Corte di Cassazione ordinanza n. 21646 depositata il 7 luglio 2022
modifica in diminuzione dell’originario avviso – presunzione legale posta dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo – vizio di motivazione
Rilevato che:
1. Il 30 novembre 2011 l’Agenzia delle entrate notificò a G.G. l’avviso di accertamento n. TYX01303969 con il quale ― premessa l’effettuazione di accertamenti bancari sui rapporti dei quali egli era titolare, donde erano emerse operazioni non giustificate ― ne rettificava il reddito ai fini IRPEF e IRAP per l’anno 2007.
2. La C.T.P. di Messina, innanzi alla quale il contribuente aveva impugnato l’atto impositivo, rideterminò in difetto la pretesa erariale, sul presupposto dell’intervenuta parziale revoca in autotutela dell’avviso di accertamento con atto non tempestivamente impugnato dal contribuente dopo la sua notifica, avvenuta il 18 maggio 2012, alcuni giorni dopo l’introduzione del giudizio.
3. L’appello proposto dal Giuffrè fu respinto dalla T.R. della Sicilia- sezione staccata di Messina.
I giudici d’appello rilevarono, anzitutto, che in forza della previsione di cui all’art. 32 d.P.R. 29/09/1973, n. 600, i prelievi e i versamenti in conto corrente operati dal contribuente vanno imputati a ricavi e compensi conseguiti dal medesimo nella sua attività di lavoratore autonomo, salva la prova, da parte di quest’ultimo, che si tratti di importi considerati nella determinazione del reddito imponibile, ovvero estranei alla produzione del reddito. Nella specie, il contribuente ― che svolgeva l’attività di medico in regime libero-professionale ― non aveva assolto al proprio onere probatorio.
In ogni caso, osservarono che l’atto impositivo emesso in regime di autotutela parziale non era stato impugnato dal contribuente.
3. Avverso detta sentenza G.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria. L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso.
Considerato che:
1. Con il primo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla loro applicazione in presenza della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità”, il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha fatto applicazione della presunzione di cui all’art. 32, primo comma, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600/1973 (nel testo modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a, num. 1, della l. 31/12/2004, n. 311), quantunque dichiarato illegittimo dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 6 ottobre 2014.
Detta ultima pronuncia, in particolare, aveva ritenuto illegittima, per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., l’estensione della presunzione di imponibilità delle operazioni bancarie, sancita dalla norma de qua, anche ai compensi dei professionisti.
2. Il secondo motivo denunzia “violazione a falsa applicazione di norme di diritto e nullità della sentenza per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.
Con tale, articolata censura il ricorrente si duole del fatto che la C.T.R. abbia ritenuto definitivo, per mancata impugnazione, l’atto emesso dall’amministrazione in autotutela, del quale aveva ricevuto la notifica in pendenza del ricorso avverso l’originario avviso di accertamento.
Rileva, in proposito, che siffatta decisione riposa su basi argomentative contraddittorie, costituite dal richiamo ad una pronunzia di questa Corte (la sentenza n. 12523/2013) dal contenuto opposto alla statuizione adottata; vi si afferma, infatti, che «la modificazione in diminuzione di un originario accertamento non integra di per sé una pretesa tributaria “nuova” rispetto a quella precedente […] si discute pur sempre della obbligazione tributaria fin dall’inizio avanzata […] soltanto l’integrazione o la modificazione in aumento, rispetto all’accertamento originario, integra una pretesa giuridicamente nuova».
Osserva, conclusivamente, che proprio per le riportate indicazioni giurisprudenziali la C.T.R. avrebbe dovuto escludere l’autonoma impugnabilità dell’avviso emesso in autotutela.
3. Infine, con il terzo motivo, il ricorrente deduce “illegittimità della sentenza per omesso esame delle domande formulate circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, assumendo che i giudici d’appello avrebbero comunque omesso di pronunziarsi sulle sue domande.
4. I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente, presentandosi come connessi in ragione delle difese svolte dall’Agenzia controricorrente.
Quest’ultima, infatti, deduce l’inapplicabilità al caso di specie degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600/1973; rileva, in proposito, che tali effetti operano ex tunc, ma lasciano impregiudicati i rapporti esauriti, con il che non dovrebbe ritenersi scalfito il giudicato formatosi sull’atto emesso in parziale autotutela, mai impugnato dal contribuente.
Sotto altro profilo, peraltro, l’Amministrazione deduce che il contribuente non ha mai espressamente contestato la conformità a costituzione della presunzione di imponibilità dei versamenti e dei prelievi oggetto di accertamento sotto il profilo della relativa qualifica come «compensi», con conseguente preclusione del suo diritto ad invocare, nella presente fase di legittimità, gli effetti del decisum costituzionale.
4.1 Tali eccezioni sono prive di pregio, risultando, per contro, fondati entrambi i motivi.
In ordine alla necessità di autonoma impugnazione dell’atto di revoca parziale in autotutela, la sentenza impugnata appare sorretta da motivazione contraddittoria.
Sul punto, infatti, la C.T.R. si è limitata a richiamare un precedente di questa Corte, che, tuttavia, si conforma al consolidato orientamento esistente al riguardo (si vedano, per tutte, Cass. n. 18625/2020; Cass. n. 11699/2016), nel senso di ritenere che la modifica in diminuzione dell’originario avviso non esprima una nuova pretesa tributaria, ma una riduzione di quella originaria, sì da non costituire un nuovo atto, ma la revoca parziale di quello precedente. Logico corollario di tale impostazione è la permanenza, in sede processuale, dell’interesse della pubblica amministrazione a veder riconosciuto il proprio credito tributario e di quello del contribuente a negare la pretesa.
È dunque fondata la deduzione di nullità della sentenza svolta con il secondo motivo di ricorso; ne consegue, ulteriormente, l’impossibilità di ritenere cristallizzato l’atto emesso in autotutela sul presupposto della sua mancata impugnazione, e ciò ad ogni possibile effetto, ivi compreso quello idoneo a far considerare esaurito il corrispondente rapporto processuale.
4.2 Ciò posto, l’ulteriore ratio decidendi sulla quale si fonda la sentenza impugnata, ovvero l’applicabilità al caso di specie della presunzione legale di imponibilità posta dall’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, non tiene conto del fatto che all’esito della sentenza della Corte costituzionale 228 del 2014 (pubblicata in data anteriore al deposito della pronunzia d’appello) è venuta meno l’equiparazione tra attività imprenditoriale e professionale, ancorché limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti.
Degli effetti di tale pronunzia sulla pretesa erariale oggetto di causa, fondata sull’accertamento di versamenti e prelievi effettuati dal contribuente sui conti correnti di propria pertinenza, avrebbe dovuto perciò tener conto il giudice d’appello, il quale li ha invece del tutto trascurati.
Né appare sostenibile quanto asserito dall’amministrazione in punto alla sostanziale acquiescenza che il contribuente avrebbe prestato alla possibile incompatibilità della presunzione con i principi costituzionali in materia tributaria; l’effetto abrogativo della declaratoria di illegittimità costituzionale sfugge infatti, com’è noto, a qualsiasi applicazione del principio dispositivo.
Sul punto, vale la pena ribadire il seguente principio di diritto, richiamando quanto da questa Corte già affermato, fra le altre, con la sentenza n. 16697/2016: «In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti».
5. È invece infondato il terzo motivo.
Ed infatti, in disparte ogni considerazione circa la genericità e la scarsa chiarezza che ne contraddistinguono la formulazione ― giacché il ricorrente sembra dolersi tanto di un vizio di omessa pronunzia, quanto di uno riconducibile all’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ.― basti qui osservare che la censura si sostanzia nella denunzia del fatto che la sentenza d’appello non avrebbe esplicitamente statuito sulle conclusioni partitamente formulate dal contribuente nel giudizio.
Al riguardo, tuttavia, va osservato che, in ordine alle questioni attinenti profili preliminari (la motivazione dell’atto impositivo, l’articolarsi del relativo procedimento di formazione), la mancata adozione di una statuizione specifica non conduce a ritenere sussistente un vizio di motivazione laddove la decisione adottata ne comporti comunque una implicita di rigetto (ex multis, Cass. n. 1855/2020; Cass. n. 20718/2018; Cass. n. 29191/2017); e ciò è quanto accaduto nel caso di specie, poiché il giudice d’appello ha proceduto alla valutazione nel merito della pretesa erariale, in termini non compatibili con l’accoglimento dei pregiudiziali rilievi sulla legittimità formale dell’atto impositivo e del relativo procedimento di formazione.
Sulle questioni attinenti al merito della pretesa e alle spese, poi, la sentenza contiene una statuizione esplicita.
6. In conclusione, vanno accolti i primi due motivi di ricorso, con rigetto del terzo, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice a quo, il quale, in diversa composizione, deciderà conformandosi all’indicato principio di diritto e liquidando le spese della presente fase di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, respinge il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia- sezione staccata di Messina, in diversa composizione, anche per le spese.
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