Corte di Cassazione ordinanza n. 18187 depositata il 7 giugno 2022
obbligo di motivazione – giudicato, non estende i suoi effetti ad altre controversie, nei casi di annullamento dell’avviso di accertamento per un vizio di motivazione
Rilevato che:
1. All’esito di una verifica ispettiva eseguita dalla Guardia di Finanza, l’Agenzia delle entrate rettificò – ai sensi dell’art. 39, primo comma, d), del d.P.R. 29/09/1973, n. 600 – il reddito d’impresa per l’anno di imposta 1995 nei confronti di Salvatore Porcino, imprenditore esercente l’attività di distribuzione al dettaglio di pneumatici, sul presupposto dell’accertata esistenza di ricavi maggiori di quelli dichiarati e dell’esposizione di costi in realtà non deducibili.
L’avviso di accertamento fu notificato al curatore del fallimento del Porcino, intervenuto nelle more.
2. La C.T.P. di Messina, davanti alla quale l’avviso di accertamento era stato impugnato, lo annullò, rilevando che esso faceva rinvio al processo verbale di constatazione notificato al solo imprenditore quando era ancora in bonis.
3. L’amministrazione propose appello innanzi alla C.T.R. di Palermo- sezione distaccata di Messina.
I giudici d’appello accolsero il gravame, rilevando anzitutto che la mancata notifica del verbale di constatazione alla curatela non ne aveva leso il diritto di difesa, poiché questa era venuta comunque a conoscenza degli atti già notificati al fallito, come dimostravano le argomentazioni che essa aveva svolto nell’atto di impugnazione dell’avviso.
In ogni caso, rilevarono che ai sensi dell’art. 88 l.fall. il curatore prende in consegna dal fallito non solo i beni, ma anche tutti i documenti e le scritture contabili, ed è titolare di un potere di sovraordinazione, autorità e vigilanza nei suoi confronti che lo obbliga anche ad acquisire tutta la documentazione mancante con riferimento agli interessi patrimoniali amministrati.
Nel merito, la C.T.R. ritenne poi che il metodo di accertamento impiegato dall’amministrazione, e consistito nel raffronto fra il costo dei prodotti commercializzati dal Porcino ed il prezzo medio di acquisto di beni della stessa categoria, aveva condotto al rilievo di una percentuale di ricarico ponderata in conformità al criterio indicato dall’art. 39, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600/1973; tale percentuale, infatti, si fondava su dati certi, costituiti dalle rimanenze iniziali e finali di merce risultanti dalla dichiarazione dei redditi, dagli acquisti indicati dalle fatture e dai ridetti costi medi di acquisto di beni omogenei.
Infine, e quanto ai costi non deducibili, la C.T.R. rilevò che si trattava, in effetti, di esborsi non inerenti all’attività d’impresa, o non di competenza di quest’ultima, ovvero ancora non adeguatamente documentati.
4. La sentenza della C.T.R. è stata impugnata dal fallimento con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e illustrato da successiva memoria; l’Agenzia delle entrate è rimasta
Considerato che:
1. Il primo mezzo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600/1973, 7 27/07/2000, n. 212 (statuto del contribuente), 3 I. 07/08/1990, n. 241 e 24 Cost.
Secondo il fallimento, la sentenza d’appello sarebbe errata nella parte in cui afferma che la notifica del verbale di constatazione richiamato dall’atto impositivo al solo fallito, e non anche al curatore, costituisce utile surrogato della necessaria conoscenza che quest’ultimo dovrebbe invece averne; richiama, in tal senso, l’obbligo di allegazione previsto dall’art. 7 statuto del contribuente, e il generale precetto contenuto nell’art. 3 della I. n. 241/1990, relativo alla motivazione degli atti amministrativi.
Specifica, in proposito, che l’avviso di accertamento emesso nei confronti di un soggetto fallito coinvolge interessi autonomi e spesso divergenti, quali sono, fra loro, quelli della curatela (interprete della massa dei creditori) e quelli personali del fallito; aggiunge, infine, che a tale scopo non può aversi riferimento alla semplice conoscibilità dell’atto da parte del curatore, in ragione del suo munus, in quanto ciò equivarrebbe ad un’inammissibile giudizio ex post sulla sufficienza della motivazione, che deve invece possedere, fin dal sorgere dell’atto, i requisiti previsti dalla legge a tutela dell’effettivo esercizio del diritto di difesa del suo destinatario.
Sotto altro profilo, il fallimento illustra la censura osservando che il proprio ricorso avverso altri avvisi di rettifica, inerenti agli anni di imposta 1994 e 1995, era stato accolto dalla C.T.P. di Messina con sentenza che, successivamente, la C.T.R. aveva confermato, con pronunzia divenuta definitiva proprio sul rilievo dell’omessa notifica del p.v.c. alla curatela. Invoca, pertanto, la formazione di un giudicato esterno in punto alla questione di nullità dell’avviso.
2. Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, d), d.P.R. n. 600/1973, 2697 e 2729 cod. civ., in relazione alle presunzioni utilizzate dall’amministrazione nell’ambito del proprio accertamento.
Il ricorrente deduce, in particolare, l’erroneità del ricorso al raffronto fra prezzi di acquisto e di rivendita operato solo su alcuni articoli, quando sarebbe stato invece necessario un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento, in mancanza del quale gli elementi utilizzati risultavano privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
3. Il terzo motivo denunzia omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Il fallimento deduce al riguardo che la C.T.R. avrebbe mancato di valutare con il dovuto rigore gli elementi da lui dedotti con riguardo alla diversità dei prodotti presi in esame dagli accertatori nell’ambito delle operazioni di raffronto, nonché le deduzioni svolte in ordine alla presunta “non inerenza”, “non competenza” o “mancata documentazione” dei costi.
4. Infine, con il quarto mezzo il fallimento ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 proc. civ.
Al riguardo, evidenzia che la sentenza d’appello afferma in premessa che la pronunzia di primo grado «è viziata sia da ultrapetizione rispetto alle richieste sollevate da parte ricorrente, che per la mancata pronunzia su una esplicita richiesta sollevata dall’Ufficio», ma che, nel prosieguo, non dà alcun seguito a tali asserzioni, affrontando il merito della vicenda; in ogni caso, per affermato «scrupolo difensivo», contesta la sussistenza del vizio lamentato.
5. Il primo motivo non è fondato.
Esso si compone di due profili di censura, che vanno esaminati partitamente.
5.1 Quanto al primo profilo, il fallimento osserva che l’avviso di accertamento notificatogli è motivato con rinvio al verbale di constatazione notificato al solo imprenditore fallito quando era ancora in bonis, e assume che ciò non consentirebbe di ritenere rispettato il precetto di cui all’art. 7, comma 6, n. 212/2000.
In proposito, il ricorso richiama l’ordinanza n. 7493/2014 di questa Corte che in senso difforme dai precedenti, tutti anteriori all’introduzione della I. 212/2000 – ha ritenuto che la conoscenza dell’atto da parte del curatore non sia surrogabile con la mera conoscibilità che deriva dalla notifica dello stesso al fallito, e ciò avuto riguardo sia al differente atteggiarsi dei rispettivi interessi a fronte della pretesa erariale, sia alla funzione tipica della motivazione dell’atto, che è quella di garantire al destinatario il più ampio esercizio del diritto di difesa mediante una completa ed effettiva messa a disposizione dei presupposti di fatto e di diritto dell’atto impositivo.
5.2 Ritiene tuttavia il Collegio che a tale, isolato, precedente, debba essere preferita la posizione – munita di più ampio grado di conforto nella giurisprudenza di questa Corte, e ciò anche in seguito all’entrata in vigore della 212/2000 – che ha ritenuto sufficiente, nell’ottica dell’adempimento dell’obbligo di motivazione, che documenti su cui si fonda la pretesa impositiva siano notificati al fallito.
Ciò in quanto, anzitutto, la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno dell’impresa, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del titolare, al quale subentra il curatore fallimentare nella sua posizione; dal che consegue l’apponibilità alla curatela di tutti gli atti del procedimento tributario formati in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento del contribuente (cfr. Cass. n. 20166/2016; Cass. n. 2806/2010).
Inoltre, e come correttamente ha osservato la sentenza d’appello, la previsione di cui all’art. 88 l.fall. rileva anche nell’ottica dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione; poiché, infatti, il curatore ha il diritto ad ottenere in consegna tutta la documentazione amministrativa dell’impresa fallita – ma è anche tenuto a riceverla e custodirla – deve ritenersi, con presunzione iuris tantum, che la stessa sia pervenuta nella sua disponibilità e sia stata, perciò, dal medesimo conosciuta (cfr., per fattispecie espressamente riferita al verbale di constatazione notificato al fallito quando ancora in bonis, Cass. n. 24254/2015).
5.3 Il secondo profilo di censura invoca l’efficacia di giudicato che, sul presente rapporto processuale, dovrebbe spiegare la sentenza della T.R. di Palermo- sezione distaccata di Messina, che ha annullato un altro avviso di accertamento notificato al fallimento per fatti analoghi sulla base del fatto che il verbale in esso richiamato non era stato notificato alla curatela.
L’assunto del fallimento non può essere condiviso.
Il tema in discussione attiene, infatti, alla motivazione dell’atto impositivo; sul punto, la Corte ha già affermato che l’annullamento dell’avviso di accertamento per un vizio di motivazione è decisione che, quantunque passata in giudicato, non estende i suoi effetti ad altre controversie, anche se tra le stesse parti, che riguardino il medesimo rapporto tributario, non involgendo il merito della pretesa tributaria; in tal caso, pertanto, non si crea contrasto con il giudicato – di merito – già intervenuto tra l’ente impositore e le altre parti (Cass. n. 34656/2019; Cass. n. 23051/2019).
6. Il secondo motivo è inammissibile per come formulato.
Il fallimento evoca, al riguardo, l’orientamento di questa Corte che impone, per la prova presuntiva di ricavi superiori a quelli contabilizzati, l’individuazione di circostanze gravi, precise e concordanti, così affermando che, laddove tale prova si fondi sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita, esso ultimo sia condotto non su alcuni articoli, ma su un inventario generale delle merci (v. ad es. Cass. n. 4312/2015; Cass. n. 13319/2011).
In realtà, l’indicazione che perviene dalla giurisprudenza di legittimità è nel senso di ritenere necessaria l’adozione di un criterio «coerente con la natura e le caratteristiche dei beni presi in esame», nonché «applicato ad un campione di beni scelto in modo appropriato» (v. ad es. Cass. n. 736/2021; Cass. n. 30276/2017); e la sentenza d’appello, seppur sinteticamente, dà atto del rispetto di tali indicazioni da parte dell’amministrazione, sicchè le considerazioni svolte dal ricorrente al riguardo si configurano, in realtà, come confutazioni di tale rilievo sul piano fattuale, come tali non consentite in questa sede.
7. Anche il terzo motivo è inammissibile per come formulato; con la doglianza, infatti, il fallimento lamenta non già l’omesso esame di un fatto specifico, bensì delle proprie allegazioni ed argomentazioni svolte in diritto sulla questione della deducibilità dei costi, in termini che si discostano, pertanto, dal paradigma tracciato dall’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (v. fra le altre Cass. n. 22397/2019; n. 26305/2018).
8. Circa il quarto motivo, infine, esso deve ritenersi infondato in quanto riferito ad un passaggio della sentenza d’appello chiaramente inserito per errore materiale nel corpo della motivazione, in quanto totalmente sprovvisto di nessi logici con il complessivo contenuto della statuizione.
9. In conclusione, il ricorso è meritevole di rigetto. Nulla sulle spese, in assenza di attività difensiva da parte dell’amministrazione finanziaria.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato.
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