass. 04/12/2019, n. 31626, cit., in motivazione; Cass. 30/12/2019, n. 34642; Cass. 21/09/2021, n. 25537; Cass. 27/07/2021, n. 21451).

Come questa Corte ha già rilevato (cfr. Cass. 13/05/2021, n. 12862, in motivazione), la finalità della disciplina in esame è quella di «scoraggiare» l’uso dello strumento societario per l’intestazione di beni non funzionali allo svolgimento dell’attività d’impresa e, quindi, per il possesso e la gestione di beni immobili e partecipazioni societarie (in questo senso cfr. la relazione governativa alla legge n. 662 del 23 dicembre 1996 – che ha apportato modifiche al citato art. 30, e la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007), ovvero per raggiungere scopi, quale l’amministrazione dei patrimoni personali dei soci, eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali – come quello, proprio, delle società cd. di mero godimento (Cass. 13/05/2015, n. 21358; Cass. 28/09/2017, n. 26728).

In tale contesto, il mancato raggiungimento degli standard minimi di ricavi riconducibile agli assetti patrimoniali della struttura societaria funge quindi da elemento sintomatico di selezione ed individuazione degli enti non operativi (Cass. 24/02/2020, n. 4850).

Tuttavia, come evidenziato anche in dottrina, il regime delle società di comodo ha contemporaneamente un contenuto antievasivo, perché diretto a far emergere proventi non dichiarati, cosicché sussiste « una necessaria e stretta correlazione tra la condizione di “non operatività” delle società di comodo e la presunzione legislativa di una loro redditività minima e la conseguente manifestazione di capacità contributiva che ne giustifica, sul piano della legittimità, la tassazione sulla base, appunto, di un reddito minimo presunto» (Cass. 13/05/2021, n. 12862, cit., in motivazione).

Anche in seguito alle modifiche apportate all’art. 30 della l. n. 724 del 1994 dalla l. n. 296 del 2006, permane la possibilità per il contribuente di vincere la presunzione legale in materia di società di comodo attraverso la prova contraria, qualificata dalla ricorrenza di una situazione oggettiva a sé non imputabile che ha reso impossibile il conseguimento di ricavi e la produzione di reddito entro la soglia minima stabilita ex lege (Cass. 24/02/2021, n. 4946). E la prova contraria offerta dal contribuente «può riguardare sia il mancato raggiungimento della soglia di operatività, sia il reddito minimo presunto normativamente, ben potendo la società evidenziare le circostanze che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima di componenti presuntivi e che, pertanto, giustificano la minore entità di componenti positivi dichiarati e risultanti dalla contabilità, nonché contestare le ulteriori presunzioni poste dalla normativa, indicando eventuali condizioni che hanno reso impossibile conseguire l’imponibile minimo (in tal senso, anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 2007)», con la conseguenza che « ogni situazione in grado di giustificare la divergenza tra il quantum dichiarato dal contribuente ed il quantum determinato applicando i parametri di legge deve essere presa in considerazione al fine di verificare il superamento delle presunzioni di legge. La caratteristica di “oggettività” delle situazioni che il contribuente può far valere, nella ratio del comma 4-bis dell’art. 30, non ha, infatti, la funzione di distinguere tra cause esterne, che si impongono al soggetto, e cause che derivano (anche solo in parte) da libere determinazioni di quest’ultimo, ma quella di richiedere che quest’ultimo sia in grado di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato» (Cass. 13/05/2021, n. 12862, cit., in motivazione).

Secondo la recente giurisprudenza di questa Corte, l’onere della prova contraria dell’ impossibilità, di cui al comma 4-bis dell’art. 30 citato, del conseguimento di ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi, nonché del reddito, determinati secondo i criteri predeterminati dalla stessa disposizione, deve essere inteso «non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato» (Cass. 20/06/2018 n. 16204; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 05/04/12/2019, n. 31626; Cass. 01/02/2019, n. 3063; Cass. 28/05/2020, n. 10158).

E’ peraltro opportuno sottolineare che, secondo quanto già ritenuto da questa Corte (Cass. 26/02/2020, n. 5163, in motivazione), all’anno d’imposta in questione (2006) deve applicarsi « il comma 4-bis dell’art. 30, nella formula originariamente introdotta dal d.l. 223 cit. [ art. 30, comma 15, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modifiche, nella legge 4 agosto 2006, n. 248] – , sicché l’istanza di disapplicazione poteva essere proposta nelle ipotesi di “oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi […]”. Tale formulazione del testo normativo ha avuto vigenza per tutto l’anno d’imposta 2006, come espressamente previsto dal comma 16 del medesimo d.l., mentre la successiva soppressione delle parole “di carattere straordinario”, ad opera dell’art. 1, co. 109, lett. h), l. n. 296/2006 [ legge 27 dicembre 2006, n. 296], ha avuto effetto a partire dall’anno d’imposta 2007 -che qui dunque non interessa-. Non può infatti condividersi la presunta soppressione sin dall’anno d’imposta 2006, come pretende la contribuente, in forza del comma 110 del d.l. 296 cit. che non menziona affatto la lett. h).».

Tuttavia, in concreto, l’impianto motivazionale della sentenza impugnata, senza specifiche contestazioni di nessuna delle parti, prescinde da ogni incidenza, sul caso di specie, della formula “di carattere straordinario”, escludendo comunque che sia stata raggiunta la prova liberatoria anche di circostanze (soltanto) oggettive.

Peraltro, anche con riguardo ad un periodo di imposta per il quale operava l’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994 nel testo antecedente alla soppressione della formula «di carattere straordinario», è stato comunque ritenuto che l’impossibilità per l’impresa di conseguire il reddito minimo secondo il meccanismo di determinazione di cui al richiamato art. 30, per situazioni oggettive di carattere straordinario, deve essere intesa non in termini assoluti, bensì elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standard minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta» (Cass. 03/11/2020, n. 24314).

E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativo e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che « In tema di società di comodo, non sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, ex art. 30, comma 4-bis, della l. n. 724 del 1994, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’art. 2086, comma 2 c.c., come modificato dall’art. 375 c.c.i., in coerenza con l’art. 41 Cost. – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale. Sicché in tal caso, il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule“, sempre valutabile, sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche.» (Cass. 23/11/2021, n. 36365).

L’ammissibilità (sia in fase amministrativa, nel caso di specie attraverso l’interpello disapplicativo concretamente richiesto prima ancora dell’emissione dell’atto impositivo; che in giudizio, nel caso concreto attraverso i mezzi istruttori valutati dalla CTR: cfr. Cass. 28/09/2021, n. 26219), l’oggetto e l’elasticità della prova contraria imputata al contribuente dalla norma contribuiscono pertanto a garantire quell’equilibrio tra le esigenze antieleusive ed antievasive ed il diritto di difesa del contribuente, già evidenziato dai citati precedenti di questa Corte.

2.1 Tanto premesso, deve rilevarsi che nel caso di specie la CTR ha fatto buon governo dei predetti principi, avendo accertato, in punto di fatto, che le circostanze ( « crisi del settore della produzione, impossibilità di produrre, collocazione in cassa integrazione lavoratori»), dedotte dalla contribuente nell’istanza d’interpello e poi trasfuse nei ricorsi avverso gli atti impositivi, non integrano la prova contraria di cui all’art. 30, comma 4-bis, legge 724 del 1994, non avendo esse «reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché’ del reddito» determinati ai sensi dello stesso articolo. Infatti, secondo la valutazione del giudice a quo, tale “risultato negativo” è stato piuttosto conseguenza di una specifica e predeterminata volontà dello stesso imprenditore, che ha determinato sia l’artata costituzione di un patrimonio iniziale, sproporzionato rispetto all’effettiva capacità produttiva dell’azienda e finalizzato alla fruizione di ingenti contributi statali; sia la mancanza di una effettiva presenza di dipendenti nella struttura produttiva in questione; sia l’assenza di alcuna effettiva attività produttiva; sia la successiva modifica di fatto dell’oggetto sociale, passato dalla produzione alla sola commercializzazione di capi d’abbigliamento.

La CTR ha ritenuto nella sostanza che tutte tali circostanze si inseriscono in una «preordinata linea di condotta diretta a precostituire la tesi di un’impossibilità di proseguire l’attività produttiva e quindi di sottrarsi al regime della normativa antielusiva», concludendo pertanto che la pretesa « crisi del settore della produzione» non era derivata da cause oggettive che avessero reso impossibile la produzione, ma costituiva la deliberata conseguenza di una specifica volontà elusiva dell’imprenditore (peraltro motivata dal fine di fruire di benefici, per un’attività di produzione mai concretamente attivata, altrimenti non spettanti). Fermo restando che non sono sindacabili, in questa sede di legittimità, gli accertamenti in fatto cui è pervenuto il giudice d’appello, deve quindi concludersi che, per quanto qui rileva, ovvero ai fini della verifica dell’assolvimento dell’onere della prova gravante sulla contribuente, la CTR non ha commesso gli errores in iudicando che le imputa il ricorso.

3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se dovuto.