Corte di Cassazione ordinanza n. 19213 del 15 giugno 2022
IVA – operazioni inesistenti – ripartizione dell’onere della prova – tipo di prova incombente sull’Amministrazione
RILEVATO CHE
– l’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, propone ricorso, affidato a un motivo, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva parzialmente accolto l’appello proposto da M. s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 6242/38/2018 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli di rigetto del ricorso proposto dalla suddetta società avverso avviso di accertamento n. TF3030201097 /17 con il quale l’Amministrazione, previo p.v.c. della G.d.F., aveva contestato, tra l’altro, l’indebita detrazione Iva in relazione a fatture emesse da società fittizie (V.I. s.r.I. e V.I. Trading s.r.l.) afferenti ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti;
– la società contribuente è rimasta intimata;
-sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio;
CONSIDERATO CHE
1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 21, 26 e 54 del d.P.R. n. 633/72, in combinato disposto con gli artt. 2727 e 2697 c.c., per avere il giudice di appello non correttamente interpretato il concetto di buona fede del cessionario nel meccanismo delle operazioni soggettivamente inesistenti nonché nella ripartizione dell’onere probatorio fra Fisco e contribuente incorrendo nella violazione delle norme indicate in rubrica. Si afferma infatti che ai fini della legittima detrazione dell’imposta sugli acquisti spetta al contribuente in base all’art. 21 del DPR nr 633/1972 a dover provare la buona fede.
Il motivo è infondato.
In tema di operazioni soggettivamente inesistenti, sulla scia della giurisprudenza unionale (Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C- 277/14 ), questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizia del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere operato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass. Sez. 5, n. 9851 del 20/04/2018; Sez. 5, n. 27566 del 30/10/2018; Cass, sez. S, 18 dicembre 2019, n. 33598; Cass. Sez. 5, Ord. n. 15369 del 20/07/2020; n. 28562 del 2021).
Come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 20/04/2018, n. 9851), la prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale, ossia che il soggetto formale non è quello reale e che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione I.V.A. e, a tale ultimo fine, non è necessaria la prova della partecipazione all’evasione, ma è sufficiente e necessario che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole.
Con riguardo a tale ultima circostanza, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, deve essere soddisfatta l’esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se non sapeva o non avrebbe potuto sapere che l’operazione si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’I.V.A. (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahageben e David, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14 ).
Con riguardo al “tipo” di prova incombente sull’Amministrazione si è precisato che essa può ritenersi raggiunta se quest’ultima fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio: l’Amministrazione può assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevede per l’I.V.A. il D.P.R. n. 633 del 1973, art. 54, comma 2, e mediante elementi indiziari (Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25778; Cass., sez. 5, 24/09/2014, n. 20059; Cass., sez. 6-5, 7/06/2017, n. 14237; Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C439/04 e C-440/14; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahageben e David, C-80/11 e C-142/11) che il contribuente al momento in cui ha acquistato il bene o il servizio sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei a “porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sullé1 sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia, 6 dicembre 2012, Bonik, C- 285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C 277/14, par. 50).
La Corte di Giustizia, con riguardo alla prova sull’elemento soggettivo del cessionario, ha escluso la compatibilità con il diritto unionale di una previsione di legge nazionale che consideri inesistente, in base a criteri predeterminati, il soggetto emittente la fattura e, di conseguenza, neghi al destinatario il diritto a detrazione, sottolineando che “il criterio dell’esistenza del fornitore dei beni o del suo diritto ad emettere fatture… .non figura tra le condizioni del diritto alla detrazione”, rilevando esclusivamente che egli abbia “la qualità di soggetto passivo” (Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C- 277/14); ne consegue che spetta all’Amministrazione dimostrare, e al giudice verificare, “alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’I.V.A.” (Cass. n. 9851 del 2018, cit.).
Ciò comporta che non è possibile fissare in via astratta e preventiva circostanze che ostino al riconoscimento del diritto alla detrazione (Corte di Giustizia 15 novembre 2017, Rochus e Finanzant, C-374/16 e C-375/16; Corte di Giustizia 7 settembre 2017, Equiom, C-6/16, che ha precisato che “le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame complessivo dell’operazione interessata“).
L’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario deve dunque essere ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta alla Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’I.V.A. e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare (Cass. n. 9851 del 2018, cit.; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27566; Cass., sez. 5, 20/07/2020, n. 15369). Pertanto, sebbene al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali ed operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità ed ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore del mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo (Cass., sez. S, 2/12/2015, n. 24490).
Ciò significa che, anche se deve escludersi la idoneità, ai fini probatori, della sola qualità di “cartiera” del soggetto interposto, non può parimenti negarsi che la immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti possa essere considerata elemento, afferente alla sfera del destinatario, idoneo a far ritenere assolto l’onere probatorio posto a carico dell’Amministrazione.
Raggiunta tale prova, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare, oltre all’effettività del cedente, la propria buona fede, ossia di “avere agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a far insorgere il sospetto”, stante la inesigibilità di ulteriori verifiche (Cass. Sez. U, 12/09/2017, n. 21105; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27566; Cass., sez. 5, 20/07/2020, n. 15369; Cass., sez. 6-5, n. 13409 del 2021).
Il contribuente, in altri termini, può dimostrare sia l’anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività preventiva posta in essere da cui emergeva l’effettività ed operatività dell’impresa interposta.
Risulta, invece, priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture e sulle evidenze contabili dei pagamenti, quanto sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio, e ciò in quanto le prime circostanze sono già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, mentre l’ultima si riferisce ad un dato di fatto esterno alla fattispecie, inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass., sez. 5, 24/09/2014, n. 20059; Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 428; Cass., sez. 6-S, 5/12/2017, n. 29002; Cass., sez. 6-5, n. 13409 del 2021; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14, che afferma che “in circostanze del genere il soggetto passivo deve essere considerato ….partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle”).
Nella fattispecie che ci occupa, il giudice d’appello si è attenuto ai principi sopra esposti, facendo corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova.
La CTR – pur riconoscendo il carattere soggettivamente inesistente delle operazioni fatturate – partendo dalla considerazione che, nella specie, le società fatturanti fossero state indicate nel p.v.c. della GdF non come mere cartiere ma come “società filtro” per cui tale natura rendeva complessa alla stessa cessionaria la verifica della fittizietà delle stesse attesa la finalità di “nascondere la frode carosello”, ha ritenuto che l’Amministrazione non avesse dimostrato che la società contribuente al momento degli acquisti disponesse di elementi sufficienti per acquisire contezza del carattere soggettivamente fittizio dei soggetti formalmente cedenti; ciò anche considerando che il legale rappresentante della M. aveva escluso di essersi mai recato presso le venditrici ( e tale circostanza non risultava contestata), che risultava l’esistenza di una struttura aziendale, anche con un magazzino e un dipendente, senza che potesse ritenersi l’inadeguatezza per l’attività svolta, e che era stata offerta, in sede di gravame, una plausibile interpretazione del cambio di denominazione delle società nell’ambito di un meccanismo volto a sottrarsi ad eventuali creditori non risultando percepibili all’esterno ulteriori elementi indicati nel verbale ( quale il rinvenimento di timbri); peraltro, come evidenziato dalla CTR, neppure il prezzo pagato poteva essere ritenuto utile a destare sospetto nella contribuente della fittizietà delle fornitrici e, infine, il modesto volume di affari ( 4%} non poteva che fare ritenere sufficiente la diligenza manifestata nell’approccio alla dette venditrici.
A fronte delle argomentazioni poste a sostegno del decisum, la doglianza svolta dall’Agenzia con il mezzo in esame, così come formulata, non evidenzia, in realtà, una violazione dell’art. 2697 c.c., che si configura soltanto quando il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare e non, invece, laddove oggetto della censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass., sez. 3, 23/10/2018, n. 26769; Cass., sez. 3, 2018, 29/05/2018, n. 13395),
ma è piuttosto volta a censurare l’apprezzamento svolto dai giudici di merito che hanno ritenuto non offerta la prova, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della consapevolezza dell’evasione.
Dalla illustrazione estremamente generica e lacunosa del mezzo di ricorso ( in mancanza peraltro di traso·izione o allegazione al ricorso dell’avviso e/o del richiamato p.v.c della GdF) non è neppure dato evincere con quali modalità sia stato, in concreto, attuato il meccanismo fraudolento che si assume non adeguatamente valutato dalla Commissione regionale, nè si indicano i fatti addotti dall’Amministrazione finanziaria, che, secondo l’assunto difensivo, i giudici di appello avrebbero trascurato di esaminare, di per sè idonei a comprovare, oltre che la inesistenza soggettiva delle operazioni, anche la conoscibilità da parte della contribuente della frode.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato.
Nessuna determinazione in punto spese essendo rimasta intimata la società contribuente.
Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016, Rv. 638714 ).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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