Corte di Cassazione ordinanza n. 15698 depositata il 17 maggio 2022

operazioni inesistenti – motivi di appello – raddoppio” dei termini

FATTI DI CAUSA

La T. s.r.l. ricorre con otto motivi  contro  l’Agenzia  delle Entrate per la cassazione della sentenza  n.215/01/17  della Commissione tributaria regionale dell’Umbria, pronunciata in data 15 maggio  2017, depositata  in data 13 giugno  2017 e non notificata, che ha accolto l’appello dell’ufficio, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa  dell’avviso  di accertamento  per  maggiori  Ires, Irap  ed Iva relative all’anno di imposta 2006.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 10 gennaio 2022, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. in legge 25 ottobre 2016, n.197.

Rinviato per impedimento del  relatore,  il  ricorso  veniva nuovamente fissato per la camera di consiglio del 20 aprile 2022.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente  denunzia  la nullità della sentenza e del procedimento per mancanza di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in  violazione  degli 112 cod. proc. civ. e 53 d.lgs.  31  dicembre  1992  n.546,  in relazione all’art.360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.

Deduce la ricorrente che, nel costituirsi innanzi alla C.t.r., aveva eccepito l’inammissibilità di nuove domande ed allegazioni da parte dell’Agenzia delle entrate.

Secondo la ricorrente, l’ufficio, con l’avviso di accertamento, aveva contestato alla società contribuente operazioni oggettivamente inesistenti, mentre negli atti difensivi del giudizio (di primo e secondo grado) aveva inammissibilmente esteso la contestazione all’inesistenza soggettiva delle operazioni; tale eccezione, ritenuta assorbita dalla C.t.p. di Perugia dall’accoglimento del ricorso per altri motivi, non sarebbe stata esaminata dal giudice di appello.

1.2 Il motivo è infondato e va rigettato. 

In primo luogo, deve rilevarsi che la ricorrente non lamenta il vizio di ultrapetizione della decisione impugnata, ma l’omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità della contestazione relativa all’inesistenza soggettiva delle operazioni, che, a suo dire, non sarebbe contenuta nell’avviso di accertamento, ma sarebbe stata inammissibilmente introdotta in giudizio dalle difese dell’ufficio.

Sul punto non può farsi a meno di rilevare che, avendo il giudice di appello deciso in ordine alla fondatezza nel merito dell’avviso di accertamento, ha, sia pure implicitamente, rigettato questa eccezione. Deve, pertanto, darsi seguito al principio di diritto secondo cui «non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione  implicita  di rigetto  sul medesimo»  (v.  in tal  senso, tra le molte, Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01).

Inoltre, la stessa ricorrente, riporta le espressioni utilizzate nell’awiso di accertamento (“operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti”, emissione di fatture “per prestazioni di servizi mai concretamente effettuate”) e quelle contenute nelle controdeduzioni dell’ufficio al ricorso della contribuente (“il traffico telefonico è stato realmente posto in essere dal consumatore finale, che lo ha pagato a Telecom in bolletta).

Tali ultime affermazioni non sembrano avere un contenuto  di novità rispetto a quelle utilizzate nell’atto di accertamento, né la considerazione che il traffico telefonico sia stato realmente posto in essere dagli utenti finali implica la  necessaria  esistenza  delle prestazioni di servizi fatturate dalla N. s.r.l.

2.1 Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento per mancanza di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in violazione degli 112 cod. proc. civ. e 53 d.lgs. 31 dicembre 1992 n.546, in relazione all’art.360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.

La società contribuente aveva eccepito l’inammissibilità dell’appello, per mancata specificazione dei motivi;  secondo  la ricorrente, anche su tale eccezione, la C.t. r. avrebbe omesso di pronunciarsi.

2.2 Il motivo è inammissibile, in quanto non riporta, neanche sinteticamente, il contenuto dell’atto di appello e si limita ad una mera enunciazione dell’asserito vizio, risultando del tutto privo di autosufficienza. 

Ciò  è  tanto  più  evidente,  considerando  che  <<nel  processo tributario la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della dedotta legittimità dell’accertamento (per l’Amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci> > (Sez. 5 – , Sentenza n. 32954 del 20/12/2018).

Inoltre, anche qui non può farsi a meno di rilevare che, avendo il giudice di appello deciso  in ordine alla fondatezza  nel merito dell’awiso di accertamento, riportando ed analizzando le specifiche doglianze dell’Agenzia appellante,  abbia,  sia  pure  implicitamente,  rigettato questa eccezione. 

3.1 Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli 40, 41 bis e 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, 57 d.P.R.  26 ottobre 1972 n.633, 1362, 1366 e 1370 cod.,  civ.,  in  relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.

Secondo la ricorrente, l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione sarebbe illegittimo perché emesso per un periodo di imposta (2006) per il quale l’amministrazione finanziaria aveva già emesso un precedente avviso di accertamento, di carattere generale e non parziale; inoltre, il secondo avviso sarebbe stato emesso in assenza di elementi di novità.

3.2 Il motivo è infondato.

In primo luogo, questa Corte ha già evidenziato che l’accertamento parziale e l’accertamento integrativo sono istituti diversi, che rispondono a finalità differenti (cfr Cass. n. 27788/2020).

Per l’accertamento integrativo, di cui artt. 43, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, e 57, comma 4, d.P.R. n. 633 del 1972, il contenuto preclusivo della normativa citata deve intendersi relativo al solo divieto di fondare l’avviso integrativo sulla base di una mera rivalutazione o di un maggior apprendimento di dati già originariamente in possesso dell’ufficio procedente (vedi Sez.  5,  Sentenza  n.  576 del 15/01/2016). In punto di diritto è assolutamente pacifico che <<in tema di accertamento    delle   imposte   sui  redditi,  costituiscono dati, la cui sopravvenuta conoscenza consente l’integrazione o la modificazione dell’avviso di accertamento, ai sensi dell’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, anche quelli noti ad un ufficio fiscale, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’atto al momento dell’adozione dello stesso, senza che rilevi in senso contrario né l’art. 33  del medesimo decreto, che pone solo un dovere di reciproca collaborazione tra uffici finanziari e Guardia di finanza, né la circostanza che sia stato effettuato un primo accertamento parziale, in quanto si tratta di uno strumento volto a favorire la sollecita emersione  della  materia imponibile, che non preclude, pertanto, l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice, anche ove definito con adesione>> (Sez. 6 –  5, Ordinanza n. 1542 del 22/01/2018).

In particolare, come è stato ulteriormente precisato, l’art. 33 del d.P.R. n. 600/1973, il quale pone a carico degli uffici finanziari e della Guardia di finanza l’obbligo di darsi reciproca e tempestiva comunicazione delle attività intraprese, non attribuisce al contribuente il diritto a non essere ulteriormente compulsato, né consente, in mancanza di un’espressa comminatoria, di dedurre dalla eventuale violazione di tale obbligo una sanzione sul piano della validità dell’accertamento, trattandosi di una disposizione volta a regolare (per evidenti ragioni di economicità) i rapporti tra l’ufficio fiscale e la Guardia di finanza (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 23353 de1301101200, richiamata da Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1542 del 22/01/2018 cit.J.

Nel caso di specie, la difesa erariale fa rilevare – e la società non lo contesta- che nella motivazione dell’accertamento integrativo l’Ufficio aveva dato atto che per l’anno d’imposta 2006 era stato già notificato un primo accertamento, di cui il secondo era integrativo, emesso ai sensi dell’art. 57, d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 e 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, contenuti nella segnalazione pervenuta dall’Ufficio controlli della direzione provinciale III di Roma emessa a seguito dell’attività istruttoria nei confronti della società N. S.r.l.

4.1 Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli artt.40, 41 bis e 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, 57 d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, 331 cod. pen., in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.

Secondo la ricorrente, il termine finale per l’emissione dell’avviso di accertamento volto a rettificare il reddito dichiarato da T. era da individuarsi  nell’anno  2011 (quarto  anno successivo  al termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi per l’annualità 2006); diventava, dunque, rilevante stabilire se vi fosse l’applicabilità al caso concreto del c.d. “raddoppio” dei termini.

L’assunto dell’Ufficio, e poi della Commissione, è che si era verificata una fattispecie di omesso versamento a rilevanza penale, e dunque che doveva  essere avviata  la relativa azione, previa denuncia del fatto stesso (in concreto effettuata in data  13.6.2014)  alla competente Procura; all’avversarsi della fattispecie criminosa ed alla presentazione della denuncia  si collegava dunque il maggior termine per procedere all’accertamento.

Ritiene, invece, la   ricorrente che, perché sia operante il raddoppio dei termini, la denuncia del preteso reato deve essere effettuata prima che si sia consumato il termine ultimo per l’accertamento.

Con il quinto motivo, la ricorrente  denunzia  la violazione  degli artt. 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 e 25 d.lgs. 15 dicembre 1997 n.446, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.

In particolare T. ritiene che la norma sul raddoppio dei termini ordinari per l’accertamento non può operare ai fini IRAP in quanto eventuali evasioni di imposta relative a tale tributo non hanno rilevanza penale.

Deduce la ricorrente che il terzo comma dell’art. 43 del d.P.R. n. 600/1973 disciplina i casi di raddoppio dei termini dell’accertamento, che analoga disposizione è stata prevista in materia di IVA con l’introduzione del terzo comma all’art. 53 del d.P.R. n. 633/1972, mentre non è dato rinvenire alcuna disposizione specifica in materia di Irap.

4.2 I motivi devono essere esaminati insieme, perché connessi; il quarto va rigettato con riferimento ad Ires ed Iva, mentre il profilo relativo all’Irap rimane assorbito nell’accoglimento del quinto motivo.

In relazione all’Irap, per l’indirizzo costante di questa Corte, <<il raddoppio dei termini di accertamento non opera, in quanto per tale imposta non sono previste sanzioni penali, sicché è evidente che, in relazione alla stessa, non può operare la disciplina del “raddoppio” dei termini  quale  applicabile ratione temporis> >  (Cass.,  3 maggio  2018, n. 10483; Cass., n. 20435 del 2017; Cass., n. 4775 del 2016; Cass., n. 26311 del 2017; Cass., n. 23629del 2017).

Invece, con riguardo all’Ires ed all’Iva, il raddoppio dei  termini previsto dagli artt. 43, comma  3,  del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore  alle modifiche di cui al d.lgs.  5 agosto  2015, n. 128 e alla l. 31 dicembre 2015, n. 208, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale  ai  sensi dell’art. 331 cod. proc. pen.

La  dizione  legislativa  rende  chiaro  che  il  raddoppio  è  legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331 citato, e non dipende dal suo accertamento in concreto.

Come più volte chiarito da questa S.C., anche sulla scorta dei princìpi enunciati da Corte cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass., Sez. VI, 28/06/2019, n. 17586, Cass., Sez. V, 13/09/2018, n. 22337; Cass., Sez. VI, 30/05/2016, n. 11171).

Si è anche detto che <<in tema di accertamento tributario, il cd. raddoppio dei termini previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini prolungati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, non integrando quindi ipotesi di “riapertura” o proroga di termini scaduti né di reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, in quanto i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie “ab origine” diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi, unitari e distinti termini di accertamento>> (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23628 del 09/10/2017).

Ove sia contestato il raddoppio dei termini, rientra nei compiti del giudice tributario l’accertamento dell’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331 cod.proc.pen., quindi anche del raggiungimento della soglia di rilevanza penale di cui all’artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11171 del 30/05/2016; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13483 del 30/06/2016).

Pertanto, come questa Corte ha ulteriormente chiarito di recente (Cass. sent. n.36474/2021, alla cui ampia motivazione sul punto si rimanda),  <<in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dall’art. 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo applicabile “ratione temporis”, può operare anche   se   la   notizia   di   reato   è  emersa   dopo   la   scadenza del termine ordinario di decadenza>>.

Come rilevato in analoga fattispecie nella sentenza citata, in base al regime transitorio  introdotto dall’art. 2 c. 3 d.lgs . 3 agosto  2015 n. 128, non può trovare applicazione la nuova disciplina introdotta con il d.lgs. 208/2015  – ribadita  solo  per gli  avvisi di accertamento  “ancora da notificare” relativi ai periodi imposta precedenti a quelli in corso alla data  del 31.12.2016  – che consente il  raddoppio  dei termini  ordinari per gli accertamenti scaturenti da violazioni importanti obbligo di denuncia penale per reato tributario  solo nel caso in  cui tale denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza del termine ordinario di accertamento (Cass., sez. 5, 22 gennaio 2021, n. 1318).

5.1 Con il sesto motivo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento per mancanza di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in violazione degli 112 cod. proc. civ. e 53 d.lgs. 31 dicembre 1992 n.546, in relazione all’art.360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.

La ricorrente deduce che nel ricorso alla Commissione Provinciale aveva formulato, in subordine, anche la doglianza sulla carenza motivazionale  del provvedimento  di irrogazione  delle sanzioni  ex art. 16 del d.lgs n. 472/1997  in quanto  non evidenziava  le ragioni per le quali non sono state applicate le disposizioni sul concorso e sulla continuazione di cui all’art. 12 dello stesso d.lgs. n. 472/1997.

L’Agenzia delle entrate, nell’irrogare le sanzioni relative alle violazioni contestate con l’avviso di accertamento impugnato, non avrebbe tenuto conto delle sanzioni già irrogate con i distinti avvisi di accertamento già notificati(ed oggetto di  autonome  impugnazioni) relativi al medesimo periodo d’imposta e ai due precedenti, finendo per escludere l’applicazione della sanzione unica costituita dal cumulo giuridico,  in luogo del cumulo materiale  delle sanzioni, più favorevole per la ricorrente.

Secondo la ricorrente, appare evidente la sussistenza dei presupposti per invocare l’applicazione  del  richiamato  art.  12 ricorrendo nella fattispecie un’ipotesi  di  concorso  materiale  di violazioni: in tutti gli avvisi di accertamento notificati sarebbero state contestate le medesime violazioni relative alla presentazione di dichiarazione infedele ai fini Ires ed Irap.

Ritiene la ricorrente che la Commissione Regionale, pur accogliendo l’appello, abbia omesso del tutto di esaminare tale richiesta subordinata.

Ciò integrerebbe un motivo di nullità della sentenza, in parte qua, per violazione del disposto dell’art. 112 cod. proc. civ., avendo T. l’indiscutibile diritto di sentir giudicare anche in ordine a quel motivo di impugnazione dell’avviso di accertamento e di conseguire i vantaggi connessi all’applicazione delle disposizioni sul concorso e sulla continuazione di cui all’art. 12 dello stesso d.lgs. n.472/1997.

5.2 Il motivo è fondato e va accolto. 

Invero, non solo è necessario che il giudice si pronunci in ordine alla rideterminazione delle sanzioni, venuto meno l’accertamento relativo all’Irap, ma che risponda anche alla specifica doglianza della società contribuente, pure riportata nella parte introduttiva della sentenza, sull’errata determinazione delle sanzioni per l’esclusione del cumulo giuridico e della continuazione, sulla quale la C.t.r. ha omesso di pronunciarsi.

6.1 Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento per mancanza di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in violazione degli artt.112 cod. proc. civ. e 53 d.lgs. 31 dicembre 1992 n.546, in relazione all’art.360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.

Nella memoria del 21.9.2015, T. aveva  introdotto  un ulteriore motivo di  annullamento  dell’atto  impugnato,  rubricandolo come “Nuovo motivo di impugnazione. Nullità  dell’avviso  di accertamento per violazione dell’art. 42 del DPR n.  600 del 1972 stante la mancata sottoscrizione o sottoscrizione nulla”.

La ricorrente deduce che la Commissione Tributaria Provinciale non si era pronunziata in ordine ad esso, perché assorbito dall’accoglimento del ricorso nel merito, e l’eccezione era stata riproposta nella memoria di costituzione in appello.

In particolare, deduce la ricorrente che, dall’esame dell’atto impositivo, lo stesso risultava sottoscritto dal funzionario Daria Paoletti, la quale, tuttavia, alla luce della sentenza n. 37 del 17.03.2015 della Corte Costituzionale, risultava priva dei relativi poteri; la ricorrente, dunque, lamenta l’omessa pronuncia della C.t.r. su tale doglianza.

6.2. Il motivo è inammissibile, in quanto la doglianza è stata introdotta, per stessa ammissione della ricorrente, con la memoria illustrativa e non con il ricorso introduttivo originario.

Invero,  <<nel processo tributario, mediante le memorie illustrative di cui all’art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 non possono essere proposte domande nuove, ma solo specificate quelle già contenute nel ricorso introduttivo, in ragione della natura impugnatoria del giudizio>> (Cass. n. 1161/2019).

7.1 Con l’ottavo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 14, comma  4 bis, 24 dicembre 1993 n. 537 ed art. 6 d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, in relazione all’art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.

La ricorrente rileva che la Commissione  tributaria  regionale  così si era espressa  alla  a  pagina  8 (ultime  tre  righe)  e 9 (righe 1/11): <<Quanto ciò detto non significa però, a parere del Collegio giudicante, la esclusione della “effettività” del servizio da parte della T. per i valori telefonici a valore aggiunto (VAS), perché se diversamente fosse, la questione includerebbe anche la attendibilità dei costi addebitati contrattualmente alla T. da parte dello stesso operatore di rete Telecom, chiamandolo in causa, comportando questo, anche operazioni inesistenti non soltanto verso l’operatore nazionale, ma anche verso l’operatore di rete Telecom. Ma questa tesi non sembra essere scaturita dalle verifiche e dagli accertamenti effettuati dalla G.d.F e dall’Amministrazione fiscale sui soggetti interessati alle operazioni e attività dei servizi VAS, anche perché dai tabulati Telecom e T. sembrano apparire i servizi telefonici VAS richiesti dalla utenza. Il traffico telefonico è stato cioè realmente posto in essere fino al consumatore finale, che lo ha pagato a Telecom in bolletta e che Telecom ha pagato i compensi a T.>>.

Secondo la ricorrente, queste considerazioni porterebbero a ritenere l’inesistenza meramente soggettiva delle operazioni contestate con l’accertamento.

Pertanto, la falsità meramente soggettiva delle operazioni avrebbe comportato l’indeducibilità passiva dell’iva, ma non dei costi ai fini delle imposte dirette.

7.2 Il motivo è infondato. 

Invero, da un punto di vista teorico, come questa Corte ha chiarito in più occasioni, <<in tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1,  del d.l. n. 16 del 2012  (conv.  in l. n. 44 del 2012), poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità,  ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986>> (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018).

Pertanto, <<in tema di IRPEG ed IRAP, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, come modif. dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con modif., in l. n. 44 del 2012, con efficacia retroattiva in bonam partem, i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti – siano o meno inseriti in una cd. frode carosello – sono deducibili per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle relative operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ovvero di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo>> (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 32587 del 12/12/2019).

Tuttavia, nel caso in esame, la C.t.r. ha aderito alla ricostruzione fattuale dell’ufficio, ritenendo che vi  fosse  la  prova  del  traffico telefonico dell’utilizzatore finale Telecom e della prestazione dei servizi VAS da T. a Telecom; il giudice  di appello  ha invece escluso che vi fosse la prova delle operazioni fatturate dalla società  N.  s.r.l., che non aveva idonea struttura per renderle e risultava essere stata fittiziamente creata al solo fine di emettere fatture per operazioni inesistenti.

Dunque, la C.t.r., con un giudizio in fatto che  non  risulta impugnato in sede di legittimità, non ha  ritenuto  che  la  prova  del traffico telefonico dell’utilizzatore finale Telecom e della prestazione dei servizi VAS da T. a Telecom fosse un elemento sufficiente a dimostrare l’effettività delle operazioni di  acquisto  di  tali  servizi  da parte di T., che, essendo dotata di struttura e mezzi adeguati, avrebbe potuto svolgerli in proprio,  senza  rivolgersi  a  soggetti  terzi, che non risultano neanche indicati dalla società contribuente.

Dunque, la C.t. r. ha ritenuto che le operazioni fossero, non solo soggettivamente, ma anche oggettivamente inesistenti, confermando in ciò l’avviso di accertamento.

In conclusione, il quinto e sesto motivo di ricorso vanno accolti, nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla C.t. r. dell’Umbria in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto e sesto motivo ricorso, assorbito il quarto, limitatamente  alla  doglianza  relativa  all’Irap, e rigettati  gli altri;   cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.t.r. dell’Umbria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.