Corte di Cassazione ordinanza n. 16840 depositata il 7 agosto 2020
accertamento – studi di settore – natura
Rilevato che:
L’Agenzia delle Entrate notificò alla K. S.r.l. (di seguito la società) avviso di accertamento recuperando a tassazione le maggiori imposte IRES, IVA ed IRAP ritenute dovute con riferimento all’anno d’imposta 2005, oltre sanzioni ed interessi, sulla base del rilievo di redditività estremamente esigua, pari al 3,37%, non in linea con lo studio di settore di riferimento.
La società impugnò l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Arezzo, che rigettò il ricorso.
La Commissione tributaria regionale (CTR) della Toscana, sull’appello proposto dalla società avverso la sentenza di primo, con sentenza n. 79/21/12, depositata l’11 dicembre 2012, non notificata, respinse l’appello, confermando l’impugnata decisione, osservando come la redditività dell’impresa dovesse essere desunta dal bilancio della società, senza che per determinarne l’entità potesse rilevare l’erogazione dei compensi corrisposti ai soci, sia pure per asserite prestazioni d’opera.
Avverso la succitata sentenza della CTR la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, ulteriormente illustrato da memoria.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Considerato che:
1. Con l’unico motivo di ricorso la società denuncia violazione dell’art. 62 sexies del d.lgs. (recte d.l.), n. 331/1993, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 427/1993, dell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nonché, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
La ricorrente lamenta l’erroneità della sentenza impugnata, che avrebbe, secondo la contribuente, confermato la legittimità dell’accertamento esclusivamente in base alle risultanze dello studio di settore, aventi mero rilievo statistico e non precedute dal necessario contraddittorio, denunciando anche la carente motivazione della sentenza impugnata, che avrebbe confermato la legittimità dell’atto impositivo sulla base di un argomento marginale, quello dell’erogazione dei compensi ai soci, ignorando le altre ragioni addotte dalla contribuente al fine di spiegare la dedotta scarsa redditività dell’attività d’impresa.
1.1. Preliminarmente va osservato come nel motivo di ricorso formalmente unico la società abbia cumulato due diversi ordini di censure.
Il ricorso può ritenersi ugualmente ammissibile, stante la possibilità di un esame autonomo dei diversi profili delle censure addotte (cfr. Cass. S.U. 6 maggio 2015, n. 9100; Cass. sez. 5, ord. 11 aprile 2018, n. 8915).
1.2. Nondimeno esso risulta infondato.
1.2.1. Anche a prescindere dalla carenza del ricorso riguardo al requisito della sommaria esposizione dei fatti di causa – parte ricorrente, che si duole dell’omesso contraddittorio senza che la sentenza impugnata faccia alcun cenno riguardo a detta questione, avrebbe dovuto chiarire tempo e luogo della relativa deduzione nel giudizio di merito- il ricorso si basa su un erroneo presupposto, quello secondo cui l’accertamento impugnato sarebbe stato basato unicamente sulle risultanze dello studio di settore, la qualcosa è, invece, destituita di fondamento, alla stregua del disposto dell’art. 62 sexies del d.l. n. 331/1993, trattandosi pur sempre di accertamento analitico – induttivo ex art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, in cui le gravi incongruenze tra ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta, non prescindevano dall’esame delle scritture contabili, pur formalmente regolari.
1.2.2. In proposito questa Corte ha affermato che «Gli studi di settore costituiscono, come si evince dall’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e della conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati» (cfr. Cass. sez. 5, 24 settembre 2014, n. 20060; Cass. sez. 5, 14 dicembre 2012, n. 23096).
1.2.3. In tale contesto la decisione impugnata, nella parte in cui ha spiegato l’infondatezza della tesi della contribuente laddove assumeva che i compensi corrisposti ai soci per asserite prestazioni lavorative, contabilizzati dunque nel conto economico come componenti negativi di reddito dell’impresa, dovessero invece essere considerati nel senso di essere computati nel calcolo della redditività dell’impresa medesima, appare logicamente motivata ed insuscettibile dunque di censura secondo il disposto dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella sua formulazione, applicabile ratione temporis al presente giudizio, anteriore alla riforma di cui all’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134. dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134,
1.2.4. Al riguardo va altresì osservato che, nella parte in cui la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe preso in considerazione gli ulteriori elementi addotti come idonei a giustificare il dato ritenuto non plausibile dall’Amministrazione finanziaria circa l’effettiva redditività dell’impresa, quali la natura dell’attività d’impresa, che era propriamente quella della vendita di prodotti orafi semilavorati anziché di prodotti finiti, nonché l’intervenuta fusione con altra società nell’anno di riferimento, parte ricorrente in primo luogo nulla osserva neppure nella memoria depositata in atti riguardo all’eccezione di controparte circa la mancata riproposizione delle medesime circostanze fattuali nell’appello proposto avverso la sentenza di primo grado, di cui non è trascritto il contenuto nel ricorso per cassazione; dovendosi altresì rilevare che – fermo il principio secondo il quale il giudice di merito non ha l’obbligo di esaminare tutti gli elementi istruttori emersi, purché dia conto della decisività, ai fini della decisione assunta, di quelli effettivamente esaminati (cfr., tra le molte, più di recente, Cass. sez. 5, ord. 30 gennaio 2020, n. 2153) – parte ricorrente ugualmente non chiarisce in alcun modo perché dette circostanze fattuali, ove esaminate, avrebbero dovuto determinare con certezza, e non come mera probabilità, un esito diverso del giudizio.
2. A ciò consegue che il ricorso deve essere rigettato.
3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto
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