Corte di Cassazione ordinanza n. 20071 del 22 giugno 2022
contraddittorio preventivo – abuso del diritto – imposta di registro
RITENUTO CHE
Con sentenza n. 96/20/13, depositata il 15/5/2013, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha respinto l’appello col quale le società I.F. e M.I. hanno censurato la sentenza di primo grado, che aveva affermato la legittimità della qualificazione, ai sensi dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, come cessione di ramo d’azienda, della articolata operazione, qui di seguito descritta, sulla scorta della quale l’Amministrazione finanziaria aveva liquidato, con l’impugnato avviso, notificato alle predette contribuenti, l’imposta di registro in misura proporzionale (3%), in luogo di quella fissa.
L’operazione per cui è causa si è distinta nel seguente modo: con un primo atto, registrato in data 5/6/2008, I.F. s.r.l. (ora M.I. s.r.l.) costituiva una s.r.l. unipersonale con denominazione I.F. s.r.l., la quale, con atto registrato in data 20/6/2008, deliberava l’aumento del capitale sociale, da liberare mediante conferimento da parte dell’unico socio I.F. s.r.l. di un ramo aziendale avente ad oggetto la produzione e commercializzazione di scatole grigie in cartoncino, che veniva interamente sottoscritto dall’unico socio con il conferimento dell’indicato ramo aziendale, con un terzo atto, registrato in data 25/7/2008, M.I. s.r.I. (già I.F. s.r. I.) detentrice del 100% del capitale sociale di I.F. s.r.l. (ora I.F. s.r.l.), cedeva la propria quota di partecipazione pari al 100% del capitale di I.F. s.r.l. (ora I.F. s.r.l.).
L’appello delle contribuenti è stato respinto con la seguente motivazione: “i singoli negozi giuridici posti in essere (costituzione di srl, conferimento di ramo di azienda in I. F. srl al valore di € 40.500.000,00 e vendita di partecipazione a Cartonbox) devono ritenersi produttivi di un unico effetto ç1iuridico tributario, pure nella loro autonomia dal punto di vista civilistico, e strumentali rispetto all’effetto giuridico finale, consistito nel trasferimento di un ramo d’azienda (…) l’intento elusivo dell’imposta di registro si ravvisa nella intenzione di I.F. s.r.l. di cedere l’azienda (…) La attribuzione della preminenza del dato giuridico reale, rispetto a quello fo1 male enunciato negli atti presentati per la registrazione, è del resto in linea col disposto dell’art. 20 DPR 131/86, secondo cui l’imposta di registro va applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, indicendo la considerazione che oggetto dell’imposta non è l’atto registrato in sé, ma i suoi effetti giuridici (…) La norma dell’art. 20 DPR 131/86 viene pertanto ad assumere funzione antielusiva, di contro all’abuso del diritto, quale si manifesta nel porre in essere operazioni volte a realizzare esclusivamente risparmi fiscali”.
Le contribuenti propongono ricorso per cassazione con quattro motivi, illustrati con memoria.
L’ intimata Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, le società contribuenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, ç1iacché la CTR, facendo propri gli assunti dell’Amministrazione finanziaria, ha ritenuto che il conferimento del ramo d’azienda nella neocostituita I.F. s.r.l. e la cessione dell’intera partecipazione detenuta a Carbonbox s.r.l. debbano essere fiscalmente riqualificati, in quanto atti posti in essere col solo fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale, integrando, nella sostanza, una “cessione di ramo d’azienda”.
Con il secondo motivo di ricorso, deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 del 1973, perché la CTR non ha ritenuto applicabile, nella fattispecie esaminata, l’obbligo del contraddittorio endoprocessuale.
Con il terzo motivo di ricorso, deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 176, co. 3, d.p.r. 11. 917 del 1986, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, perché la CTR ha sbrigativamente respinto il motivo di appello afferente la dedotta illegittimità dell’avviso di liquidazione, in quanto emesso in fattispecie esclusa da ogni possibilità di sindacato a11tielusivo ai sensi dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986.
Con il quarto motivo, deducono omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, perché la CTR ha trascurato di considerare la sussistenza di valide ragioni economiche poste a fondamento dell’operazione contestata, desumibili dal Piano Industriale attuato dalle società.
La seconda censura, che per ragioni d’ordine logico va esaminata per prima, è infondata e non merita accoglimento.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che l’obbligo generale di contraddittorio preventivo esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un. n. 24823/2015; Cass. n. 11283/2016; n. 6758/2017; n. 313/2018); che l’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene, quindi, una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sicché l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo (Cass. n. 15319/2013); che la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, per cui non v’è alcuna ragione per estendere alle imposte indirette, difettando di omogeneità le relative discipline normative, una disposizione, quale è l’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 del 1973, dettata in materia di imposte dirette per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.
Le censure oggetto del primo e del terzo motivo di ricorso, assorbita la censura oggetto del quarto motivo, sono fondate e meritano accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
L’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986 dispone elle «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi». Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), della legge n. 205 del 2017 (di “interpretazione autentica” ex art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018), che recano l’espressa previsione della irrilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da 1=SS0 desumibili, ribadendo così la natura 3 d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.
La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, era prevalente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, ciancio rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).
E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216/2016, Cass. n. 1955/2015, Cass. n. 14150/2013, Cass. n. 6835/2013).
E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella « forma apparente » alla quale lo stesso art. 20 (nella formulazione anteriore alla l. n. 205 del 2017) fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici>>, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione 4 finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019) e 6790/2020). Non v’è dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20 “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.
Né può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rinviando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo. Così si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., dell’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986, come modificato dall’art. 1, comma 87 della L. n. 205 del 2017 e dall’art. 1, comma 1084 della l. n. 145 del 2018, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.
Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un ‘interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10- bis della l. n. 212 del 2000, consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale.
Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 39/2021, si è nuovamente espresso sulla questione concernente la legittimità dell’intervento legislativo che ha interessato il più volte citato art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, dapprima con l’art. 1, co. 87, lett. a), l. n. 205 del 2017, e poi con l’art. 1, comma 1084, l. n. 145 del 2018, ed ha osservato che 5 esso deve essere letto come destinato non già “all’ambito semantico di una singola disposizione”, ma piuttosto “a quello dell’intero «impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro», dove la sua origine storica di imposta d’atto «non risulta superata dal legislatore positivo» (sentenza n. 158 del 2020)”, in quanto risponde all’esigenza di ricondurre in un ambito più ordinato e coerente, rispetto al quadro normativo in forte evoluzione, l’interpretazione anche giurisprudenziale della norma tributaria, e ciò, segnatamente, in considerazione del progressivo consolidarsi di un’organica disciplina dell’abuso del diritto.
All’Ufficio, pertanto, deve ritenersi impedita la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, applicando il più volte citato art. 20, sul la base della valorizzazione di elementi extra testuali.
Tanto è confermato dalla stessa relazione che accompagna l’intervento legislativo in argomento, nellla quale si sottolinea come, ai fini della interpretazione degli atti presentati per la registrazione, siano irrilevanti “gli interessi concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte”.
In altri termini, resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata “ab intrinseco”, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dall’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione, essendo viceversa la finalità antielusiva profilo affatto estraneo alla disposizione in esame. A diversi limiti, invece, soggiace la potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi dell’art. 10-bis, l. n. 212 del 2000, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.
L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia. 6 Inoltre, con la legge n. 205 del 2017 (Legge di Bilancio 2018), è stato integrato – con effetti a decorrere dal 10 gennaio 2018 – l’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, inserendo il rinvio all’art. 10 -bis, n. n. 212 del 2000 (“l. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 10- bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347.”). L’art. 1, co. 87, l. n. 205 del 2017, infatti, è intervenuto sia sull’art. 20, che sull’art. 53-bis del d.p.r. n. 131 del 1986, rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa 20 T. U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo dell’art. 10-bis l. 212 del 2000 nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elernenti extra-te:;tuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.
La Corte Costituzionale, nella prima delle citate pronunce, non ha mancato di osservare che “il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il citato art. :20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del testo unico.”, e che “proprio la clausola finale del censurato art. 20 «salvo quanto disposto dagli articoli successivi» concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo. Invero, per effetto della novella, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di «atto» presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.”.
Risultano, dunque, prive di rilievo decisivo, nell’applicazione dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, le questioni concernenti sia la sussistenza o meno di un intento elusivo o simulatorio in capo alle parti contraenti, che l’Amministrazione non è tenuta a dimostrare, sia – per quanto già detto – il difetto di contraddittorio preventivo in sede di procedimento amministrativo.
Né, in senso contrario, appare utile richiamare la previsione del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 53 bis, atteso che, nel caso di specie, la disposizione si applica nel testo vigente prima delle modifiche apportate legge n. 205 del 2017, che, come già detto, ha esteso al campo delle imposte di registro, ipotecaria e catastale le “attribuzioni” ed i “poteri” riconosciuti agli Uffici dal d.p.r. n. 600 del 1973 (e, segnatamente, dai relativi artt. 31, 32 e 33) per l’accertamento delle imposte dirette, ma senza contemplare alcun richiamo alla disposizione di cui al d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37 bis, norma cl1e non riguarda suddette “attribuzioni” e “poteri”, ma incide sull’oggetto dell’imposizione (Cass. n. 15319/2013 cit.).
Per la codificazione dell’istituto dell’abuso del diritto, costruito sulla scorta delle soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, bisogna guardare al d.lgs. n. 128 del 2015, che ha previsto, all’art. l, una definizione dell’abuso del diritto, e le sue implicazioni in materia fiscale con valenza generale, sia per i tributi armonizzati, per i quali trova fondamento nei principi dell’ordinamento UE, che per quelli non armonizzati, per i quali il fondamento va ricercato nei principi costituzionali, in attuazione della delega fiscale concessa al governo dagli artt. 5, 6 e 8, c.2 della legge 11 marzo 2014 n. 23, al dichiarato intento di “certezza ciel diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.
E’ con detta disposizione che il Legislatore ha aggiunto, dopo l’art. 10 dello Statuto del contribuente (legge 212 del 2000), l’art.10-bis (testo in vigore dal 1° ottobre 2015), a tenore del quale (comma 1) “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria1, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni“).
Ed è proprio il predetto articolo 10 bis a prevedere che l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione debba essere obbligatoriamente preceduto da una richiesta di chiarimenti (comma 6), da fornire entro 60 giorni da parte del contribuente, e che l’atto impositivo (comma 8) debba essere sempre specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme eluse, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati ed ai chiari menti forniti dal contribuente. E’, infine, la l. n. 205 del 2017, con l’art. 1, co. 87, lett. b), che introduce nell’art. 53 bis, d.p.r. n.. 131 del 1986, il rinvio all’art. 10-bis, l. n. 212 del 2000 (testo in vigore dal l0gennaio 2018), e con esso completa il pieno ingresso dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito specifico della imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale. In conclusione, se una diversa lettura dell’art. 20, d.p.r. n. 131 del 1986, così come risulta autenticamente interpretato dal Legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ciò non di meno il ricordato principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulla forma” può sempre essere fatto valere dall’Amministrazione finanziaria, sia pure entro i limiti imposti all’attività ermeneutica dalla richiamata disposizione, mentre ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente, stante l’espresso richiamo contenuto nell’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, che richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è in precedenza detto.
Con specifico riferimento alla fattispecie per cui è causa, deve ritenersi superato l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità, in materia di imposta di registro, seguito dal giudice di appello, stante l’applicabilità retroattiva dell’art. 20 del d.. p.r. n. 131 del 1986, nel testo novellato dall’art. 1, co. 87, della l. n. 205 del 2017, per effetto della precisazione contenuta nell’art. 1, co. 1084, della l. n. 145 del 2018, l’Amministrazione finanziaria non aveva facoltà di riqualificare la sequenza di una pluralità di atti nei termini complessivi ed unitari di cessione (indiretta) di ramo aziendale, dovendo limitarsi a verificare la corretta liquidazione dell’imposta di regiistro in relazione a ciascuna delle predette operazioni, i cui effetti giuridici dovevano essere singolarmente e separatamente valutati ai fini fiscali qui considerati.
La CTR lombarda non ha fatto corretta applicazione del principio sopra enunciato, essendo pacifico che per giungere alla conclusione della sussistenza di una “cessione d’azienda”, l’Agenzia delle entrate, contro il divieto di legge, ha posto in collegamento tra di loro atti diversi e distinti, non solo per l’oggetto, ma anche per le parti contraenti, tanto in violazione anche del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.
La sentenza impugnata, in conclusione, va cassata e non necessitando di ulteriori accertamenti la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dell’originario ricorso delle società contribuenti.
Le spese processuali dell’intero giudizio possono essere compensate in considerazione dell’evoluzione normativa e della incertezza giurisprudenziale risolta solo a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il primo e terzo motivo di ricorso, rigetta il secondo, dichiara assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso delle contribuenti. Compensa le spese dell’intero giudizio.
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