Corte di Cassazione ordinanza n. 22048 depositata il 12 luglio 2022

i motivi devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata

RILEVATO CHE:

1. la Corte d’appello di Genova, con la sentenza n. 147 del 6 aprile 2016, ha accolto parzialmente il reclamo principale proposto ex art. 1 comma 58 legge n. 92/2012 da Alessandro Franco e, respinto quello incidentale dell’INPS, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Roma, salvo che per la regolamentazione delle spese di lite che ha posto per metà a carico dell’Istituto (con compensazione della metà residua);

2. il Tribunale della stessa sede, dopo avere disatteso la domanda del Franco – assunto come dirigente all’esito di procedura di selezione indetta ex 29, comma 3, del Regolamento di organizzazione dell’Istituto – volta alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, aveva ritenuto tuttavia illegittimi i rinnovi, ex art. 16, comma 6, d.lgs. n. 165/2001 (in seguito anche TUPI), dei contratti a tempo determinato successivi al primo (del 8.5.2001 con scadenza 3.6.2006), e per l’effetto condannato l’Inps al ristoro del danno quantificato (per complessivi €. 140.928,00) a norma dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 e cioè in misura pari a n. 12 mensilità di retribuzione;

3. in sintonia con il dictum di primo grado, la Corte distrettuale ha rilevato che l’art. 16 comma 6, cit., prevede una durata massima del rapporto a termine di cinque anni non prorogabile a sensi del comma 2, stesso articolo –disposizione, quest’ultima, secondo la Corte genovese, non applicabile agli incarichi esterni e incongruamente richiamata dall’Inps al fine di giustificare i rinnovi contrattuali de quibus in conformità con l’art. 29, comma 6, del Regolamento di Organizzazione dell’Istituto;

la Corte di merito ha altresì osservato che il termine di durata massimo di cinque anni sarebbe imposto alla stregua della normativa nazionale: il comma 2 farebbe riferimento, infatti, al solo personale di ruolo, mentre il comma 6 riguarderebbe esclusivamente il personale esterno, donde il conseguenziale rilievo secondo cui la durata quinquennale, ivi fissata, non sarebbe derogabile né dall’art. 110, comma 3, del TUPI né, a fortiori, da una norma secondaria qual era il Regolamento di organizzazione dell’Istituto;

sempre la Corte distrettuale ha ritenuto, con ulteriore passaggio argomentativo, che tale interpretazione fosse la sola compatibile con la disciplina europea – segnatamente con la direttiva 1999/70/CE– la quale ultima, nell’imporre misure idonee a prevenire gli abusi dei contratti a termine, aveva indotto il legislatore a fissare il tetto dei cinque anni quale strumento, appunto, attuativo della direttiva in menzione;

dal che conseguiva l’illegittimità dei contratti intercorsi con il Franco dopo il 4.6.2006 (data di scadenza del primo contratto quinquennale) nonché l’applicabilità dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 cit.;

talché, ferma la non convertibilità del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, operava la sanzione dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 (qui comminata nella misura massima di n. 12 mensilità stante il prolungamento per oltre dodici anni del rapporto in parola);

4. per la cassazione della sentenza di appello ricorre l’Inps prospettando un solo motivo di impugnazione, cui resiste il Franco con controricorso illustrato con memoria.

CONSIDERATO CHE:

1. con unico motivo l’Inps denuncia (in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) violazione e falsa applicazione dell’art. 19, comma 6, nonché degli artt. 27 – riguardo alla legittimità della normativa interna adottata dall’Istituto in ossequio alla citata disposizione di legge– e 36 del d.lgs. n. 165/2001 – in merito alle sanzioni da applicare in caso di abusivo utilizzo di contratti di lavoro flessibile –, nonché dell’art. 10 d.lgs. n. 368/2001 e dell’art. 12 Preleggi, per avere la decisione impugnata statuito il riconoscimento dell’indennità prevista dall’art. 32 legge n. 183/2010 sull’assunto (erroneo) dell’illegittimità della reiterazione dei contratti a tempo determinato intercorsi con il Franco e aventi ad oggetto il conferimento di incarichi dirigenziali non di ruolo;

incentra essenzialmente le doglianze sulla «legittimità o meno dei rinnovi degli incarichi dirigenziali a sensi dell’art. 19, comma 6, cit.», disposizione (quest’ultima) male interpretata dal giudice d’appello che non si sarebbe avveduto che essa integra «un sistema normativo speciale», con la conseguenza che le previsioni di primi cinque commi (ivi compreso il comma 2 sulla facoltà di rinnovo contrattuale) si applicherebbero a ogni tipologia di incarico dirigenziale, come meglio precisato nel Regolamento di Organizzazione dell’Istituto, articolo 29 comma 6, adottato in ossequio all’art. 27 del TUPI;

2. il motivo è inammissibile per carenza del requisito di specificità;

nel giudizio di cassazione, a critica vincolata, i motivi devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, sicché la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., e determina di riflesso l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007);

com’è agevole constatare, la Corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione – in realtà non sorretta, contrariamente a quanto opina la difesa del Franco, da due distinte rationes decidendi propriamente dette – il profilo legato all’interpretazione letterale dell’art. 19, comma 6, cit., e quello inerente al suo ambito applicativo, ed ha ritenuto che il comma in menzione, riferito all’attribuzione degli incarichi dirigenziali a personale esterno all’amministrazione, fosse inderogabile quanto alla durata quinquennale ivi prevista;

al contempo ha evidenziato, in altro passaggio della motivazione, come l’esegesi prescelta fosse (a ben vedere) l’unica consentita, perché era la sola in sintonia con la normativa europea, la quale orientava univocamente nel senso della improrogabilità del termine quinquennale, pena, in difetto, il conflitto con la direttiva 1999/70/CE dianzi richiamata;

orbene, l’Inps si è limitato a impugnare il primo passaggio della motivazione, relativo all’esegesi dell’art. 19, comma 6, cit., ma non ha in alcun modo confutato l’ulteriore e dirimente argomento del giudice d’appello (peraltro in sé esatto) secondo cui l’interpretazione propugnata dall’Inps è da escludere siccome in conflitto con la disciplina comunitaria;

tanto basta per la declaratoria di inammissibilità del ricorso; le spese, nella misura liquidata in dispositivo, seguono la soccombenza;

3. ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass., S.U., n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro €. 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori antistatari avv.ti Bomboi Savina, Califano Agostino e Cossu Bruno.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.