Corte di Cassazione ordinanza n. 22303 depositata il 15 luglio 2022

IVA – mandato senza rappresentante – prestazioni di servizi – natura commerciale di compra-vendita di certificati di deposito – cosa giudicata e diritto Unionale

Fatti di causa

Emerge dalla narrativa della sentenza impugnata e dagli atti di causa che la s.p.a. Banca XX sottoscrisse certificati di deposito emessi sul mercato londinese e li cedette nello stesso giorno alla propria controllante L.F.B., operatore extra UE.

Le cessioni erano regolate mediante rapporto di conto corrente in valuta estera, che la L.F.B. intratteneva presso la XX, la quale, alla scadenza dei titoli, ne accreditava sul conto il valore nominale, maggiorato degli interessi con la valuta prestabilita, al netto della propria commissione d’intermediazione, pari allo 0,01%, e contestualmente, riaddebitava il medesimo valore, al fine di acquistare altro certificato ..

Secondo l’Agenzia ciascuna operazione era oggetto di un mandato, conferito a XX dalla controllante.

Tale mandato, a giudizio dell’Ufficio, era esclusivamente volto a far rientrare l’operazione nel volume di affari della mandataria, in quanto non imponibile, a norma dell’art. 9, comma 1, n. 12, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

L’aumento, per quanto artificioso, del volume di affari avrebbe determinato l’incremento -notevole- della percentuale di detrazione dell’iva, cui sarebbe conseguita la possibilità di XX di detrarre pressoché la totalità dell’iva assolta sugli acquisti compiuti nel periodo d’imposta in questione (il 2007).

Ne seguì un avviso di accertamento col quale l’Agenzia considerò a essa inopponibili le operazioni di cessione dei certificati di deposito, perché volte a suo avviso ad abusare della non imponibilità stabilita dall’art. 9, comma l,  n. 12, del d.P.R. n. 633/72, al fine di beneficiare del vantaggio fiscale consistente nella maggiore percentuale di detrazione dell’iva in base al calcolo annuale del pro rata. La contribuente impugnò l’avviso, senza successo in primo grado.

Anche la Commissione tributaria regionale del Lazio ha respinto il successivo appello proposto dalla XX.

A sostegno della decisione il giudice d’appello ha convenuto con l’Agenzia che le operazioni in questione costituissero esecuzione di un mandato senza rappresentanza, e non cessioni di beni effettuate nell’ambito di un’autonoma attività imprenditoriale: e ciò perché la mandante libica metteva a disposizione il danaro necessario per l’acquisto dei titoli sul mercato londinese, e la XX, nel ritrasferire i certificati di deposito alla mandante, si limitava a ribaltarne il costo di acquisto, senza assumere alcun rischio a proprio carico, e percependo soltanto una modesta provvigione.

Sicché le operazioni, ha concluso la Commissione tributaria regionale, dovevano essere ricondotte a unità, assoggettate al regime, ai fini iva, delle mere cessioni di danaro, ossia ritenute fuori campo iva (benché impropriamente si discorra in sentenza di esenzione dall’imposta, come rimarcato dalla contribuente), e, in quanto tali, non potevano essere computate ai fini della determinazione della percentuale di detrazione dell’iva sugli acquisti.

Contro questa sentenza propone ricorso la s.p.a. Banca XX per ottenerne la cassazione, che affida a quattro motivi e illustra con memoria, cui l’Agenzia replica con controricorso.

Ragioni della decisione

1.- Infondato è il secondo motivo di ricorso, di rilevanza prodromica rispetto al primo, col quale la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., dei principi di diritto dell’Unione europea concernenti il divieto di abuso di forme giuridiche in materia di applicazione dell’iva, nonché dell’art. 10-bis della I. 27 luglio 2000, n. 212, nella parte in cui il giudice d’appello ha ravvisato nella condotta di XX una fattispecie di abuso del diritto, pur in assenza del necessario requisito della natura indebita del vantaggio fiscale ricollegabile alle operazioni realizzate dalla società, benché la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta.

Al fine di escludere il carattere indebito del vanta9gio, XX ha sottolineato che le due operazioni nelle quali si scompone l’attività svolta, ossia quella di sottoscrizione e quella di cessione di certificati di deposito, hanno differente qualificazione ai fini dell’iva.

1.1.- La prima sarebbe un’operazione fuori dal campo di applicazione del tributo, perché i certificati di deposito sono titoli di credito, emessi da una banca a fronte del deposito di una somma di danaro vincolata a una scadenza prefissata.

Sicché,  a  fronte dell’art.  1834 e.e., secondo  cui  la banca acquista la proprietà del danaro presso di essa depositato, la sottoscrizione dei certificati di deposito concreta una cessione avente a oggetto danaro, che l’art. 2, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 633/72 esclude dal novero delle cessioni dei beni; d’altronde, va aggiunto, a norma dell’art. 3, comma 2, n. 3, secondo nucleo normativo, del medesimo decreto, «non sono considerati prestiti – e, quindi, prestazioni di servizi- i depositi di denaro presso aziende o istituti di credito,… anche se regolati in conto corrente» ..

1.2.- La seconda operazione, invece, ossia la cessione dei certificati di deposito, rientrerebbe, a giudizio della contribuente, nel campo di applicazione dell’imposta, perché si tratterebbe di un’operazione soggetta a iva, ma esente, a norma dell’art. 10, comma  1,  n.  1,  del  d.P.R.  n.  633/72,  relativo,  tra  l’altro,  alle « ...operazioni, compresa la negoziazione, relative a depositi di fondi, conti correnti, pagamenti, giroconti, crediti e ad assegni o altri effetti commerciali, ad eccezione del recupero di crediti … »; in ricorso s’invoca anche l’esenzione contemplata dall’art. 10, comma 1, n. 4, relativa alle « ...operazioni relative ad azioni, obbligazioni o altri titoli non rappresentativi di merci e a quote sociali, eccettuati la custodia e l’amministrazione dei titoli nonché il servizio di gestione individuale di portafogli … ».

L’operazione, inoltre, in quanto resa nei confronti di soggetti residenti fuori dalla Comunità economica europea, rientrerebbe, prosegue la società, nel novero dei «servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali», in base al testo dell’art. 9, comma 1, n. 12, del d.P.R. n. 633/72 vigente all’epoca dei fatti, che si riferisce appunto alle operazioni di cui ai numeri da 1 a 4 dell’art. 10; e, in quanto tale, sarebbe non imponibile.

Per conseguenza, prosegue la contribuente, le operazioni di cessione dei titoli hanno correttamente concorso alla determinazione della percentuale di detrazione.

2.1.- Come la ricorrente ha dedotto in memoria, al cospetto di medesime operazioni da essa compiute, questa Corte ha stabilito, in relazione ai precedenti anni d’imposta 2005-2006, che, in tema di iva, la società bancaria che, dopo aver sottoscritto certificati di deposito, li ceda alla propria controllante ricevendone commissioni estremamente basse, inidonee ad evidenziare la natura commerciale di tale operazione, svolge un’attività fuori dal campo iva, che va di conseguenza esclusa dal calcolo del “pro rata” di detrazione (Cass. nn. 21109 e 21110/20).

Queste statuizioni s’impongono con la forza del giudicato esterno nell’odierno giudizio, perché concernono la qualificazione di un rapporto a esecuzione prolungata (tra varie, Cass. nn. 31084/19 e 5939/21): si legge nella sentenza impugnata che « … l’odierna appellante aveva compiuto nel corso di vari anni, compreso il 2007, operazioni di compravendita di certificati di deposito per conto della L.F.B....», la stessa ricorrente conferma in ricorso che «Già in epoca anteriore rispetto agli anni 2000, la XX poneva in essere -in modo continuativo e nello svolgimento della propria attività caratteristica- … », le operazioni in questione, e in memoria ribadisce che i presupposti di fatto che ne hanno costituito l’oggetto sono stati i medesimi.

3.- Non è applicabile al riguardo la giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-424/19, UR), secondo la quale il diritto dell’Unione osta a che, nell’ambito di una controversia relativa all’imposta sul valore aggiunto, un giudice nazionale applichi il principio dell’autorità di cosa giudicata, qualora tale controversia non verta su un periodo d’imposta identico a quello di cui si trattava nella controversia che ha dato luogo alla decisione giurisdizionale munita di tale autorità, né abbia il medesimo oggetto di quest’ultima, e l’applicazione di tale principio costituisca un ostacolo a che tale giudice prenda in considerazione la normativa dell’Unione in materia di iva.

3.1.- Assorbente  al riguardo è il  rilievo che, a differenza dell’ipotesi esaminata dal giudice unionale, il giudicato in questione non è fondato su un’interpretazione erronea delle norme dell’Unione in materia (punto 32 della sentenza richiamata).

4.- Anzitutto, l’autorità di cosa giudicata è imperniata sulla ricostruzione della situazione di fatto compiuta dal giudice di merito, il quale ha accertato «…che la bassissima remunerazione dell’attività svolta da XX palesava l’interesse economico della sua controllante», in modo da « ...escludere la sussistenza di un’attività economica ai fini iva di commercializzazione dei titoli» (Cass. n. 21109 e 21110/20, punto 4.3). Ricostruzione pienamente confermata anche nel caso in esame, giacché, come riportato in narrativa, il giudice d’appello ha escluso lo svolgimento da parte di XX di un’autonoma attività imprenditoriale.

4.1.- Inoltre, in diritto quel giudicato si pone pienamente in linea col diritto unionale.

Sono difatti inconferenti le critiche al riguardo rivolte dalla contribuente.

Sottolinea al riguardo la ricorrente che questa Corte è chiamata a valutare «le operazioni di cessione di titoli poste in essere con continuità, da una società commerciale -nell’esercizio del proprio oggetto sociale- e previo ottenimento di una remunerazione».

Secondo la società, dunque, la giurisprudenza di questa Corte si porrebbe in frizione con quella unionale sotto due versanti:

  • per un verso, perché avrebbe trascurato che nel caso in esame, a differenza di quelli esaminati dalla Corte di giustizia richiamati nei precedenti indicati, e relativi a fattispecie particolari, in cui non si aveva riguardo a società commerciali, l’odierna ricorrente è una società commerciale, che ha per oggetto sociale giustappunto le cessioni di titoli;
  • per altro verso, perché irrilevante sarebbe l’entità della remunerazione, a fronte di recente giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-94/19, San Domenico Vetraria), che reputa irrilevante l’ammontare del controvalore.

5.- Nessuno dei due rilievi coglie nel segno.

Quanto al primo, la Corte di giustizia, sia pure in relazione all’acquisto non già di certificati di deposito, titoli di credito nominativi al portatore, ma di azioni, che pur sempre sono titoli di credito (come riconosciuto già da Cass. n. 1115/79), al cospetto della questione volta a «determinare se una società che intenda acquistare la totalità delle azioni di un’altra società, al fine di esercitare un’attività economica consistente nel fornire a quest’ultima prestazioni di servizi di gestione assoggettate all’IVA, possa essere considerata come soggetto passivo ai sensi dell’articolo 4 della sesta direttiva… », ha stabilito che «va ricordato, in primo luogo, che non ha la qualità di soggetto passivo IVA, ai sensi dell’articolo 4 della sesta direttiva, né il diritto a detrazione, in base all’articolo 17 di tale direttiva, una società il cui unico oggetto consista nell’acquisizione di partecipazioni in altre società, senza interferire direttamente o indirettamente nella gestione di queste ultime. Difatti, il mero acquisto e la mera cessione di partecipazioni societarie non costituiscono, di per sé, un’attività economica ai sensi della sesta direttiva, che conferisce al soggetto che le abbia effettuate la qualità di soggetto passivo, dato che la semplice assunzione di partecipazioni finanziarie in altre imprese non costituisce sfruttamento di un bene al fine di trarne introiti che abbiano carattere stabile. Infatti, la riscossione di un eventuale dividendo, frutto di detta partecipazione, discende dalla mera proprietà del bene (sentenze del 30 maggio 2013, X, C-651/11, EU:C:2013:346, punto 36, nonché del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahr , C-108/14 e C-109/14, EU:C:2015:496, punto 19 e giurisprudenza ivi citata)» (Corte giust., causa C-249/17, Ryanair Ltd, punti 15-16).

5.1.- Quindi, al cospetto di una società commerciale, come la contribuente, avente un oggetto sociale volto in via esclusiva all’acquisizione di azioni, la Corte di giustizia perviene in linea di massima a conclusioni opposte a quella auspicate in memoria.

Questa Corte, d’altronde, in applicazione del principio indicato, ha anche di recente ribadito che le operazioni di cessioni relative ad azioni o partecipazioni in una società non rientrano nella sfera di applicazione dell’IVA, salvo che sia accertato che sono state effettuate nell’ambito di un’attività commerciale di acquisizione di titoli per realizzare un’interferenza diretta o indiretta nella gestione della società di cui si è realizzata l’acquisizione di partecipazioni o che costituiscono il prolungamento diretto, permanente e necessario, dell’attività imponibile (Cass. n. 5156/21).

6.- Che nel caso in esame, come in quelli sostanzialmente identici già esaminati da questa Corte, non si configuri il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività imponibile della contribuente per effetto della compravendita dei

certificati di deposito, emerge dalla ricostruzione del giudice di merito, e dalle stesse difese della società.

Il giudice di merito, in questo come negli altri casi, ha accertato che l’unica attività svolta dalla società è stata quella d’intermediaria nella compravendita dei titoli, precisando con la sentenza impugnata che la provvista era fornita dalla controllante, di modo che la XX non ha assunto alcun rischio. E la stessa contribuente, in memoria, qualifica le remunerazioni ricevute come provvigioni.

6.1.- Il che esclude lo svolgimento dell’attività commerciale di compravendita dei titoli richiesta dalla giurisprudenza unionale per la configurabilità di operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’iva (si veda, in particolare, Corte giust., causa C-77/01, Empresa de Desenvolvimento Mineiro SPGS SA (EDM), già Empresa de Desonvolvimento Mineiro SA (EDM), punto 59. D’altronde, sempre in base alla giurisprudenza unionale, non rilevano il numero e l’ampiezza delle vendite, posto che vendite anche ingenti possono essere compiute da investitori privati (v., in tal senso, Corte giust. 20 giugno 1996, causa C-155/94, Wellcome Trust, punto 37).

Non è poi in alcun modo emerso, già nella prospettazione della società, neanche lo svolgimento di altre operazioni rilevanti ai fini della ravvisabilità dell’attività imponibile ai fini iva: la giurisprudenza unionale fa al riguardo leva sulla prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici, che esulino dall’ambito del mero acquisto o vendita dei titoli (v., in tal senso, Corte giust., causa C-29/08, AB SKF, punti 32, 51; causa C-651/11, X, punto 37; cause C-108 e C-109/14, Larentia + Minerva e Marenave Schiffhart, punti 19, 20, 21 e giurisprudenza ivi citata).

7.- In questo contesto, legittimo è il criterio, concorrente, di qualificazione dell’attività   basato sull’entità minima della commissione.

Al riguardo, quanto al secondo aspetto prospettato in memoria, indubbiamente la Corte di giustizia, come segnalato dalla società, ha stabilito, in esito, peraltro, a rimessione disposta da questa Corte, che la prestazione di servizi è da ritenere onerosa, e quindi imponibile,  purché  sia  ravvisabile  nesso  di  corrispettività  tra servizio reso e somma ricevuta, anche in mancanza di lucratività (Corte giust. causa C-94/19, San Domenico Vetraria).

Occorre pur sempre, tuttavia, che sussista un nesso di corrispettività tra prestazione e remunerazione, che ne costituisca, dunque, il controvalore. Un conto è, dunque, la corrispettività, data dallo scambio, che identifica la prestazione di servizi imponibile ai fini dell’iva; altro è la lucratività, che contrassegna quantitativamente la corrispettività.

7.1.- Spetta al giudice nazionale assicurarsi che l’importo stabilito non costituisca una remunerazione solo parziale delle prestazioni effettuate o da effettuare e che la sua entità non sia stata stabilita in ragione dell’esistenza di altri fattori eventuali e idonei, se del caso, a rimettere in discussione il nesso cliretto tra le prestazioni e il loro corrispettivo (Corte giust. 2 giugno 2016, causa c- 263/15, Lajvér Melioraci6s Nonprofit Kft. ed altro); il principio è stato anche di recente ribadito, in relazione a un’ipotesi di rilevante scarto fra i costi sostenuti e gli importi percepiti come corrispettivo, che si è ritenuto incidere sull’esistenza di tale nesso, escludendolo (Corte giust. causa C-846/19, EQ, punto 48). Ed è appunto questa la valutazione giuridica che questa Corte ha compiuto, in base alla ricostruzione di fatto del giudice di merito, corrispondente in pieno a quella contenuta nella sentenza impugnata.

8.- Le considerazioni che precedono spogliano di ogni rilevanza l’ulteriore considerazione sviluppata in memoria, stavolta incentrata sul diritto interno, e specificamente sull’art. 4 del d.P.R. n. 633/72, ossia sulla presunzione di assoggettabilità a iva delle cessioni compiute dalla società: e ciò perché nessuna operazione rientrante in campo iva è ravvisabile, di modo che non si è determinato il presupposto applicativo della presunzione invocata.

8.1.- Il che effettivamente esclude, come prospettato anche dalla società, la rilevanza del congegno del mandato senza rappresentanza cui in tesi è riconducibile l’attività d’intermediazione svolta.

Al mandato senza rappresentanza è difatti riservato uno specifico trattamento ai fini dell’iva in base all’art. 6, paragrafo 4, della sesta direttiva (corrispondente all’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633/72), in virtù del quale qualora un soggetto passivo che agisce in nome proprio ma per conto altrui partecipi ad una prestazione di servizi, si riterrà che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo proprio.

8.1.- La disposizione crea quindi la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente, in quanto si ritiene che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi, cioè il mandatario, abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, tali servizi all’operatore per conto del quale agisce (Corte giust., causa C-707/18, Amara ti Land Investment SRL, punto 37).

Sicché se la prestazione di servizi a cui un operatore partecipa è soggetta all’iva, anche il rapporto giuridico tra tale operatore e l’operatore per conto del quale egli agisce deve essere soggetto all’iva (v., in tal senso, Corte giust., causa C-274/15, Commissione c. Granducato di Lussemburgo, punto 87).

Se, invece, l’operazione è estranea al campo di applicazione dell’iva, irrilevante resta il ricorso alla disciplina in questione.

9.- Qualificata l’attività di cessione dei certificati di deposito come attività fuori dal campo iva, l’obiettivo di neutralità garantito dal sistema comune dell’iva ne comporta l’esclusione dal calcolo del prorata di detrazione (da ultimo, Corte giust., causa C-566/17, Wiqzek Gmin Zagl bia Miedziowego, punto 28).                                                         

9.1.- E l’esclusione dal calcolo delle operazioni in questione conduce alla riduzione della percentuale di detraibilità, evidenziando la legittimità della pretesa impositiva.

10.- Le considerazioni che precedono comportano l’assorbimento del primo motivo di ricorso, col quale si aggredisce per altro aspetto la valutazione di elusività delle operazioni, nonché del terzo motivo di ricorso, col quale si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633/72 nonché dei principi fissati dalla sesta direttiva, quanto alle considerazioni svolte in sentenza sulla rilevanza del mandato senza rappresentanza.

11.- Il consolidato indirizzo della giurisprudenza unionale comporta poi l’infondatezza dell’ultimo motivo di ricorso, col quale la società si duole della violazione a falsa applicazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 546/92, dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472/97 e dell’art. 10 della I. n. 212/00, non sussistendo l’obiettiva incertezza prospettata.

12.- Il ricorso va in conseguenza rigettato e le spese seguono la soccombenza.

Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Per questi motivi

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese, che liquida in euro 8000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.