Corte di Cassazione ordinanza n. 18875 depositata il 10 giugno 2022
anomalia motivazionale
Rilevato che:
1. sulla scia di una complessa indagine penale della Procura di Roma a carico di un’organizzazione, operante su scala nazionale, dedita alla commissione dei reati di truffa, bancarotta fraudolenta, riciclaggio, evasione fiscale e appropriazione indebita, nel 2008, la Guardia di finanza di Torino sottopose a verifica fiscale il consorzio A. (in seguito anche “consorzio”), che figurava tra i soggetti coinvolti nel procedimento penale. In particolare, l’attività illecita sarebbe consistita nell’aggiudicazione al consorzio di rilevanti appalti pubblici e privati nel settore delle pulizie, che venivano poi affidati a numerose imprese consorziate. Queste ultime, dopo essersi rese responsabili di numerosi illeciti anche di natura fiscale (per esempio: mancato versamento dell’Iva, omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali, contabilizzazione a credito di fatture false per operazioni inesistenti), riversavano al consorzio A. gli illeciti profitti conseguiti sotto forma di finanziamenti fittizi, (come detto) frutto di evasione fiscale e contributiva;
2. la verifica si concluse con l’emissione, da parte dell’Agenzia delle entrate, di cinque avvisi di accertamento, ai fini Irpeg, Ires, Irap e Iva, per i periodi di imposta dal 2003 al 2007, che rettificavano i redditi dichiarati dal consorzio A.;
3. l’ente collettivo impugnò ciascun atto impositivo presso la Commissione tributaria provinciale di Torino, la quale, con distinte pronunce (sentenze nn. 113, 114, 115, 116, 117/05/11), respinse i ricorsi;
4. la Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) del Piemonte, previa riunione dei giudizi e nel contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria (“A.F.”), ha accolto gli appelli della contribuente sulla base delle seguenti considerazioni: (a) l’ufficio aveva svolto un accertamento induttivo in assenza dei relativi presupposti visto che la lunga ispezione compiuta dalla Guardia di finanza non aveva evidenziato irregolarità nella tenuta della contabilità del consorzio; (b) quanto al merito dell’attività accertatrice, l’A.F. aveva semplicemente richiamato le risultanze del procedimento penale, benché in sede penale non fosse stato contestato al consorzio alcun reato (come il riciclaggio o reati tributari); (c) l’azione penale era stata avviata nei confronti di soggetti terzi, e, peraltro, non si era concretizzata nell’emissione di una sentenza penale passata in giudicato, ferma la constatazione che, per un verso, gli esiti del giudizio penale non sono vincolanti nel giudizio tributario e che, per altro verso, nella specie, gli indizi offerti dall’ufficio non erano idonei a provare gli illeciti tributari attribuiti al consorzio;
5. l’Agenzia delle entrate ricorre, con quattro motivi, per la cassazione della sentenza di appello; il contribuente resiste con controricorso;
Considerato che:
a) preliminarmente, non ha fondamento l’eccezione di difetto d’autosufficienza del ricorso per cassazione, sollevata in controricorso dal contribuente. Al contrario di quanto sostiene quest’ultimo, il ricorso dell’Agenzia delle entrate reca un’enunciazione sufficientemente precisa e dettagliata della controversia, e ciò soddisfa il requisito dell’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., che stabilisce che il ricorso per cassazione debba contenere, a pena d’inammissibilità, appunto, «l’esposizione sommaria dei fatti di causa». Inoltre, sempre a soddisfare il requisito dell’autosufficienza, nei motivi di ricorso sono riprodotti alcuni passi essenziali degli atti e dei documenti addotti a sostegno delle diverse censure;
b) sempre in via preliminare, inoltre, non è fondata l’eccezione del controricorrente di violazione dell’artt. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., per omesso deposito, da parte dell’Agenzia, unitamente al ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda; in relazione a tale doglianza vanno richiamati integralmente i princìpi in materia enunciati da Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22276, con la precisazione che, nella specie, la presentazione dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio è sufficiente a garantire la procedibilità del ricorso, anche in considerazione del fatto che il fascicolo di parte resta acquisito a quello d’ufficio, a meno che la parte non ne abbia irritualmente ottenuto la restituzione dalla segreteria della Commissione tributaria (Cass. 23/03/2016, n. 5740; 22/01/2016, n. 1175; 14/01/2015, n. 434);
1. con il primo motivo di ricorso [«1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c. 1 c.p.c., e 39 comma 1 e 2 dpr 29.9.73 n. 600, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.»], l’Agenzia censura la sentenza impugnata che ha negato la sussistenza dei presupposti dell’accertamento induttivo senza considerare che l’ufficio aveva compiuto un diverso tipo di accertamento, quello analitico induttivo, con il quale rettificava una sola posta, ovverosia i finanziamenti erogati dalle consorziate al consorzio, che veniva espunta dal passivo del patrimonio sotto la voce “debiti verso consorziate”, e, previa riqualificazione come reddito imponibile da provento illecito, veniva iscritta nel conto economico e sottoposta a tassazione. Sotto altro profilo, l’Agenzia rileva che una simile rettifica metteva in luce un’evasione così macroscopica che sarebbe stato giustificato anche ritenere inattendibile l’intera contabilità, al fine di procedere ad un accertamento induttivo puro. In ultima analisi, si addebita alla C.T.R. di essersi soffermata sull’aspetto della legittimità o meno della procedura adottata quando invece si sarebbe dovuto esaminare, alla stregua dei motivi di appello del consorzio, la fondatezza nel merito delle rettifiche;
2. con il secondo motivo [«2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c. 1 c.p.c., e 39 c. 1 lett. d) dpr 29.9.73 n. 600; 2697, 2727, 2729 c.c.; 14 c. 4 l. 24.12.1993 n. 537, in relazione all’art. 360 n. 3 e 4 c.p.c.»], l’Agenzia assume che per la sentenza impugnata la tesi erariale secondo la quale le consorziate avevano commesso delle violazioni fiscali era priva di riscontro sicché non vi era ragione per considerare i finanziamenti effettuati dalle consorziate al consorzio come proventi di reati retrocessi al consorzio e tassabili in capo a quest’ultimo, ai sensi dell’art. 14, comma 4, legge 24 dicembre 1993, n. 537. Tanto precisato, l’ufficio ascrive alla C.T.R. la violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., per non avere tenuto conto di una pluralità di elementi presuntivi, non contestati dal contribuente, che dimostravano che i finanziamenti per decine di milioni effettuati dalle consorziate al consorzio erano del tutto fittizi e che in realtà si trattava del trasferimento di proventi degli illeciti delle consorziate, tassabili in capo al consorzio ai sensi dell’articolo 14. Inoltre, l’Agenzia critica la sentenza impugnata per avere trascurato che in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti circa l’evasione commesse dalle consorziate, spettava al contribuente (che invece era rimasto inerte) addurre a controprova elementi idonei a smentire la ricostruzione di fatto dell’ufficio, poggiante su una solida base indiziaria;
3. con il terzo motivo [«3. Omesso esame di punti di fatto decisivi discussi tra le parti, e comunque omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, in relazione all’art. 360 5 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c. 2 n. 4 d.lgs. 31.12.1992 n. 546, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. (motivazione apparente)»], in subordine rispetto al secondo motivo, l’Agenzia censura la sentenza impugnata che ha affermato che i reati fiscali delle consorziate erano solo ipotizzati e non supportati da alcun elemento nemmeno presuntivo, omettendo di rilevare i fatti decisivi addotti dall’ufficio, idonei a dimostrare, alla stregua di massime di esperienza, che le consorziate avevano commesso gravi reati di evasione fiscale e che ciò soltanto spiegava le loro disponibilità finanziarie altrimenti incomprensibili. Questi, in dettaglio, i fatti allegati dall’A.F. che la sentenza impugnata non ha considerato: (i) le consorziate evidenziavano, nelle loro dichiarazioni, quando presentate, volumi di affari e strutture aziendali (si trattava di imprese di pulizie) del tutto incompatibili con i “finanziamenti” per decine di milioni di euro che erogavano al consorzio; (ii) dall’anagrafe tributaria risultava peraltro che spesso le consorziate non presentavano le dichiarazioni Iva e dei redditi né pagavano imposte, ovvero che, quando presentavano le dichiarazioni, esponevano volumi di acquisti del tutto ingiustificati, al solo scopo di maturare Iva a credito con cui compensare i debiti contributivi e di evitare che emergessero Iva o Ires a debito; (iii) dopo l’erogazione dei finanziamenti, le consorziate venivano poste in liquidazione e affidate a prestanome, spesso stranieri (rumeni o peruviani), che figuravano come legali rappresentanti; i “finanziamenti” erogati in denaro non venivano concretamente restituiti dal consorzio o perché le consorziate si ponevano in liquidazione, o perché, meno spesso, si ricorreva ad anomali mezzi di estinzione delle obbligazioni, come la girata di effetti cambiari attivi dal consorzio alle consorziate; (iv) per il legale rappresentante del consorzio era stato chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, per concorso, con i legali rappresentanti delle consorziate, nel delitto di cui all’art. 3 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (“dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”); (v) non vi era alcuna evidenza contrattuale né alcuna plausibile ragione economica, in relazione a necessità operative del consorzio, a sostegno di questo cospicuo flusso di finanziamenti, al quale faceva seguito regolarmente la scomparsa della società finanziatrice. Nel complesso motivo, inoltre, l’Agenzia smentisce la sentenza impugnata secondo cui l’azione penale correlata all’accertamento tributario non avrebbe riguardato reati fiscali e stigmatizza il vizio d’insufficiente motivazione della stessa decisione, alternativamente prospettato come motivazione apparente, che, là dove afferma che l’indagine penale non aveva portato ad una sentenza definitiva e che quindi l’azione penale non poteva vincolare il giudice tributario, omette di considerare che il complesso di fatti aventi valore presuntivo a carico delle consorziate era stato tratto dalla verifica fiscale e che, pertanto, l’ufficio non si era limitato a trasferire in sede tributaria le ipotesi accusatorie formulate in sede penale. Con la precisazione che, ai fini della tassabilità del reddito illecito ex art. 14, comma 4, l. n. 537 del 1993, rilevano tutti i tipi di illecito, ossia anche l’illecito civile o amministrativo, e non soltanto quello penale e che, nella specie, l’ufficio, pur muovendo dall’indagine penale, era giunto alla conclusione che le consorziate avevano commesso illeciti tributari;
4. con il quarto motivo [«4. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2602 e 2615 c.c., e dell’art. 14 c. 4 l. 24.12.1993, n. 537, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.»], l’Agenzia censura la sentenza impugnata che, violando le disposizioni civilistiche in tema di consorzio, ha affermato in termini generali che il consorzio con attività esterna (e tale qualificazione del consorzio A. non è contestata) non risponde dei comportamenti illeciti degli enti consorziati. Da una diversa angolazione giuridica, infine, l’Agenzia addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, quale norma che sottopone a tassazione i proventi da fatto illecito sulla base del mero elemento oggettivo dell’omissione della dichiarazione (appunto) di proventi derivanti da illeciti (civili, penali o amministrativi), e non richiede che il soggetto nei confronti del quale i redditi illeciti vengono tassati (i.e. il consorzio) sia consapevole o partecipe degli illeciti commessi “a monte” da altri soggetti (i.e. i consorziati);
5. i primi tre motivi, suscettibili di esame congiunto per connessione, sono fondati nei seguenti termini;
5.1 per giurisprudenza pacifica (Cass. Sez. U. 27/12/2019, n. 34476, la quale cita, in motivazione, Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; U. 18/04/2018, n. 9558; Sez. U. 31/12/2018, n. 33679) «nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione»;
5.2 ricorre, nel caso concreto, il vizio di motivazione apparente — che, in sostanza, è dedotto con i primi tre complessi motivi di ricorso, nella parte in cui, in ciascuno di essi, è richiamato il parametro normativo dell’error in procedendo, di cui all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. — a causa della radicale carenza dell’apparato argomentativo della decisione. La C.T.R., invero, si sofferma su temi marginali della controversia (cfr. il punto n. 4 del “rilevato che”), senza prendere in esame la fitta trama di fatti indicata dall’ufficio a carico del consorzio che, a prescindere dall’esito della parallela indagine penale, di per sé non decisivo né vincolante nel giudizio tributario, sempre secondo la prospettiva erariale, deponeva nel senso del carattere fittizio e della connessa rilevanza fiscale dei finanziamenti, per decine di milioni, apparentemente erogati dalle imprese associate all’ente consortile. Questi elementi (sinteticamente riportati nell’illustrazione dei motivi di ricorso), costituivano il sostrato fattuale dell’accertamento analitico induttivo (e non “induttivo puro” come erroneamente afferma la Commissione regionale), prodromico alla rettifica dei redditi del consorzio, fondata sul disposto del quarto comma dell’articolo 14, per il quale «Nelle categorie dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi […] devono intendersi ricompresi, se in essi classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo […]». Ebbene, lo scrutinio di tali elementi è stato semplicisticamente pretermesso dal giudice tributario di appello, il quale ha operato una ricognizione superficiale, non esaustiva e insufficiente degli aspetti meritali della controversia e, al contempo, ha illustrato in maniera altrettanto lacunosa le ragioni della decisione;
6. in conclusione, accolti i primi tre motivi nei termini sopra indicati, assorbiti il quarto motivo e le censure enucleate nei primi tre motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la sentenza è cassata, con rinvio al giudice a quo anche per le spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.