Corte di Cassazione ordinanza n. 13235 depositata il 28 aprile 2022
IVA – operazioni inesistenti
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle entrate ricorre con quattro motivi contro l’M. s.r.l. per la cassazione della sentenza n.1102/26/2014 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 16 giugno 2014, depositata in data 30 giugno 2014 e non notificata, che ha rigettato l’appello principale dell’ufficio ed accolto quello incidentale del contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento per maggiori Iva per l’anno di imposta 2005, Ires ed Irap per l’anno di imposta
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. riteneva che gli avvisi suddetti fossero carenti sotto il profilo motivazionale, in quanto facevano riferimento ad un v.c. della G.d.F. di Cittadella dell’8 marzo 2009, il quale a sua volta rinviava a verifiche effettuate presso terzi, senza che queste ultime fossero state riprodotte nel loro contenuto essenziale o allegate.
Quanto al merito, la C.t.r. condivideva la motivazione dei primi giudici, secondo cui la società contribuente non aveva tratto alcun vantaggio fiscale dalla condotta contestata, come accertato anche nel giudizio penale sulla base di una perizia di parte ed una consulenza tecnica d’ufficio; lo stesso giudice penale, infatti, aveva individuato maggiori costi fittizi di cui aveva beneficiato F. (per effetto della vendita dell’impianto da M. alla stessa F. e poi da questa a T.), evidenziando che T. avrebbe posto in essere, nei confronti di diversi soggetti giuridici, fatturazioni per operazioni inesistenti al fine di simulare un giro d’affari superiore a quello reale ed accedere così al credito bancario, occultando la situazione di difficoltà economica in cui versava.
La C.t.r. rilevava che lo stesso Ufficio, nella memoria del 15.5.2014, aveva dato atto che la situazione, alla luce della sentenza del Tribunale, doveva essere riconsiderata e che le operazioni poste in essere apparivano appartenere al novero delle operazioni oggettivamente inesistenti (laddove negli atti del giudizio di primo grado aveva sempre parlato di operazioni soggettivamente inesistenti), concludendo di dover attendere il parere della Commissione Autotutela presso la D.R.E. Veneto per assumere provvedimenti di totale o parziale annullamento.
Il giudice di appello, inoltre, evidenziava che, in applicazione dello Jus superveniens ex art. 8 d.l. 2.3.2012 n. 16 conv. dalla I. n.44/2012, i costi relativi ad operazioni “oggettivamente” (rectius soggettivamente) inesistenti erano comunque deducibili.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la C.t.r. rigettava l’appello principale dell’Ufficio ed accoglieva quello della società, annullando gli atti impositivi.
3. A seguito del ricorso, la società resiste con controricorso, richiamando le eccezioni non esaminate, perché rimaste assorbite dalla decisione favorevole del giudice di appello, e spiegando ricorso incidentale sulle spese del giudizio di secondo grado affidato ad un motivo.
Il ricorso è stato fissato per l’udienza pubblica dell’11 gennaio 2022.
Il sostituto procuratore. generale, Mauro Vitiello, ha depositato conclusioni scritte, con cui ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale.
La società ha depositato memoria.
A seguito di rinvio per impedimento del relatore, il giudizio veniva nuovamente fissato per l’adunanza camerale del 6 aprile 2022.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione degli artt.112, 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art.360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la C.t.r. avrebbe fatto “malgoverno dei propri poteri di cognizione” non avendo in alcun modo considerato espressamente e nel loro contenuto, sia gli avvisi di accertamento impugnati, sia il sottostante p.v.c. dell’8 marzo 2009, notificato alla contribuente. Se infatti è vero che la valutazione circa la sussistenza dei requisiti di validità della motivazione del provvedimento impositivo spetta al giudice del merito, è anche vero che quest’ultimo ha il dovere di esaminare sia il contenuto del provvedimento impositivo, sia gli atti sottostanti ad esso, per verificare se l’onere motivazionale è stato correttamente adempiuto.
La ricorrente deduce che, nel caso di specie, si imputava alla società contribuente un sistema di fatturazione inesistente nel contesto di un meccanismo fraudolento. A tal riguardo, riporta uno stralcio della motivazione degli avvisi di accertamento impugnati, in cui si sosteneva che la società aveva indicato in contabilità costi derivanti da fatturazioni per operazioni inesistenti.
Pertanto, non sarebbero pertinenti le considerazioni del giudice di appello sulle operazioni soggettivamente inesistenti.
Con il secondo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione degli artt.42 d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, 56 d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633 e 7 l. 27 luglio 2000, n.212, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
La ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata, che si sarebbe limitata a statuire che il provvedimento impositivo era illegittimo in quanto “motivato con il rinvio ad un altro atto dell’amministrazione (nella specie il p.v.c. 28.1.2009 a carico della F.), non allegato agli avvisi di accertamento e non noto al contribuente”, senza esaminare il contenuto dell’atto al fine di verificare la congruità della motivazione.
Inoltre, rileva la ricorrente che deve escludersi la violazione dell’obbligo motivazionale dell’atto impositivo, allorché gli elementi non richiamati si collochino al di fuori della pretesa impositiva.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo ed oggetto di discussione tra le parti, consistente nella circostanza che l’atto impositivo si basava sul p. v.c. dell’8 marzo 2009, regolarmente notificato alla società contribuente e riportato comunque negli atti impositivi nel suo contenuto essenziale.
Inoltre, anche il rilievo della mancata allegazione del p.v.c. elevato nei confronti della F. non sarebbe dirimente, in quanto gli elementi essenziali di tale ulteriore p.v.c. sarebbero tutti riassunti nel
p.v.c. notificato alla società contribuente, in cui viene ampiamente illustrato (con la motivazione riportata in ricorso) il meccanismo della frode posta in essere.
1.2. I motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati e vanno accolti.
Come questa Corte ha già precisato, <<in tema di motivazione per relationem degli atti d’imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, dello Statuto del contribuente, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento da esso richiamato in motivazione, si riferisce esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza>> (Cass. n.29968/2019).
In particolare, ai fini dell’ammissibilità della motivazione per relationem dell’atto impositivo, è sufficiente il rinvio dell’avviso di accertamento al p.v.c. notificato al contribuente (cfr. Cass. n. 29002/2017).
E’ quindi, ammissibile una motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, in quanto l’Ufficio stesso mostra semplrcemente di condividerne le conclusioni, realizzando una economia di scrittura che non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (cfr. Cass. n.32957/2018).
Inoltre, come è stato detto, <<l’art. 7, comma 1, della I. n. 212 del 2000, che si riferisce solo agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza, consente di assolvere all’obbligo di motivazione degli atti tributari anche per relationem, ovvero mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione permette al contribuente ed al giudice, in sede di· eventuale sindacato giurisdizionale, di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento>> (Cass. n.9323/2017).
Nel caso di specie, risulta pacifico che gli avvisi di accertamento erano motivati per relationem al p.v.c. della G.d.F., già notificato alla società contribuente.
Il giudice di appello ha ritenuto che fossero carenti di adeguata motivazione, in quanto il p.v.c. notificato alla società contribuente, a sua volta, faceva riferimento al p.v.c. notificato alla F. s.r. l., società terza, e tale ultimo atto non era stato allegato agli avvisi di accertamento, né era stato riprodotto nel suo contenuto essenziale.
Tuttavia, in tal modo la C.t.r. ometteva del tutto di valutare l’ampia illustrazione dei fatti contenuta nel p.v.c. notificato alla società contribuente e riportato in ricorso, incorrendo nella denunziata violazione di legge.
2. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli 19 d.P.R.26 ottobre 1972, n.. 633, 109 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, 2 e 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la società M. era una società fittizia, creata al solo scopo di vendere un impianto, mai completamente pagato, alla F. Company s.r.l., con la conseguenza di un’esposizione nella dichiarazione per l’anno 2005 di un credito Iva inesistente di euro 695.628,00.
Fatta questa precisazione, la ricorrente ritiene che, nella sentenza impugnata, sia evidente la violazione dell’art. 19 d.P.R. n. 633/72 in relazione alla fattispecie di accertata sovrafatturazione nell’anno 2005, in quanto il destinatario della fattura, nel caso di operazioni inesistenti, non può portare in detrazione l’iva addebitatagli, per l’espressa preclusione posta dall’art. 19, comma 1, citato, che la consente esclusivamente “in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio di impresa, arte o professione” (cosiddetto principio di inerenza).
La configurazione della violazione sarebbe consequenziale alla natura stessa dell’imposta e al meccanismo della sua applicazione: un’imposta che “si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate … ” è un’imposta che colpisce la “effettuazione” delle operazioni, e cioè la loro realtà (cosiddetto principio dì effettività), e la fattura, quale strumento necessario di applicazione, deve corrispondere nel suo contenuto alla portata, in termini, di imponibile e di imposta, delle operazioni stesse.
Inoltre, la ricorrente deduce che la pronuncia della C.t.r. contrasta altresì con l’art. 109 del T.U.I.R. in relazione alla fattispecie di accertata sovrafatturazione, consentendo la deducibilità, nell’anno 2006, di costi documentati da fatture emesse per operazioni inesistenti.
Ritiene la ricorrente che, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, l’indeducibilità dei componenti negativi, relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, discende direttamente e inevitabilmente dalle norme del T.u.i.r. sulla determinazione del reddito imponibile. Se è corretto ritenere deducibili i costi che contribuiscono alla formazione del maggior reddito, questa possibilità deve però riguardare costi effettivi, mentre nel caso di specie si tratta di çosti fittizi, come tali non comprovati né comprovabili, cui sono connessi ricavi fittizi.
Infine la ricorrente evidenzia che il giudice di appello erroneamente ha affermato: <<Occorre inoltre considerare che, in applicazione dello jus superveniens ex art. 8 d.l. 2.3.2012 n. 16 conv. in l. 44/2012, vanno comunque dedotti i costi relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti>>. Ed invero, l’argomento decisorio apparirebbe poco chiaro laddove correla alla novella legislativa del 2012 l’indeducibilità dei costi relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti.
2.2. Il motivo è fondato e va accolto.
In tema di Iva, questa Corte ha affermato che < < una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia>> (Cass. n.28628/2021).
Analogamente, in tema di deduzione di costi inerenti ex art. 109 TUIR (come di detrazione dell’Iva ex art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972), questa Corte ha puntualizzato che spetta al contribuente tenere regolarmente le scritture contabili e le fatture, che devono contenere oggetto e corrispettivo di ogni operazione commerciale, ed all’amministrazione dimostrare, attraverso la prova logica (o indiretta) o storica (o diretta) e anche con indizi integranti presunzione semplice, la fittizietà dell’operazione, essendo il contribuente nuovamente chiamato a fornire la prova contraria nel caso in cui l’ufficio abbia assolto al proprio onere probatorio (cfr. Cass. n.28246/2020).
Nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria aveva contestato un meccanismo fraudolento, posto in essere da quattro società, con operazioni parzialmente oggettivamente inesistenti, a causa dell’avvenuta sovrafatturazione delle operazioni di vendita.
In particolare, dalle indagini della G.d.F. era emerso che T. aveva venduto un impianto di triturazione plastica (che si rivelerà di triturazione frighi) alla Seval al prezzo di 1.578.298.000 di vecchie lire; la Seval, dopo aver ammortizzato il costo per cinque anni, rivendeva l’impianto al prezzo di 1.094.880,00 euro alla T., che, nello stesso anno, lo trasferiva in conto deposito presso gli spazi della Seval stessa, per poi venderlo alla M. (in realtà alla F. Company, perché l’unità di destinazione di M. era inesistente e coincideva con l’unità locale della F. Company) al prezzo di euro 4.560.000,00. Successivamente, il macchinario era nuovamente venduto pezzo per pezzo dalla M. alla F. Company per euro 4.490.000,00.
Secondo l’Agenzia delle entrate, i continui trasferimenti del bene fra le quattro società servivano a creare costi fittizi estremamente gonfiati al fine di neutralizzare l’imposta a debito e creare crediti inesistenti. Infatti, il prezzo di acquisto dei singoli beni costituenti l’impianto che la F. Company avrebbe “pagato” alla M., pari ad euro 4.605.600,00, appariva assolutamente irrealistico, essendo stato lo stesso impianto acquistato nuovo dalla Seval nel 2000 per euro 1.276.658,82. In pratica una serie di beni nuovi, che nell’anno 2000 avevano un costo storico complessivo di euro 1.276.658,82, nel 2006 venivano venduti, usati, ad un prezzo superiore al triplo di quello d’acquisto (euro 3.838.000).
L’ufficio, quindi, rilevava che il valore contabile dello stesso bene, dedotti gli ammortamenti effettuati nel corso di cinque anni dal primo acquirente, era pari ad euro 319.165,00 valore presumibilmente corrispondente a quello di mercato, Infatti, i pagamenti effettivi riscontrati dalla G.d.F., tramite bonifici e assegni bancari, erano pari ad euro 390.000,00.
La parte residua dell’importo delle fatture, pari ad euro 4.215.600 al lordo dell’Iva, risultava solo contabilmente “pagata” con cambiali in data 28/03/2008, ma tali cambiali non si ritrovavano fisicamente, non risultavano emesse da nessuna delle società coinvolte, e neppure risultava pagata la relativa imposta di bollo a carico del primo emittente.
Alla luce di quanto rilevato, l’amministrazione finanziaria riteneva che il pagamento del rimanente debito tra le società coinvolte, in particolare per quei che qui interessa, tra la M. e la F. Company s.r.l., non era mai avvenuto, anche se era stato artificiosamente annotato nella contabilità con l’annotazione dell’incasso e della girata di cambiali fittizia.
A fronte degli elementi evidenziati nel p.v.c. (cioè il complesso intreccio dei rapporti tra tutte le società coinvolte, il giro di fatture in esso evidenziato, dal quale emergeva come risultassero unicamente pagamenti reali per 390.000 euro, somma questa che, a giudizio della Guardia Finanza, rappresentava il valore reale delle transazioni economiche), richiamato negli atti di accertamento, la contribuente avrebbe dovuto dimostrare l’effettività delle operazioni di vendita e l’entità dei relativi costi.
Il giudice di appello, invece, ha del tutto omesso ogni esame di tali elementi indiziari, affermando apoditticamente la neutralità fiscale dell’operazione, facendo un generico riferimento alle risultanze del processo penale, per altro non vincolanti nel giudizio tributario.
3. Passando al ricorso incidentale, con l’unico motivo, la società contribuente denunzia la violazione degli artt. 15 d.lgs. 31 dicembre 1992, n.546 e 92 proc. civ., in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
Secondo la società contribuente, la C.t.r., che ha rigettato l’appello dell’ufficio ed accolto quello incidentale della contribuente, non avrebbe potuto compensare le spese in assenza di soccombenza reciproca.
Il ricorso, avendo ad oggetto la disciplina delle spese del giudizio di secondo grado, rimane assorbito dall’accoglimento del ricorso principale, dovendo il giudice di rinvio rivalutarla, all’esito del giudizio.
Il giudice del rinvio dovrà, inoltre esaminare anche le questioni richiamate in controricorso dalla contribuente e non esaminate dal giudice di appello, perché ritenute assorbite.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, assorbito quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.t.r. del Veneto, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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