Corte di Cassazione ordinanza n. 19647 del 17 giugno 2022

valore normale – doppia conformità, ex art. di cui all’art. 348-ter – cessione del contratto di locazione finanziaria – nozioni di fatto di comune esperienza – violazione dell’art. 115 c.p.c.

Rilevato che:

1. L’Agenzia delle Entrate notificò alla Century s.r.l., esercente l’attività di fornitura di soluzioni per realizzare campagne pubblicitarie, un avviso di accertamento avente oggetto Ires, Irap ed Iva di cui all’anno di imposta 2007, formulando, come risulta dalla sentenza impugnata, i seguenti rilievi:

– indebita svalutazione delle rimanenze di magazzino;

-mancata indicazione nelle scritture contabili della sopravvenienza attiva risultante dalla cessione di un contratto di leasing mobiliare, per un importo pari a € 1.548,53;

– indebita deduzione di costi non di competenza dell’anno di imposta 2007;

-mancato versamento dell’Iva relativamente ai prodotti di cui all’art. 74, primo comma, lett. c), del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.

2. Risulta dalla sentenza impugnata che, per quanto riguarda la svalutazione del magazzino la contribuente aveva applicato l’art. 92 del P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e l’art. 2526 cod. civ., assegnando alla merce il valore normale dei beni, ritenuto nettamente inferiore al valore d’acquisto, considerato che la naturale obsolescenza della merce (si trattava di dvd relativi a film da tempo prodotti) aveva fortemente inciso sul presumibile valore di realizzo sul mercato. Tale scostamento   è   stato   invece   ritenuto   dall’Ufficio,   in sede di accertamento, non solo fondato su valori non totalmente coincidenti con quelli descritti dagli artt. 9 e 92 del d.P.R. n. 917 del 1986, ma anche del tutto sproporzionato.

Con riferimento alla mancata contabilizzazione della cessione di un contratto di leasing, l’Ufficio aveva ritenuto, al fine di determinare l’eventuale sopravvenienza attiva di cui all’art. 88, quinto comma,

d.P.R. n. 917 del 1986, che la contribuente non avesse calcolato in forma corretta la differenza fra il valore normale del bene concesso in leasing e l’importo residuo dovuto al concedente, da parte del nuovo utilizzatore, che andava attualizzato alla data di cessione del contratto. Quanto al profilo relativo alla indebita deduzione dei costi, l’Ufficio ha rilevato l’erronea determinazione dell’esercizio di competenza di alcune spese da parte della contribuente. La Century s.r.l. aveva infatti imputato all’anno di imposta 2007 costi riguardanti prestazioni di servizi effettuati, come rilevato dall’Agenzia delle Entrate nell’avviso di accertamento, nel 2006.

Per quanto attiene al mancato assolvimento dell’Iva sui prodotti relativi all’editoria, l’Ufficio aveva fatto applicazione dell’art. 74, primo comma, lett. c), del d.P.R. 633 del 1972. Nella formulazione ratione temporis applicabile tale norma permetteva di escludere dal novero dei beni il cui commercio era soggetto ad Iva i supporti integrativi di quotidiani, periodici e libri a questi ultimi funzionalmente connessi. Tale connessione doveva tuttavia risultare dalla presentazione di una “dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui alla Legge 4 gennaio 1968, n. 15, presentata prima della commercializzazione, ai sensi dell’articolo 35, presso il competente ufficio dell’imposta sul valore aggiunto”. Non essendo stata presentata dalla contribuente alcuna dichiarazione, gli accertatori avevano recuperato a tassazione l’Iva relativa ai suddetti supporti integrativi.

3. Avverso l’avviso di accertamento la Century r.l., dopo aver esperito senza successo un tentativo di accertamento con adesione, presentava ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, che ha rigettato il ricorso.

4. Avverso tale decisione la Century s.r.l. ha proposto appello, che l’adita Commissione tributaria regionale del Veneto, con la sentenza di cui all’ epigrafe, ha rigettato.

5. La Century s.r.l. ha quindi proposto ricorso, affidato a quattro motivi, per la cassazione della predetta sentenza d’appello.

L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

Considerato che: 

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2426 e 2423-bis cod. civ.; 9 e 92 d.P.R. n. 917 del 1986; e 115 cod. proc. civ., per avere la CTR: ritenuto che il valore normale delle rimanenze finali corrispondesse al semplice valore di mercato e non, più correttamente, al presumibile valore di realizzo risultante dalla vendita dei beni; omesso di utilizzare il potere, espressamente riconosciutole dall’art. 115 cod. proc. civ., di porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza; posto in capo alla contribuente, per quanto attiene la prova del valore delle rimanenze finali, l’onere di fornire una valutazione estimativa della merce da parte di un terzo esperto.

Il motivo è inammissibile.

Prevede il primo comma dell’art. 92 del d.P.R. n. 917 del 1986 che « Le variazioni delle rimanenze finali dei beni indicati all’articolo 85, comma 1, lettere a) e b), rispetto alle esistenze iniziali, concorrono a formare il reddito dell’esercizio. A tal fine le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici o a norma dell’articolo 93, sono assunte per un valore non inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e per valore e attribuendo a ciascun gruppo un valore non inferiore a quello determinato a norma delle disposizioni che seguono.».

Il successivo quinto comma dispone a sua volta che «Se in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato a norma dei commi 2, 3 e 4, è superiore al valore normale medio di essi nell’ultimo mese dell’esercizio, il valore minimo di cui al comma 1, è determinato moltiplicando l’intera quantità dei beni, indipendentemente dall’esercizio di formazione, per il valore normale. […] Il minor valore attribuito alle rimanenze in conformità alle disposizioni del presente comma vale anche per gli esercizi successivi sempre che le rimanenze non risultino iscritte nello stato patrimoniale per un valore superiore.».

Stabilisce il terzo comma dell’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986 che: « Per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore.». Dispone l’art. 2426, comma 1, n. 9) cod. civ. che «le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto o di produzione, calcolato secondo il numero 1), ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore; tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi. I costi di distribuzione non possono essere computati nel costo di produzione;». Premesso tale quadro normativo, questa Corte ha invero chiarito che «In materia di determinazione del reddito di impresa, ai fini dell’individuazione della base imponibile, in applicazione del principio di derivazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 2426, comma 1, n. 9) c.c. e 92, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, è corretta la valutazione del valore delle rimanenze di magazzino al costo medio di produzione, laddove non sia desumibile un minor valore di realizzazione in relazione all’andamento del mercato, e la conseguente deduzione dello stesso quale componente negativa del reddito.» (Cass. 04/04/2022, n. 10714). Come si legge nella motivazione dello stesso arresto, « Nel rapporto tra la norma di cui al comma 1 e quella di cui al successivo comma 5, come sopra testualmente riportate, è quella di cui al comma 1 che prevede come criterio generale che la valutazione delle rimanenze sia effettuata a costi specifici, salvo che non ricorrano i presupposti per l’applicazione dei criteri stabiliti dalle disposizioni seguenti, tra le quali il comma 5.».

Tanto premesso, nel caso di specie la valutazione delle rimanenze, piuttosto che al costo medio di produzione, al “valore normale”, inteso dalla contribuente come minore “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato”, presupponeva pertanto che di tale minor valore la contribuente desse dimostrazione, ciò che la CTR ha tuttavia escluso, con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede con la censura di cui all’art. 360, primo comma, n. 3. Ed è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. ,S. Un., 27/12/2019 n. 34476).

Dunque il giudizio in fatto espresso dalla sentenza impugnata neppure sarebbe stato sindacabile con la censura di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., neanche proposta dalla ricorrente e comunque ulteriormente inammissibile, ricorrendo i presupposti della c.d. doppia conformità, ex art. di cui all’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ., sul relativo accertamento, senza che la contribuente abbia indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 10/03/2014, n. 5528).

Va poi aggiunto che, a differenza di quanto dedotto dalla ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui (sostanzialmente ad abundatiam) rileva che la prova in questione avrebbe potuto essere fornita «almeno con la redazione di una valutazione estimativa dei beni da parte di un terzo esperto del settore», constatandone l’assenza, non afferma che quello “suggerito” costituisse l’unico mezzo istruttorio consentito, posto che, nei periodi immediatamente precedenti, espressamente riconosce che la prova può venire fornita con vari mezzi.

E’ vero, peraltro, che la CTR esclude che la prova del “valore normale”, inteso dalla contribuente come “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato”, possa provarsi con una «semplice presunzione». Tuttavia tale conclusione non è determinante rispetto alla censura della ricorrente, che non lamenta la violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. e non allega la relativa fattispecie indiziaria che il giudice a quo non avrebbe valutato. Piuttosto, la ricorrente si duole che la CTR non abbia accertato il minor valore applicando l’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., per effetto del quale avrebbe dovuto «senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.».

Premessa quindi la differenza che sussiste tra provare indirettamente un fatto attraverso elementi indiziari come le presunzioni semplici ed escludere invece che sia necessaria ogni prova di nozioni di fatto in quanto notorie, deve ricordarsi che, secondo questa Corte, « Il ricorso, da parte del giudice, alle nozioni di fatto di comune esperienza, le quali riguardano fatti acquisiti alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili, e non anche elementi valutativi che implicano cognizioni particolari ovvero nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, attiene all’esercizio di un potere discrezionale; pertanto la violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c. può configurarsi solo quando il giudice ne abbia fatto positivamente uso e non anche ove non abbia ritenuto necessario avvalersene, venendo in tal caso la censura ad incidere su una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità.» (Cass. 20/03/2019, n. 7726; conforme Cass. 20/02/2020, n. 4428). Viceversa, nel caso di specie, la ricorrente si duole, come non è ammissibile, proprio del mancato ricorso, da parte della CTR, al c.d. fatto notorio.

2. Con il secondo motivo la contribuente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num.3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 88, quinto comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, per avere la CTR ritenuto sussistente una sopravvenienza derivante dalla cessione di un contratto di leasing, nonostante il valore normale del contratto fosse inferiore a quanto ancora complessivamente dovuto dal cessionario. Nella sostanza, la ricorrente lamenta che il totale da corrispondere da parte del cessionario fosse maggiore di quello calcolato dall’Ufficio e ritenuto corretto dalla CTR, risultando pertanto superiore allo stesso valore normale del contratto dal quale avrebbe dovuto essere sottratto, cosicché quest’ultima operazione non evidenziava alcuna sopravvenienza attiva.

Al riguardo, come questa Corte ha già chiarito (Cass. 24/08/2018, n. 21058, in motivazione), il legislatore si è espressamente occupato della cessione del contratto di leasing solo con riguardo al versante del cedente: l’art. 88, ultimo comma del d.P.R. n. 917 del 1986, infatti, prevede che «In caso di cessione del contratto di locazione finanziaria il valore normale del bene costituisce sopravvenienza attiva».

Inoltre, quanto al valore “normale”, occorre riferirsi a quello determinabile ai sensi dell’art. 9, terzo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, ossia «il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati» e, dunque, quando sono in questione immobili, assume rilievo, in linea di massima, il prezzo di mercato.

Sotto un profilo strettamente economico, il corrispettivo della cessione in questione corrisponde al valore del bene detratto l’ammontare (attualizzato) dei canoni ancora dovuti e, in ipotesi, del prezzo di riscatto.

La CTR, motivando sul punto e facendo corretta applicazione di tali criteri, ai fini del relativo calcolo, ha specificato che era da decurtare «il valore attuale dei canoni di locazione finanziaria non ancora scaduti che sono posti a carico del cessionario del contratto, e non il valore dei canoni da corrispondere in quanto gli stessi sono comprensivi anche degli interessi per il loro pagamento dilazionato nel tempo.».

La ricorrente, nella sostanza, senza censurare specificamente la correttezza di tali criteri, ed in particolare dell’operazione di attualizzazione operata dalla CTR, si limita a ribadire la maggiore entità del «totale da corrispondere» e da sottrarre al valore normale, al fine di negare che da tale operazione emerga la sopravvenienza attiva de qua.

Limitandosi, nella sostanza, a tale contrapposizione, il motivo è quindi inammissibile, sia perché generico, sia perché comunque non attinge puntualmente la ratio decidendi specifica della sentenza impugnata (Cass.  10/08/2017,  n.  19989,  ex  plurimis),  che  evidenzia esplicitamente quali siano i criteri che conducono al risultato conforme a quello accertato dall’Amministrazione.

3. Con il terzo motivo la contribuente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num.3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986 e 2697 cod. civ. per avere la CTR illegittimamente imputato all’esercizio 2006, con conseguente indeducibilità nell’anno di imposta successivo, costi che, da un lato, sono relativi a prestazioni di servizi ultimate nel 2007 e, dall’altro, sono stati erroneamente ritenuti certi e determinabili nel 2006 in base alla sola considerazione che della assenza di tali requisiti, allegata nei precedenti gradi di merito, mancherebbe la prova, negativa, da parte della contribuente.

Il motivo è inammissibile, in quanto del tutto generico.

Infatti la ricorrente, già nel ricorso introduttivo (trascritto nel ricorso per cassazione) assumeva apoditticamente che trattandosi di prestazioni di servizi, esse sono deducibili «quando “le prestazioni sono ultimate, ovvero nel 2007, e per alcune di esse non c’era la certezza e determinabilità nel 2006.». Dello stesso tenore era il relativo motivo d’appello (trascritto a sua volta nel ricorso per cassazione) ed è il motivo di ricorso in questa sede, non risultando dunque univocamente specificato quali siano le prestazioni che si assumono ultimate nel 2007, per cui le spese di acquisizione dei servizi sarebbero deducibili, secondo il criterio di competenza di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986, in tale esercizio; né quali siano le spese di acquisizione dei servizi che invece dovrebbero essere deducibili, secondo la contribuente, nel 2007 perché nel 2006 non erano certe e determinabili, evidentemente sul presupposto (necessariamente implicito, visto il primo comma del ridetto art. 109) che, secondo i criteri generali, si sarebbe trattato di componenti negative riconducibili all’anno d’imposta 2006, ma concorrenti a formare il reddito imponibile dell’anno successivo, perché solo allora divenute certe e determinabili.

Quanto poi alla pretesa violazione dell’art. 2697 cod. civ., va ricordato che « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.» (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).

Nel caso di specie, non vi è stata alcuna inversione dell’onere della prova dell’anno d’imposta di competenza, che il giudice di appello ha imputato al contribuente, in conformità al criterio applicabile in materia di componenti negativi quali quelle di cui qui si discute ai fini della deduzione (Cass. 06/07/2021, n. 19166, ex plurimis).

Giova poi precisare che la configurazione della prova come negativa, con riferimento alla mancanza di certezza e determinabilità di costi nell’anno 2006, è (a prescindere da ogni altra considerazione) logicamente e giuridicamente errata, in quanto ciò che piuttosto si chiede alla contribuente è di fornire la prova, positiva, delle circostanze che nel 2007, anno d’imposta sub iudice, hanno determinato la certezza e la determinabilità di un costo altrimenti riconducibile all’esercizio precedente.

Infine, per le medesime ragioni illustrate a proposito del primo motivo, anche il terzo è inammissibile nella parte in cui pretenda di sindacare, in questa sede, la valutazione del giudice a quo sul merito della relativa valutazione in fatto.

4. Con il quarto motivo di ricorso la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num.3, proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 74, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la CTR ritenuto che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio prevista da tale normativa fosse richiesta a pena di decadenza e che, in assenza della stessa, l’assolvimento dell’Iva fosse in ogni caso dovuto dalla contribuente.

Il motivo è inammissibile.

Invero la ricorrente, per sottrarsi al regime dell’Iva sull’editoria, invoca l’applicazione dell’art. 74, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972 che, dopo aver affermato che « In deroga alle disposizioni dei titoli primo e secondo, l’imposta è dovuta: […] c) per il commercio di giornali quotidiani, di periodici, di libri, dei relativi supporti integrativi e di cataloghi, dagli editori sulla base del prezzo di vendita al pubblico, in relazione al numero delle copie vendute.», aggiunge che « Non si considerano supporti integrativi o altri beni quelli che, integrando il contenuto dei libri, giornali quotidiani e periodici, esclusi quelli pornografici, sono ad esso funzionalmente connessi e tale connessione risulti da dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui alla legge 4 gennaio 1968, n. 15, presentata prima della commercializzazione, ai sensi dell’articolo 35, presso il competente ufficio dell’imposta sul valore aggiunto;».

Come risulta dal ricorso (pagg. 3, 7 s., 18) nei motivi del ricorso introduttivo e dell’appello la contribuente si è sempre limitata a censurare la rilevazione della decadenza per la mancata presentazione della relativa dichiarazione sostitutiva di atto notorio, perché non sarebbe prevista dalla legge.

La sentenza di primo grado (trascritta alle pagg. 11 ss. del ricorso) aveva rilevato la mancanza di prova dei presupposti per l’applicazione

del regime invocato dalla contribuente. La quale, sia in appello che in  questa sede, lamenta che, non essendo a suo dire richiesta a pena di decadenza la predetta dichiarazione, «ben poteva l’Ufficio verificare la sussistenza dei presupposti oggetto della dichiarazione, se solo avesse fatto uso dei poteri suoi propri e di un minimo di buona fede.».

Il motivo è generico, e perciò inammissibile, ai sensi dell’art. 366, primo comma, nn. 3, 4 e 6, cod. proc. civ.

Infatti, la tesi della ricorrente si fonda sulla sussistenza di fatto dei presupposti del regime fiscale in materia di Iva, derogatorio a quello generale dell’editoria, senza tuttavia che la contribuente abbia allegato puntualmente, come era suo onere, le relative circostanze costitutive (in particolare con riferimento alla sussistenza fattuale del requisito della connessione funzionale, del quale non sono evidenziati puntualmente né gli elementi connessi né le modalità e la natura concrete della relazione tra loro) e senza indicare specificamente quali siano i dati istruttori a supporto, ed in che grado e fase siano stati prodotti nei giudizi di merito, ma anzi assumendo che le relative verifiche erano rimesse ala controparte. Sicché è la stessa ricorrenza sostanziale dei presupposti del regime derogatorio e più favorevole invocato dalla contribuente che rimane generica, rendendo inammissibile e non decisiva la censura, anche a prescindere dalla questione della necessità o meno della dichiarazione in questione.

5. Le spese di questo giudizio seguono la soccombenza

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 1 , se dovuto.