Corte di Cassazione ordinanza n. 20608 del 27 giugno 2022

studi di settore – grave incongruenza

FATTI DI CAUSA

C.S. Srl impugna per cassazione, con tre motivi, la sentenza della CTR in epigrafe che, in riforma della decisione della CTP di Agrigento, riteneva legittimo l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate in base agli studi di settore e previa instaurazione del contraddittorio, con cui era stato determinato un maggior reddito d’impresa di € 49.099,00 per l’anno 2004 ai fini Ires, Irap e Iva.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. La contribuente deposita altresì memoria ex art. 380.bis.1 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., violazione degli artt. 100. 112 e 324 c.p.c. per l’omessa rilevazione d’ufficio, da parte della CTR, “del giudicato interno formatosi sulla statuizione con la quale era stato accolto il primo motivo del ricorso introduttivo”.

Deduce, in particolare, che, con il primo motivo dell’originario ricorso, aveva lamentato l’insufficienza della motivazione dell’atto di accertamento perché non conteneva “la necessaria giustificazione in ordine alla dichiarata inidoneità ed insufficienza probatoria della documentazione fornita dalla società ricorrente in sede di contraddittorio a fronte di quanto richiesto (cd. motivazione rafforzata)”, mentre con il terzo motivo aveva dedotto l’insufficienza della ripresa ove l’Ufficio non alleghi, nella motivazione, le gravi incongruenze dei ricavi e corrispettivi e la fondatezza dei risultati dello studio di settore, entrambe accolte dalla CTP, la cui sentenza era stata impugnata dall’Ufficio solo rispetto all’ultima statuizione.

1.1 Il secondo motivo denuncia, in via subordinata, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la CTR omesso di pronunciare sul motivo relativo alla violazione del dovere di motivazione rafforzata sul rigetto delle argomentazioni addotte dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale.

1.2 Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 62 sexies, comma 3, d.l. n. 331 del 1993, in l. n. 427 del 1993, e 10, comma 1, l. n. 146 del 1998, per non aver la CTR ritenuto legittima la ripresa pur a fronte del difetto di motivazione dell’avviso e della carenza del requisito, non provato, della gravità dell’incongruenza tra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore. Denuncia, inoltre, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo, individuato nella gravità dello scostamento.

2. Il primo e il secondo motivo, da esaminare unitariamente per connessione logica, sono infondati e al limite dell’inammissibile.

2.1 Quanto alla prima doglianza, in disparte la carenza di autosufficienza della censura (che riproduce in termini meramente frazionati e frammentari sia la statuizione della CTP che l’atto di appello dell’Ufficio), la CTR, e lo stesso ricorso, dà in realtà atto della latitudine delle doglianze fatte valere in sede di gravame dalla Agenzia delle entrate, che aveva chiesto la riforma della sentenza ed aveva articolato i «motivi di impugnazione, con particolare riguardo alla violazione dell’art. 10, comma 1, della legge 8 maggio 1998 n. 146 e delle disposizioni normative sugli studi di settore», sì da includere, necessariamente, anche l’asserito difetto di motivazione.

Del resto, giova osservare, la stessa ricorrente aveva, in appello, lamentato la violazione dell’art. 53 d.lgs. n. 546 del 1992 (e non, invece, l’asserita parzialità delle censure, né, tantomeno, il dedotto giudicato), eccezione respinta dalla CTR sull’evidente esaustività e completezza delle doglianze.

2.2 Non sussiste, in secondo luogo, la denunciata omessa pronuncia avendo, anzi, la CTR esplicitamente statuito rilevando, da un lato, quanto la contribuente aveva dedotto in sede di contraddittorio («la società contribuente si è limitata a ribadire che … una notevole percentuale di fatturato viene realizzato con forniture a seguito di aste pubbliche con ricarichi molto al di sotto dei precedenti») e, dall’altro, che «proprio in base a tale elemento la società contribuente aveva indicato la composizione del proprio fatturato e l’Ufficio, nell’applicare lo studio di settore – come risulta dall’avviso di accertamento – ha tenuto in considerazione la variabile che la parte considera decisiva al fine di dimostrare l’inadeguatezza dell’inquadramento operato».

3. Il terzo motivo, con cui viene posta la questione, sollevata sin dal primo grado, della sussistenza del presupposto impositivo delle gravi incongruenze, di cui si assume la carenza e la mancanza di prova, è fondato nei termini che seguono.

3.1 Occorre premettere, in punto di fatto, che l’avviso impugnato è stato notificato nel 2008 e, dunque, nel regime di cui all’art. 10, comma 1, n. 146 del 1998 come modificato dall’art. 1, comma 23, l. 296 del 2006.

Il testo della disposizione prima della modifica era il seguente:

«Gli accertamenti basati sugli studi di settore, di cui all’articolo 62- sexies del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, sono effettuati nei confronti dei contribuenti con periodo d’imposta pari a dodici mesi e con le modalità di cui al presente articolo».

Per effetto della novella del 2006 il testo risultante era divenuto:

«Gli accertamenti basati sugli studi di settore, di cui all’articolo 62- sexies del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, sono effettuati nei confronti dei contribuenti con le modalità di cui al presente articolo qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi».

Secondo l’orientamento più tradizionale di questa Corte (tra le varie Cass. n. 26481 del 17/12/2014; Cass. n. 22421 del 04/11/2016; Cass. n. 27847 del 31/10/2018), la nuova formulazione della norma, nel sopprimere il riferimento alle «gravi incongruenze», ha legittimato l’accertamento sulla base del mero divario tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore a prescindere dall’entità dello scostamento.

In tempi più recenti, peraltro, tale orientamento è stato messo in discussione da Cass. n. 8854 del 29/03/2019 (seguita, da ultimo, da Cass. n. 18249 del 24/06/2021), che ha ritenuto la persistenza del requisito delle «gravi incongruenze», esclusa l’abrogazione implicita del parametro normativo.

3.2 Nella vicenda in giudizio, in secondo luogo, la CTR omette ogni apprezzamento sull’entità del divario e si limita ad affermare che il fatturato dichiarato era «inferiore a quello derivante dall’applicazione degli studi di settore».

4. Appare dunque necessario esaminare la questione su cui la giurisprudenza di questa Corte si è espressa in termini divaricati.

4.1 L’orientamento più risalente si fonda, principalmente, sulla natura dell’intervento operato dal legislatore sull’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998 e sulla valenza innovativa della modifica stessa.

Da un lato, infatti, si è osservato (v. in particolare Cass. n. 26481 del 17/12/2014) che l’art. 10 cit., per effetto della modifica apportata dalla successiva legge del 2006, a differenza del testo precedente, non si limitava più a richiamare l’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, in tal modo recependo in toto la disposizione con la tecnica del rinvio recettizio, ma – aggiungendo lo specifico inciso “qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi” – «ha fornito una autonoma regolamentazione e soppresso il precedente riferimento alle gravi incongruenze».

La modifica, inoltre, aveva carattere (non di interpretazione autentica ma) innovativo, che si evincerebbe «in maniera del tutto chiara, dal riferimento espresso alle “modificazioni” apportate dalla stessa alla disposizione di cui all’art. 10, co. 1, della legge cit., nonché dalla considerazione che il disposto di cui all’art. 1, co. 23 1. 296/2006 ha introdotto un presupposto diverso degli avvisi di accertamento, costituito dal mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra dichiarato e risultanze degli studi di settore».

Da tutto ciò, la legittima emissione, a far data dal 1° gennaio 2007, di avvisi di accertamento in base al «mero divario tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore, qualunque sia l’entità di tale difformità».

4.2 Il diverso orientamento (Cass. n. 8854 del 2019) trae spunto dalla sentenza della Corte di giustizia del 1° novembre 2018, in C- 648/16, Fontana, relativa all’Iva (che ha ritenuto legittima la ripresa sugli studi di settore in presenza di gravi divergenze purché «tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta»), e, sostanzialmente, si articola su due argomenti:

  1. da un lato la decisione della CGUE si fonda – anche – sul principio di proporzionalità, principio che, però, non riguarda solo l’Iva ma investe pure le imposte dirette, sicché la statuizione della Corte UE deve ritenersi applicabile anche a queste ultime, «dovendosi considerare prioritaria la tutela del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost.»;
  2. la modifica dell’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998 ad opera dell’art. 1, comma 23, n. 296 del 2006 continua a richiamare l’intera formulazione dell’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993 e, quindi, anche la necessità del requisito delle «gravi incongruenze», sicché non vi sarebbe stata alcuna abrogazione implicita del parametro normativo.

5. Ritiene il collegio di condividere questa seconda soluzione ma in base ad un diverso percorso motivazionale.

6. Non appare pertinente né decisivo, in primo luogo, il richiamo alla sentenza della Corte di giustizia 1° novembre 2018, in C-648/16, Fontana.

6.1 La sfera di competenza del diritto unionale, infatti, riguarda esclusivamente i tributi cd. armonizzati e non anche i tributi non armonizzati (v. Cass. S.U. n. 24823 del 09/12/2015), sicché il diritto unionale e le sentenze della Corte di giustizia, che lo applicano, interpretandolo, non hanno alcuna efficacia vincolante nel diritto interno con riferimento alle imposte dirette e all’IRAP.

Inoltre, la Corte di giustizia risolve, con effetto erga omnes (v. Cass. n. 5381 del 03/03/2017; Cass. n. 22577 del 11/12/2012), questioni interpretative attinenti all’applicazione del diritto unionale e non già questioni riconnesse all’applicazione del diritto interno, la cui interpretazione spetta al giudice nazionale (v. Cass. n. 20708 del 22/09/2006; Cass. n. 11125 del 15/05/2007).

Infine, la stessa portata della decisione in oggetto non sembra correttamente intesa: la Corte di giustizia, infatti, si limita ad affermare che una normativa interna che applichi gli studi di settore in presenza di  gravi  incongruenze  non  è  in  contrasto  con  il  principio  di proporzionalità, mentre non si preoccupa – il profilo resta estraneo – di valutare se sia o meno compatibile con il diritto UE anche la diversa ipotesi di una normativa che non contempli la sussistenza di gravi incongruenze (riconnessa, peraltro, ad una particolare procedura che implica il necessario contraddittorio con il contribuente).

6.2 Ne deriva che la richiamata decisione è applicabile solo all’Iva e non è idonea ad incidere sull’interpretazione del diritto interno.

Con la prospettazione evidenziata, del resto, si verrebbe a far dire alla Corte di giustizia più di quanto da essa affermato: quello che rileva – e in ciò si radica la portata del principio di proporzionalità – è che il contribuente possa esercitare con pienezza il suo diritto senza che il livello della prova debba essere particolarmente elevato.

L’intervento della Corte di giustizia, pertanto, assume, in realtà, solo un valore di occasio, quale momento diretto a provocare (o rinnovare) una più ampia riflessione.

7. La questione, dunque, va apprezzata alla luce del diritto

7.1 A tal fine appare opportuno partire dalla sentenza delle Sezioni Unite civili 26635 del 18/12/2009, con cui è stata fornita una lettura complessiva e articolata della disciplina degli studi di settore.

7.2 Le Sezioni Unite, oltre ad individuare il contraddittorio tra contribuente ed amministrazione quale «indefettibile momento» poiché è esso «che dà sostanza all’accertamento mediante l’applicazione dei parametri», nonché agli «accertamenti fondati sugli studi di settore», e dal quale «possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica dell’impresa la “presunzione” indotta dal rilevato scostamento del reddito», hanno preso in esplicita considerazione la disciplina via via modificata, fino a quel momento, degli studi di settore, ivi compreso, in particolare, l’intervento del legislatore di cui alla legge n. 296 del 2006.

Già il par. 8.1. della citata decisione, infatti, precisava che «di presunzione semplice parla espressamente l’art. 1, comma 14-bis, L. n. 296 del 2006 (introdotto con l’art. 15, comma 3-bis, D.L. n. 81 del 2007), a proposito degli indicatori di normalità economica (approvati con D.M. 20 marzo 2007, modificato con D.M. 4 luglio 2007), che gli uffici devono utilizzare per gli accertamenti da effettuare fino alla revisione degli studi di settore» che debbono essere «idonei alla individuazione di ricavi, compensi e corrispettivi fondatamente attribuibili al contribuente in relazione alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta».

Di seguito, al par. 8.2., le Sezioni Unite, in termini espliciti, affermavano:

«In buona sostanza, gli studi di settore … rappresentano la predisposizione di indici rilevatori di una possibile anomalia del comportamento fiscale, evidenziata dallo scostamento delle dichiarazioni dei contribuenti relative all’ammontare dei ricavi o dei compensi rispetto a quello che l’elaborazione statistica stabilisce essere il livello “normale” in relazione alla specifica attività svolta dal dichiarante.

Lo scostamento non deve essere “qualsiasi”, ma testimoniare una ”grave incongruenza” (come espressamente prevede l’art. 62-sexies, comma 3, D.L. n. 331 del 1993, e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, l’art. 10, comma 1, L. n. 146 del 1998, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento): tanto legittima l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore (o dai parametri) devono essere “corretti”, in contraddittorio con il contribuente, in modo da “fotografare” la specifica realtà economica della singola impresa la cui dichiarazione dell’ammontare dei ricavi abbia dimostrato una significativa “incoerenza” con la “normale redditività” delle imprese omogenee considerate nello studio di settore applicato».

7.3 L’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998, per come modificato dall’art. 1, comma 23, n. 296 del 2006, quindi, era già stato oggetto di diretta interpretazione da parte delle stesse Sezioni Unite, che si erano orientate per ritenere incluso anche nella nuova formulazione, in ragione «di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva», il requisito delle “gravi incongruenze”.

7.4 La sintetica ma chiara affermazione delle Sezioni Unite trova ampio riscontro nella stessa giurisprudenza costituzionale.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, le presunzioni legali sono costituzionalmente legittime in quanto si fondino sull’id quod plerumque accidit, ossia in ciò che, secondo le regole d’esperienza, avviene nella normalità o generalità dei casi (v., tra le tante, Corte cost. n. 228 del 2014 sull’art. 32, primo comma, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 con riguardo ai prelievi bancari dei lavoratori autonomi; Corte cost. n. 120 del 2020 in tema agevolazione tributaria sull’imposta di successione a favore dei soli figli e non del coniuge con riguardo al passaggio generazionale dell’azienda; Corte cost. n. 15 del 2021 in tema di presunzione a favore del più anziano dei figli nella successione nei masi chiusi).

Orbene, gli studi di settore, come pacificamente riconosciuto, non sono null’altro che una elaborazione statistica rispetto alla quale – come per qualsiasi parametro statistico – è fisiologico, proprio secondo le normali regole di esperienza, uno scostamento tra dati effettivi e coefficienti presuntivi.

Ne deriva che considerare, come elemento in grado di attivare un accertamento, un qualsiasi scostamento equivarrebbe imporre una regola in contrasto con le stesse regole d’esperienza e, in conclusione, come precisato dalle Sezioni Unite, trasformare gli studi di settore da «mezzi di accertamento in mezzo di determinazione del reddito».

8. Una attenta analisi dei complessivi interventi del legislatore, in ispecie del 2006, e dei dati normativi coinvolti, peraltro, dà pieno riscontro all’autorevole esegesi operata dalle Sezioni Unite.

8.1 Nell’ambito soggettivo originario di applicazione degli studi di settore – ossia, quello introdotto con il testo dell’art. 10 della legge n. 146 del 1998 – erano comprese:

  • le imprese in regime di contabilità semplificata (art. 10, comma 1);
  • le imprese in regime di contabilità ordinaria per opzione e gli esercenti le arti e le professioni: per queste categorie, peraltro, erano previste modalità applicative differenti (ossia, solo se i risultati erano non congrui per due annualità su tre consecutive) (art. 10, commi 2 e 3);
  • le imprese in regime di contabilità ordinaria per obbligo, infine, erano soggette all’applicazione degli studi di settori nel caso in cui la contabilità fosse risultata inattendibile (art. 10, commi 2 e 3).

8.2 L’art. 1, comma 409, legge n. 311 del 2004 (Finanziaria per l’anno 2005), peraltro, unificò (con decorrenza dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2004) il trattamento dei soggetti in contabilità per opzione e per obbligo, cui venne estesa l’applicazione generalizzata della ricostruzione reddituale sugli studi di settore secondo la regola, su evidenziata, del “due su tre”, salva la possibilità di farvi ugualmente ricorso, anche per la singola annualità, in relazione a situazioni di significativa incoerenza rispetto ad appositi indici di natura economica, finanziaria, patrimoniale, individuati con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, sentito il parere della Commissione di esperti (art. 10, comma 2).

8.3 Su questo assetto intervenne il legislatore del 2006.

In particolare, con l’art. 37, comma 2, lett. a), d.l. n. 223 del 2006, vennero abrogati i commi 2 e 3 dell’art. 10 della legge n. 146 del 1998, cui era espressamente collegata l’applicazione degli studi di settore per le imprese in contabilità ordinaria e che prevedevano, come rilevato, le specifiche modalità di impiego dello strumento.

Per effetto di questo intervento l’accertamento mediante studi di settore venne generalizzato ad ogni ipotesi di impresa in contabilità ordinaria e, anzi, ad ogni tipo di contabilità adottato, anche a prescindere dal riscontro di una pluralità di periodi d’imposta (secondo la regola del “2 su 3”) restando sufficiente lo scostamento anche per un singolo periodo d’imposta.

Le originarie previsioni di cui ai commi 2 e 3 – nella formulazione anteriore abrogata – disponevano:

«2. Nei confronti degli esercenti attività d’impresa in regime di contabilità ordinaria, anche per effetto di opzione, e degli esercenti arti e professioni, la disposizione del comma 1 trova applicazione quando in almeno due periodi d’imposta su tre consecutivi considerati, compreso quello da accertare, l’ammontare dei compensi o dei ricavi determinabili sulla base degli studi di settore risulta superiore all’ammontare dei compensi o ricavi dichiarati con riferimento agli stessi periodi di imposta. La disposizione del comma 1 trova applicazione in ogni caso nei confronti degli esercenti attività d’impresa in regime di contabilità ordinaria, anche per effetto di opzione, quando emergono significative situazioni di incoerenza rispetto ad indici di natura economica, finanziaria o patrimoniale, individuati con apposito provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate, sentito il parere della commissione di esperti di cui al comma 7»

«3. Indipendentemente da quanto previsto al comma 2, nei confronti dei contribuenti in regime di contabilità ordinaria, anche per effetto di opzione, l’ufficio procede ai sensi del comma 1 quando dal verbale di ispezione, redatto ai sensi dell’articolo 33 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, risulta motivata l’inattendibilità della contabilità ordinaria in presenza di gravi contraddizioni o l’irregolarità delle scritture obbligatorie ovvero tra esse e i dati e gli elementi direttamente rilevati in base ai criteri stabiliti con il decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1996, n. 570»

A fronte della soppressione di queste norme, tuttavia, era rimasto immutato il comma 1 dell’art. 10, che continuava a far generico riferimento ai «contribuenti con periodo d’imposta pari a dodici mesi» (e, dunque, apparentemente ai soli soggetti determinati in relazione all’art. 18 d.P.R. n. 600 del 1973), formulazione non più coerente con il nuovo assetto.

Va sottolineato, sul punto, che le lett. b) e c) del medesimo art. 37, comma 2, d.l. n. 223 del 2006, avevano altresì rettificato i commi 3 bis e 4 dell’art. 10 – univocamente riferibili alle ipotesi di imprese in contabilità ordinaria e agli altri soggetti ivi considerati – eliminando i riferimenti ai commi 2 e 3 (abrogati) e sostituendoli con il rinvio al comma 1 della stessa norma.

8.4 La discrasia, o comunque il carente coordinamento del testo normativo in dipendenza delle abrogazioni operate, trovava di lì a breve la necessaria composizione con l’art. 1, comma 23, della legge n. 296 del 2006, che, infatti, eliminava la locuzione «con periodo d’imposta pari a dodici mesi» e riproduceva il riferimento, generale, allo scostamento in relazione agli studi di settore già presente nelle norme abrogate, sicché la locuzione contenuta nella norma diveniva quella, nota, «sono effettuati nei confronti dei contribuenti con le modalità di cui al presente articolo qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi».

8.5 In altri termini, la diversità di formulazione dell’art. 10, comma 1, cit. derivante dalla modifica di cui alla legge n. 296 del 2006, non individuava un diverso tessuto normativo, né evocava una autonoma determinazione dei presupposti per l’applicazione degli studi di settore ma assolveva solo ad esigenze di coordinamento, di semplificazione e di sintesi in dipendenza del nuovo contesto di riferimento, immutata la regolamentazione sostanziale di cui all’art. 62-sexies del l. n. 331 del 1993.

8.6 Non a caso, del resto, la stessa Agenzia delle entrate, nella immediatezza delle novelle del 2006, con la circolare n. 11/E del 16 febbraio 2007 aveva affermato che la modifica dell’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998, operata dall’art. 1, comma 23, lett. b), della l. n. 296 del 2006 non aveva in nulla mutato la portata della disciplina e la valenza probatoria degli studi di settore, assumendo valore l’intervento in funzione di coordinamento normativo (“La modifica normativa relativa all’articolo 10, comma 1, della legge n. 146 del 1998, prevista dall’art. 1, comma 23, lett. b), della legge finanziaria 2007 è correlata alla abrogazione, effettuata ad opera del decreto legge n. 223 del 2006, del comma 2 del citato articolo 10 e ribadisce, ancora una volta, la valenza probatoria degli studi di settore quale presunzione relativa, dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza”).

9. Le conclusioni raggiunte trovano ulteriore riscontro in una prospettiva di sistema nel quadro delle metodologie di accertamento esperibili dall’Ufficio.

9.1 Come è noto, il legislatore ha introdotto, nel tempo, una molteplicità di procedure di accertamento, che vanno, tra l’altro, dalle procedure di accertamento formale automatizzate (artt. 36 bis e 36 ter d.P.R. n. 600 del 1973; artt. 54 bis e ss d.P.R. n. 633 del 1972), all’accertamento sintetico, all’accertamento analitico (contabile, analitico-induttivo e induttivo puro o extracontabile), all’accertamento mediante gli studi di settore.

Ogni metodologia si fonda su presupposti specifici individuati dalla legge in relazione alla variabilità delle situazioni e la cui sussistenza assicura la legittimità dell’accertamento.

L’accertamento analitico (contabile per le imprese) investe, in termini appunto analitici, la generalità delle voci attive e passive dichiarate dal contribuente e, quindi, rinviene nelle stesse modalità di esperimento la sua legittimazione formale.

Negli altri casi, invece, la ricorrenza di particolari condizioni (es. l’omessa presentazione della dichiarazione per l’accertamento induttivo cd. puro) giustifica e legittima l’avvio della procedura di accertamento.

9.2 Alcune tipologie di accertamento traggono i loro presupposti di attivazione da una base statistica e presuntiva.

L’accertamento sintetico per le persone fisiche (art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973), in particolare, può anche essere fondato «sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza» sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali (di volta in volta vigenti) (cd. redditometro).

Tuttavia, la determinazione sintetica del reddito è consentita purché il reddito complessivo accertabile ecceda rispetto a quello dichiarato – ai sensi dell’art. 38, sesto comma, d.P.R. n. 600 del 1973 come riformulato dall’art. 22, comma 1, d.l. n. 78 del 2010 – di almeno un quinto (anteriormente era previsto il limite di un quarto).

Tale scelta si fonda sull’evidente ragione che, proprio in relazione alla genesi probabilistica della ripresa (e salva, successivamente al 2010, l’attivazione del contraddittorio ex art. 38, settimo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, introdotto dall’art. 22, comma 1, d.l. n. 78 del 2010), è necessario che lo scostamento si ponga al di sopra di una determinata soglia.

In mancanza di questo divario, dunque, resta esclusa la possibilità di un accertamento sintetico, ferma la possibilità per l’Amministrazione di operare con altri strumenti.

L’accertamento in base agli studi di settore costituisce, a sua volta, come evidenziato, un metodo di accertamento extracontabile che si fonda sul calcolo dei ricavi presunti dall’impresa in base alla probabilità statistica   in   relazione  ad   una  pluralità   di parametri qualitativi, quantitativi e territoriali, ossia su un metodo statistico e informatizzato. Il presupposto del “grave scostamento”, previsto dall’art. 62 sexies d.l. n. 331 del 1993, assolve, allora, alla stessa funzione poiché individua l’originario presupposto impositivo, al di sotto del quale, il metodo non è applicabile e l’avviso è invalidamente emesso, ferma, anche qui, la possibilità per l’Amministrazione finanziaria del ricorso, in tali situazioni, ad ulteriori strumenti di accertamento.

Ne deriva, allora, che ritenere che un qualsiasi scostamento sia idoneo a legittimare l’avvio e l’emissione di un accertamento su studi di settore significa introdurre una criticità strutturale di sistema, sì da far ritenere una simile opzione interpretativa – anche sotto questo versante – irragionevole.

9.3 È opportuno precisare, per completezza, che l’accostamento tra le due ipotesi ora considerate non deve far trascurare le rilevanti differenze esistenti tra di esse, di impatto significativo rispetto alla fattispecie normativa qui in esame.

Nel primo caso (accertamento sintetico), infatti, il legislatore ha cristallizzato, in termini rigidi, l’entità dello scostamento che consente il ricorso alla procedura.

Nel secondo (accertamento su studi di settore), il legislatore ha invece introdotto una clausola generale, caratterizzata da margini di variabilità, sicché la locuzione “gravi incongruenze”, il cui apprezzamento in fatto è riservato al giudice di merito, ancorché ancorata ad un divario necessariamente di carattere quantitativo tra dichiarato e accertato, non si traduce, in via automatica, nella determinazione di una percentuale di scostamento fissa e predeterminata, neppure all’interno di un qualche range, non previsto dalla disciplina.

  1. Va quindi affermato il seguente principio di diritto:

«in tema di accertamento basato su studi di settore, il requisito della “grave incongruenza” di cui all’art. 62-sexies, comma 3, d.l. n. 331 del 1993, conv. con mod. dalla l. n. 427 del 1993, costituisce presupposto impositivo necessario per gli avvisi di accertamento su di essi fondati, senza che assuma rilievo, per gli avvisi notificati successivamente al 1° gennaio 2007, la modifica dell’art. 10, comma 1, l. n. 146 del 1998 operata con l’art. 1, comma 23, l. n. 296 del 2006, in quanto priva di portata innovativa e diretta ad assicurare, secondo una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, una funzione di mera semplificazione e coordinamento normativo attesa l’abrogazione dei commi 2 e 3 del medesimo art. 10, ad opera dell’art. 37, comma 2, lett. b, d.l. n. 226 del 2006, e l’estensione della tipologia di accertamento a prescindere dalla contabilità adottata»

11. Orbene, alla luce dei principi affermati, è fondata la denuncia di falsa applicazione della disciplina degli studi di settore.

Nella vicenda in esame, infatti, la CTR si è limitata ad affermare che «il fatturato degli anni 2002, 2003 e 2004 dichiarato dalla società Contribuente è risultato sempre inferiore a quello derivante dall’applicazione degli studi di settore».

Ha, invece, omesso di valutare, come previsto dalla disciplina in questione, se, a fronte della tempestiva e originaria contestazione del ricorrente, lo scostamento integrasse o meno il presupposto delle “gravi incongruenze”, in assenza del quale l’accertamento con le modalità prescelte non poteva validamente essere effettuato.

12. In accoglimento del terzo motivo di ricorso, infondati il primo e il secondo, la sentenza va pertanto cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR competente in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame con l’osservanza dei principi di cui in motivazione.

P.Q.M.

La Corte, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, infondati il primo e il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Sicilia in diversa composizione.