Corte di Cassazione ordinanza n. 15445 depositata il 16 maggio 2022
studi di settore – motivazione
Fatti di causa
In esito ad una verifica dei redditi dichiarati per l’anno 2003 da G.M., l’Agenzia delle entrate di Monza rilevava uno scostamento tra i ricavi contabilizzati e quelli risultanti dall’applicazione dello studio di settore TG61B, previsto per la categoria “Intermediari del commercio di mobili, articoli per la casa e ferramenta”.
Il contribuente veniva invitato al contraddittorio con l’Ufficio, in funzione della verifica dei dati espressi.
Nessun accordo si perfezionava, pertanto l’Ufficio stesso notificava al G.M. un avviso di accertamento per l’anno 2003, ai fini Irpef, Irap e Iva, con il quale assumeva che i dati esposti nella dichiarazione dei redditi non risultavano congrui rispetto allo studio di settore anzidetto, per conseguenza recuperando a tassazione i maggiori ricavi risultanti dall’applicazione dello studio stesso.
Il G.M. adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Milano che ne accoglieva il ricorso. Nella prospettazione del contribuente, accolta dal giudice di primo grado, i maggiori ricavi in contestazione non sarebbero stati il prodotto dell’attività di agente di commercio, quanto il provento del ruolo strutturato di consigliere delegato della T. s.r.l., che quelle somme controverse gli aveva corrisposto.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva per converso l’appello erariale.
Il G.M. affida il proprio ricorso per Cassazione a tre motivi.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso il G.M. lamenta l’omessa pronuncia, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice d’appello omesso di pronunciarsi sulla questione pregiudiziale relativa al valore attribuibile alle risultanze dello studio di settore, che vanno valutate alla stregua di meri elementi indiziari, di per sé insufficienti a giustificare, in assenza di altri riscontri probatori, una ricostruzione induttiva dei ricavi dichiarati.
Il motivo è infondato.
Il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorché manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado, il che non è accaduto nel caso di specie.
La Commissione Tributaria Regionale ha valorizzato in rapporto al profilo dello scostamento dagli studi di settore plurimi elementi documentali e istruttori, invero così compendiati: verbale di assemblea ordinaria dei soci della T. s.r.l., con la quale si deliberava di attribuire al G.M. un compenso di importo differente rispetto a quello – superiore – poi effettivamente corrispostogli nell’anno cui è riferito l’accertamento fiscale; una lettera della predetta società all’indirizzo del contribuente, datata 18 dicembre 2002, con la quale viene testualmente evocato un “mandato di agenzia senza deposito” conferito al G.M. in data a gennaio 1991; la menzione nella medesima lettera di “buoni risultati ottenuti nella passata stagione”, in ragione dei quali al contribuente veniva riconosciuto “un premio extra 0.60% sul fatturato netto”; l’iscrizione del contribuente come imprenditore individuale dotato di partita IVA; l’emissione da parte sua di regolare fattura per le provvigioni riscosse; la dichiarazione da parte del contribuente di un reddito di impresa con un codice di attività riferibile proprio ai rappresentanti di commercio; la compilazione, ad opera del contribuente, del modello correlato allo studio di settore afferente l’attività dei rappresentanti di commercio; la mancata disdetta in costanza di rapporto con la società T. s.r.l. del mandato di agenzia originario; la circostanza che nella data dell’l gennaio 1991 venisse stipulato altro mandato di agenzia con tale B.P..
Dal complesso dei profili ora enucleati la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto per via presuntiva che il contribuente non ha conseguito gli importi sui quali è poggiato il recupero fiscale quale consigliere di amministrazione, costituendo essi i proventi dell’attività di agente di commercio. Invero, la motivazione del giudice d’appello non si è basata sul mero rilievo dello scostamento dai parametri, ma è stata corroborata ed integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio e ribadite in costanza di giudizio, così facendo emergere la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui suddetti parametri e la giustificabilità di un onere della prova contraria a carico del contribuente.
Con il secondo motivo di ricorso, formulato gradatamente rispetto al primo, viene lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600 del 1973 e 62-bis e sexies del D.L. n. 331 del 1993, conv. con modif. dalla L 29 ottobre 1993, n. 427, in relazione all’art. 360, comma a, 3, c.p.c., per avere il giudice d’appello trascurato di considerare la necessità, ai fini accertativi, di disporre di presunzioni gravi precise e concordanti, le quali non possono essere rappresentate esclusivamente dagli studi di settore sui quali la Commissione Tributaria Regionale ha di contro mostrato di fondare in via esclusiva la propria decisione.
Il motivo non coglie nel segno e va disatteso.
Nella specie, la commissione d’appello ha ritenuto legittimo l’accertamento tributario standardizzato, emesso, ex artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 62-sexies del d.l. n. 331 del 1993, sulla base degli studi di settore, all’esito di un contraddittorio preventivo, all’epilogo del quale non ha ritenuto assolto l’onere della prova contraria circa l’esistenza delle condizioni giustificanti l’esclusione del contribuente dall’area dei soggetti cui poteva essere applicato quello standard, svolgendo un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità.
In effetti, in costanza di giudizio, la CTR non si è accontentata di un rilievo assorbente dello scostamento dai parametri clusterizzati, ma si è peritata di mettere in apice plurimi elementi, riassunti nella trattazione del primo mezzo di ricorso, sui quali ha incentrato l’accertamento, ricavandone la piena fondatezza. Si è allineata, pertanto, all’indirizzo di questa Corte, secondo cui “In tema di “accertamento standardizzato” mediante parametri o studi di settore, il contraddittorio con il contribuente costituisce elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa, in ispecie quando si faccia riferimento ad una elaborazione statistica su specifici parametri, di per sé soggetta alle approssimazioni proprie dello strumento statistico, e sia necessario adeguarle alla realtà reddituale del singolo contribuente, potendo solo così emergere gli elementi idonei a commisurare la “presunzione” alla concreta realtà economica dell’impresa. Ne consegue che la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo dello scostamento dai parametri ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio, solo così emergendo la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui suddetti parametri e la giustificabilità di un onere della prova contraria (ma senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto) a carico del contribuente” (Cass. n. 30370 del 2017; Cass. n. 27822 del 2013).
Con il terzo motivo di ricorso viene contestata l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale mancato di spiegare perché abbia ritenuto rilevanti le ragioni esposte dall’ufficio disattendendo quelle del ricorrente e per aver trascurato di analizzare la documentazione e le circostanziate osservazioni che pure il contribuente si era premurato di illustrare in sede di gravame per illustrare la discordanza tra compensi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore.
Il motivo è inammissibile, in quanto tende ad una rivisitazione più appagante del merito della controversia.
In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 22598 del 2018).
La soglia del minimo costituzionale non è infranta, posto che la Commissione
Tributaria Regionale pone in evidenza un coacervo si profili istruttori e documentali a supporto della propria statuizione.
A fronte di ciò, la censura degrada verso la sostanziale richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici alla base dell’accertamento fiscale. In breve, la complessiva contestazione traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile alla norma rammentata in rubrica, in quanto pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti.
Diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, il giudice di merito ha apprezzato le circostanze della concreta vicenda, maturando il proprio libero convincimento circa la non effettiva inerenza degli esborsi sostenuti all’espletamento della attività professionale.
Va anche rilevato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto, nella motivazione, dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto (Cass. n. 29730 del 2020).
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato.
Le spese sono regolate dalla soccombenza nella misura espressa in dispositivo.
Per questi motivi
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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