CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 20058 depositata il 13 luglio 2023
Tributi – Invito al pagamento – Contestazione di sanzione amministrativa – Diritti doganali – Introduzione clandestina dalla Svizzera di monete d’oro – Sanzione amministrativa per diritti di confine evasi – D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303 comma 3 – Principio di proporzionalità – Nuova disciplina del mercato dell’oro – Rigetto
Rilevato che
1. Con sentenza n. 5219/7/2018 depositata in data 28/11/2018 la commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto da N.M.F., avverso la sentenza n. 4/4/2018 della commissione tributaria provinciale di Como, che aveva rigettato il ricorso avverso l’invito al pagamento e l’atto di contestazione di sanzione amministrativa per diritti doganali concernenti l’introduzione clandestina nel territorio nazionale di monete d’oro dalla Svizzera per un valore complessivo di Euro 4.841,50, con irrogazione di una sanzione amministrativa ex art. 303 comma 3 lett. e) TULD nella misura pari al minimo edittale di Euro 30.000,00.
2. Il contribuente, in conseguenza della violazione accertata dai funzionari doganali, presentava deduzioni difensive sostenendo di non aver commesso volontariamente l’illecito contestato e che le monete non dichiarate appartenevano ai beni di famiglia. In sede di riesame degli atti, l’Ufficio rilevava che l’invito al pagamento risultava errato e ne disponeva l’annullamento in autotutela, contestualmente emettendo gli atti impositivi alla base del presente processo.
3. La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso del contribuente e confermava integralmente gli atti opposti. Secondo il giudice di prime cure l’obbligo doganale era sorto per il fatto stesso che la merce avesse attraversato il confine, e legittimi erano i diritti doganali richiesti, in assenza di dichiarazione all’Ente impositore e consequenzialmente era dovuta anche la sanzione, legittimamente irrogata al minimo edittale.
4. La Commissione Tributaria Regionale, in parziale accoglimento dell’appello del contribuente, accertava la violazione dell’obbligo dichiarativo e la debenza del tributo, ma riduceva le sanzioni. La CTR riteneva infatti che per la violazione dell’obbligo di dichiarazione commessa, fosse sproporzionata l’entità della sanzione irrogata dall’Agenzia ex art. 303 comma 3 lett. e) TULD, sia pure nella misura pari al minimo edittale, e disapplicava tale previsione normativa, rideterminando la misura delle sanzioni in Euro 2.200,00, pari a circa il 10% del valore importato.
5. Avverso tale decisione, l’Agenzia delle Dogane propone ricorso affidato a due motivi di impugnazione, mentre il contribuente non ha svolto difese.
Considerato che
6. Con il primo motivo di impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle Dogane denuncia la violazione dell’art. 5 TUE, per aver la CTR ritenuto di dover non applicare alla fattispecie l’art. 303 comma 3 lett.e TULD, nella sua formulazione modificata dal decreto L. 2 marzo 2012 n. 16 applicabile ratione temporis, e così “sanzioni che non corrispondono ai principi posti dalle normative comunitarie”.
L’Agenzia censura con il mezzo il fatto che il giudice d’appello, pur ritenendo corretta l’applicazione della sanzione per l’omessa dichiarazione in dogana delle monete, abbia ritenuto esistente una sproporzione tra gravità della violazione ed entità dell’importo irrogato, rideterminando la stessa sanzione in Euro 2.200, pari al 10% del valore importato in violazione della summenzionata previsione di legge.
7. Con il secondo motivo di ricorso, in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli denuncia la violazione dell’art. 303 comma 3 lett.e) TULD, del D.L. n. 158 del 2015, art. 16 comma 4 e del d.lgs. n. 472 del 1997, art. 7 comma 4, in quanto la sentenza della CTR non permetterebbe di comprendere la normativa applicata, e così il fondamento giuridico che ha permesso al giudice di giungere alla macroscopica riduzione della sanzione comminata. Secondo l’Agenzia, anche a voler concedere che per rideterminare la sanzione la CTR abbia fatto riferimento al d.lgs. n. 472 del 1997, art. 7 rubricato “criteri di determinazione della sanzione”, nella parte in cui al comma 4 prevede che, “qualora concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo”, comunque la riduzione della sanzione avrebbe potuto giungere fino ad Euro 15.000,00, senza disapplicare l’art. 303 comma 3 lett. e) TULD, ma non oltre.
8. I motivi, connessi, devono essere valutati congiuntamente e sono infondati.
8.1. In materia di sanzioni amministrative per diritti di confine evasi, il d.p.r. n. 43 del 1973, art. 303 comma 3, come sostituito dal d.l. 2 marzo 2012, n. 16, art. 11 convertito con modificazioni dalla l. 26 aprile 2012, n. 44, stabilisce che se i tributi complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza dei diritti supera il cinque per cento, la sanzione amministrativa, qualora il fatto non costituisca più grave reato, è la seguente:
a) per diritti fino a 500 Euro si applica la sanzione amministrativa da 103 a 500 Euro;
b) per i diritti da 500,1 a 1.000 Euro, si applica la sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 Euro;
c) per i diritti da 1000,1 a 2.000 Euro, si applica la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 Euro;
d) per i diritti da 2.000,1 a 3.999,99 Euro, si applica la sanzione amministrativa da 15.000 a 30.000 Euro;
e) oltre 4.000, si applica la sanzione amministrativa da 30.000 Euro a dieci volte l’importo dei diritti.
Nel caso in esame in cui i diritti di confine evasi sono stati superiori alla soglia di 4000 e inferiori a 5.000 Euro, l’Amministrazione finanziaria ha fatto applicazione della sanzione nella misura minima prevista per lo scaglione, pari a 30mila Euro. Il giudice d’appello, valutata l’entità del tributo evaso e il comportamento tenuto dal contribuente, ha disapplicato siffatta previsione normativa per contrasto con il principio comunitario di proporzionalità.
8.2. Il Collegio rammenta la giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha più volte calato tale principio in materia di sanzioni, affermando specificamente che esse non debbano eccedere quanto necessario per conseguire gli obiettivi di garantire l’esatta riscossione dell’IVA all’importazione e di evitare l’evasione (v., in tal senso, Corte di Giustizia sentenze 8 maggio 2008, E. C-95/07 e C-96/07, punti da 65 a 67; 12 luglio 2012, E.B.T., C-284/11, punto 67), e tale principio si applica anche al diritto doganale, in quanto materia armonizzata (cfr. Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013).
Al fine di valutare se una sanzione sia conforme al principio di proporzionalità, occorre tener conto, in particolare, della natura e della gravità dell’infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché delle modalità di determinazione dell’importo della sanzione stessa (così Corte di Giustizia sentenza 17 luglio 2014, E. C-272/13, para 35).
E’ stato anche statuito come, nella determinazione della misura della sanzione irrogabile, laddove vi sia un’entità percentuale fissata per la maggiorazione e l’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni caso di specie, non è escluso che tale modalità di determinazione dell’importo della sanzione, e dunque la parte corrispondente della medesima, possa rivelarsi sproporzionata (v. Corte di Giustizia, sentenza 19 luglio 2012, R., C-263/11, punto 52; sentenza E. cit., para 45).
8.3. In applicazione di tali principi, questa Sezione ha già fatto ricorso alla disapplicazione del regime sanzionatorio per contrasto con il principio di proporzionalità, affermando, ad esempio, in materia d’IVA, che la sanzione prevista dal d.lgs. n. 471 del 1997, art. 13 applicabile all’importatore che si sia avvalso del sistema di sospensione del versamento dell’imposta all’importazione senza immettere materialmente la merce nel deposito fiscale, deve essere disapplicata per contrarietà al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia, ove ecceda, in ragione della percentuale fissata per la maggiorazione e dell’impossibilità di graduarne la misura alle circostanze concrete, il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione ed evitare l’evasione, atteso che, tenuto conto della natura formale della violazione, potrebbero costituire un’adeguata sanzione anche i soli interessi moratori (Cass. Sez. 6 – 5, Sentenza n. 17814 del 08/09/2015).
Sempre in tema d’IVA, è stato anche statuito che le modalità di determinazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 471 del 1997, artt. 5, comma 4, e 6, comma 1, che le ragguagliano ad una forbice dal cento al duecento per cento della differenza rispetto all’imposta dovuta e dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio, eccedono il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare l’evasione attesa l’entità minima della percentuale fissata per la maggiorazione e l’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, per cui vanno disapplicate in quanto contrarie al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia (Cass. sez. 5 sentenza n. 14767 del 15/07/2015).
8.4. Proprio alla luce dell’insegnamento giurisprudenziale che precede, sia in dottrina sia giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14908 del 2022) si è già dubitato della razionalità del d.p.r. n. 43 del 1973, art. 303 comma 3 con riferimento alla soglia minima sanzionatoria rigidamente prevista per lo scaglione applicabile, così come sostituito dal D.L. 2 marzo 2012, art. 11, e questo già in un momento anteriore al formarsi di gran parte della giurisprudenza della Corte di giustizia che precede, e della sua applicazione da parte della Corte di cassazione.
9. Il Collegio ritiene che la sentenza di appello abbia fatto corretta applicazione dell’insegnamento della citata sentenza della Corte di Giustizia E. e del principio di proporzionalità sancito dall’art. 5 paragrafo 4 del TUE (ex art. 5 del TCE), il quale statuisce nella sua prima parte che “In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”, sussistendo contrasto tra questa previsione e il d.p.r. n. 43 del 1973, art. 303 comma 3 lett. e) non risolvibile in mera chiave interpretativa, ma solo attraverso la sua disapplicazione.
Infatti, quest’ultima previsione eccede il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare la violazione della norma tributaria, attesa l’entità dell’importo minimo applicabile in sede di sanzione, di 30.000 Euro, pari ad oltre sei volte la misura dell’evasione contestata di 4.841,50 Euro. E’ inoltre impossibile adeguare la sanzione alle circostanze specifiche del caso, in cui il comportamento del contribuente si sostanzia nella mancata dichiarazione al confine di monete pacificamente costituenti beni di membri della famiglia, come provato dalla documentazione prodotta in atti, anche con riferimento alla condizione di rifugiati di guerra (cfr. p.6 sentenza d’appello).
10. Il Collegio osserva inoltre che la Commissione Tributaria Regionale si è attenuta alla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte di cassazione anche circa le conseguenze della ritenuta incompatibilità della previsione con il diritto comunitario, non limitandosi alla mera disapplicazione della norma nazionale in contrasto con il diritto comunitario. Il giudice d’appello si è infatti adoperato per applicare una sanzione proporzionata alla violazione dell’obbligo di dichiarazione commessa dal contribuente, individuandone il fondamento giuridico. A differenza di quanto ritiene l’Agenzia in ricorso, il giudice non ha compiuto una determinazione meramente equitativa, ma l’ha parametrata, citando: “Le violazioni dell’obbligo di dichiarazione di cui all’art. 1, comma 2, (della L. n. 7 del 2000) sono punite, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della citata Legge, con la sanzione amministrativa da un minimo del 10% ad un massimo del 40% del valore negoziato.”.
A sua volta, l’art. 1, comma 2 della medesima legge prevede: “Chiunque dispone o effettua il trasferimento di oro da o verso l’estero, ovvero il commercio di oro nel territorio nazionale ovvero altra operazione in oro anche a titolo gratuito, ha l’obbligo di dichiarare l’operazione (…)”.
10.1. Il giudice d’appello ha perciò razionalmente fatto riferimento alla l. n. 7 del 2000 recante la nuova disciplina del mercato dell’oro, anche in attuazione della direttiva 98/80/CE del Consiglio del 12 ottobre 1998, e l’ha applicata analogicamente alla fattispecie, giungendo per l’effetto a rideterminare la sanzione nella misura del 10% della base imponibile delle monete d’oro non dichiarate, il cui valore era 22.007,00 Euro (cfr. p.5 sentenza impugnata), pari ad Euro 2.200,00.
11. Conclusivamente, il ricorso dev’essere rigettato e va formulato il seguente principio di diritto, al fine di rendere manifesta l’opinione della Corte sulla questione decisa:
“In materia d’IVA, le modalità di quantificazione delle sanzioni previste dal d.p.r. n. 43 del 1973, art. 303 comma 3, lett. e) (TULD), come sostituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 11, convertito con modificazioni dalla l. 26 aprile 2012, n. 44, che le determinano per il diritto di confine non dichiarato in un importo minimo di 30.000 Euro, eccedono il limite necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare l’evasione di un dazio doganale non versato superiore a 4mila ma inferiore a 5mila Euro, attesa la misura fissa del minimo e l’impossibilità di adeguare le sanzioni alle circostanze specifiche del singolo caso, per cui vanno disapplicate in quanto contrarie al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia.“.
12. In assenza di costituzione dell’intimato, le spese di lite non devono essere liquidate.
12.1. Si dà atto che, ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, in presenza di soccombenza della parte ammessa alla prenotazione a debito, non sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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