Corte di Cassazione ordinanza n. 21507 del 7 luglio 2022
legittimazione attiva del fallito – legittimazione processuale dell’azienda fallita – presupposti per l’esenzione contributiva prevista in favore delle associazioni sportive dilettantistiche
Rilevato
che in via del tutto preliminare va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per intervenuto passaggio in giudicato interno sul capo della sentenza di primo grado, in ordine al quale l’Ufficio finanziario avrebbe prestato acquiescenza (cfr. controricorso, pp. 11-12). Detta eccezione, infatti, difetta di specificità (cfr. l’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ.) non essendo riprodotto in ricorso il contenuto della decisione di primo grado né, tantomeno, i motivi di gravame dedotti dall’Ufficio, restando perciò precluso qualunque vaglio in ordine alla fondatezza – o meno – del rilievo;
che con il primo motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) della violazione dell’art 43 della l. fall., per non avere la C.T.R. dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio di prime cure, nonostante il difetto di legittimazione attiva del GAVAZZI, quale legale rappresentante dell’ente fallito;
che il motivo è manifestamente infondato, sia pur dovendosi emendare la motivazione della decisione impugnata nei termini che seguono;
che la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, effettivamente comporta la perdita della capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore; a questa regola, enunciata dall’art. 43 della f. fall. (“nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore”), fanno eccezione soltanto (1) l’ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali e (2) quella in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 1, 14.5.2012, n. 7448; Cass. 14.10.1998, n. 10146);
che, con particolare riferimento a tale ultima ipotesi, la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte ritiene che, ai fini del riconoscimento di tale legittimazione, avente carattere straordinario o suppletivo, non è tuttavia sufficiente che la curatela si sia astenuta da iniziative processuali, quali la proposizione della domanda o l’impugnazione di sentenze che abbiano determinato la soccombenza del fallito occorrendo, piuttosto, che essa si sia totalmente disinteressata della vicenda processuale, rimettendone esplicitamente o implicitamente la gestione al fallito: sicché, la legittimazione di quest’ultimo dev’essere esclusa ove l’inerzia degli organi fallimentari costituisca invece il risultato di una valutazione negativa in ordine alla convenienza della controversia (cfr. Cass., Sez. 2, 17.6.2010, n. 14624, Rv. 613703-01; Cass., Sez. L., 6.6.2017, n. 13991, Rv. 644537-01);
che, tuttavia, in proposito è stato ulteriormente chiarito che la perdita della capacità processuale del fallito, conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, mentre, ove la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto dedotto in lite, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio (Cass., Sez. L, 6.6.2017, n. 13991, Rv. 644537-01);
che, applicando i menzionati principi alla fattispecie in esame, rileva il Collegio che, essendo l’azione proposta diretta a contestare l’avviso di accertamento con cui l’Amministrazione aveva proceduto al recupero di I.R.E.S. ed I.R.A.P. per l’anno di imposta 2011/2012 e non già a tutelare, dunque, beni acquisiti al fallimento, la relativa eccezione poteva essere sollevata (ciò che non è avvenuto) unicamente dal curatore;
che con il secondo motivo parte corrente lamenta (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell’art 148 T.U.I.R., dell’art 74 del d.P.R. n. 633 del 1972, della I. n. 398 del 1991, dell’art 9 del d.P.R. n. 544 del 1999, nonché dell’art 2697 cod. civ., per avere la C.T.R. erroneamente ritenuto sussistenti, nella specie, gli estremi per l’applicazione dell’esenzione contributiva prevista in favore della associazioni sportive dilettantistiche, nonostante la mancanza di prova – gravante sul contribuente – in ordine al rispetto degli adempimenti documentali e dichiarativi prescritti dalla richiamata normativa per usufruire di detto regime agevolato;
che il motivo è manifestamente fondato;
che l’esenzione contributiva prevista in favore delle associazioni sportive dilettantistiche dipende non solo dall’elemento formale della veste giuridica assunta, ma anche dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sull’interessato e non può ritenersi soddisfatto dal dato, del tutto estrinseco e neutrale, del riconoscimento da parte del C.O.N.I. (Cass. Sez. L, 30.4.2019, n. 11492, Rv. 653745-01), mentre rileva, al contrario, che le associazioni interessate si conformino alle clausole relative al rapporto associativo, che devono essere inserite nell’atto costitutivo o nello statuto (Cass., Sez. 5, 12.12.2018, n. 32119, Rv. 651781-01);
che, a tale riguardo è stato chiarito che, ai fini della qualifica di ente quale non commerciale rileva l’esercizio, in via prevalente, di attività rese in conformità ai fini statutari non rientranti nelle fattispecie di cui all’art. 2195 cod. civ., svolte in mancanza di specifica organizzazione e verso il pagamento di corrispettivi non eccedenti costi di diretta imputazione, con la conseguenza che va disconosciuto il regime di favore previsto dal d.P.R. n. 917 del 1986, art. 143 (già 108), per carenza di detti requisiti di “decommercializzazione”, in caso di distribuzione degli utili, omessa compilazione del libro dei soci e mancata partecipazione degli associati alla vita dell’ente (Cass., Sez. 5, 26.9.2018, n. 22939, Rv. 650791-01);
che, in particolare, l’attività di gestione di un bar-ristoro da parte di un ente non lucrativo può essere qualificata come “non commerciale”, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972) e di quella sui redditi (art. 111 del d.P.R. n. 917 del 1986, oggi trasfuso nell’art. 148 dello stesso decreto) solo se la suddetta attività sia strumentale rispetto ai fini istituzionali dell’ente e sia svolta esclusivamente in favore degli associati (Cass., Sez. 5, 13.6.2018, n. 15474, Rv. 649187-01);
che il mancato riconoscimento della qualità di ente non commerciale dipende, dunque, secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato di questa Corte, dal fatto che l’ente, sin dall’origine, non aveva una siffatta qualità ovvero, nel corso della sua vita, la ha persa, ai sensi del successivo art. 111 bis, in conseguenza dell’esercizio prevalente di attività commerciale per un intero periodo d’imposta; ciò che appare, peraltro, del tutto in linea anche con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, da ultimo con sentenza n. C- 448/18, in conformità con le precedenti sentenze del 21 febbraio 2013, Zamberk, C-18/12, punto 17, del 21 marzo 2002, Kennemer Golf C-174/00, punti da 26 a 28, ha ritenuto che la Dir. n. 2006/112/CE, art. 132, paragrafo 1, lett. m), deve essere interpretato nel senso la nozione di “organismo senza fini di lucro” in virtù di tale disposizione costituisce una nozione autonoma del diritto dell’Unione, la quale esige che la qualificazione di organismo senza finalità di lucro ai sensi di tale disposizione dev’essere effettuata con riferimento allo scopo da esso perseguito e cioè che tale organismo non deve mirare a produrre profitti per i membri, contrariamente alla finalità di una impresa commerciale, nel senso che (stessa Dir. IVA, art. 133, comma 1, lett. a), l’assenza di fini di lucro di tali organismi, con riferimento alla esenzione di prestazioni connesse con l’attività dello sport, presuppone che questi ultimi per tutta la loro esistenza ed anche al momento del loro scioglimento debbano astenersi dal generare profitti per i loro membri;
che la C.T.R. non si è conformata ai suddetti principi laddove, da un lato, effettivamente non ha spiegato perché i proventi della contribuente derivassero da un’attività funzionale all’attività istituzionale dell’associazione e dall’altro, e soprattutto, per avere gravato l’ufficio di un onere probatorio (i.e., lo svolgimento da parte del contribuente di attività senza fine di lucro) che, al contrario e per quanto già esposto supra, incombeva sul contribuente medesimo, anche in considerazione del più generale principio della vicinanza della prova;
Ritenuto, in conclusione che, rigettato il primo motivo di ricorso, il secondo debba essere, al contrario, accolto, con la conseguente cassazione della decisione impugnata e rinvio alla C.T.R. della Liguria, in diversa composizione, affinché riesamini la vicenda attenendosi ai principi che precedono e liquidi, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità;
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed accoglie il secondo motivo di ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla C.T.R. della Liguria, in diversa composizione, cui demanda, altresì, la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
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