Corte di Cassazione ordinanza n. 22510 depositata il 18 luglio 2022
ricorso in cassazione – tassazione plusvalenze da cessione immobili
Rilevato che:
1. Con avviso di accertamento l’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Barletta Andria Trani, recuperava, per quanto in questa sede rileva, nei confronti della Congregazione, una maggior imposta Ires per euro 2.549.055,00 per la plusvalenza realizzata dalle cessioni di due immobili, siti in Guidonia e in Palestrina, qualificate come cessioni di terreni edificabili e come tali tassate, considerandoli redditi diversi ai sensi dell’art. 67 t.u.i.r. e secondo i criteri dell’art. 68 t.u.i.r., in relazione all’anno di imposta 2005.
2. La Congregazione proponeva ricorso davanti alla Commissione tributaria provinciale di Bari, che lo accoglieva parzialmente; in particolare la C.T.P. rideterminava la plusvalenza in relazione all’immobile in Guidonia, riconoscendo alcuni costi incrementativi e dando quindi rilievo al valore iscritto in bilancio del bene alla data del 31 dicembre 1998; rigettava invece il ricorso per la plusvalenza realizzata a seguito della cessione dell’immobile in Palestrina.
3. La Commissione tributaria regionale della Puglia, adita con appello principale dall’ufficio e con appello incidentale dalla Congregazione, emetteva la sentenza n. 600/10/14 del 24 ottobre 2013, pubblicata il 13 marzo 2014, con cui accoglieva l’appello dell’ufficio in parte qua e rigettava quello della contribuente, confermando quindi l’originario accertamento in merito alle plusvalenze. In particolare, negava la sussistenza della prova di spese incrementative per entrambi gli immobili.
3. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Congregazione in base ad un motivo.
Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
In corso di causa s’è costituito nuovo difensore per la ricorrente.
Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 19 maggio 2022, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380-bis.1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31 agosto 2016, n.168, conv. in legge 25 ottobre 2016, n.197, per la quale la ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che:
1. Con un unico motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 67, comma 1, lettera b), dell’art. 65, commi 1 e 3-bis, e dell’art. 144, comma 3, del P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. In realtà il motivo si compone di due distinte censure.
In primo luogo la ricorrente premette, in relazione alle due cessioni, di aver inserito nelle scritture contabili una minusvalenza per la cessione del primo immobile e una plusvalenza per quella del secondo, individuando il costo fiscalmente riconosciuto dei cespiti nella misura pari al valore contabilizzato nel libro inventari, determinato dal costo di acquisto, dalle spese incrementative e dalle quote di ammortamento; ciò troverebbe il suo fondamento nelle disposizioni degli artt. 144, comma 3, e 65, commi 1 e 3-bis, t.u.i.r., in quanto i beni erano inseriti nell’inventario e ciò determinerebbe che ad essi, mediante il richiamo compiuto dal predetto art. 144 all’art. 65 sui beni relativi all’impresa, dovesse applicarsi il regime fiscale dei beni di impresa e non quello degli artt. 67 e 68.
In estrema sintesi con il primo profilo di doglianza la ricorrente si duole che l’ufficio, non avendo qualificato fiscalmente i beni immobili oggetto di cessione quali beni di impresa, non abbia applicato il regime fiscale proprio degli stessi bensì, ma erratamente, le disposizioni degli artt. 67 e 68 t.u.i.r., ritenendo sussistente un reddito diverso.
Con una seconda, e diversa, censura la ricorrente evidenzia che, anche a volersi ammettere l’applicabilità teorica dell’art. 67 t.u.i.r., tale norma non sarebbe applicabile al caso di specie in quanto sui terreni erano già presenti dei fabbricati; richiama un costante orientamento di legittimità secondo il quale tale disposizione non può regolare le ipotesi di terreni sui quali già sorge un fabbricato e quindi da ritenersi già edificati.
L’Agenzia ha controdedotto chiedendo la pronuncia di inammissibilità del ricorso, anche per la presenza di un giudicato interno in ordine al primo motivo di esso, e in subordine di rigetto.
2. Entrambe le censure sono inammissibili.
Il punto centrale della prima censura è la deduzione che le plusvalenze in questione non siano redditi diversi ma redditi di impresa; convergono in tal senso le deduzioni sulla asserita inapplicabilità dell’art. 67 t.u.i.r., della natura di bene relativo all’impresa dei terreni ceduti (conseguente al loro inserimento nell’inventario) e della rilevanza dei valori indicati in bilancio.
La sentenza impugnata, particolarmente analitica nella ricostruzione dell’iter processuale e dei motivi dei ricorsi dei vari gradi, non menziona la questione dell’illegittimità della ripresa fondata sull’art. 67 t.u.i.r., e quindi della natura del reddito contestato, o dei criteri di calcolo, così come denunziati in questa sede, limitandosi, sebbene talvolta con imprecisioni terminologiche, a trattare della ‹‹indicazione da parte della contribuente degli elementi che avrebbero determinato l’effettivo sostenimento delle spese incrementative del valore dei beni ceduti››.
Pertanto, il motivo è inammissibile, non avendo la contribuente indicato puntualmente di averlo già proposto, nei medesimi contenuti, nel giudizio di appello.
Infatti «in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio» (Cass. 23/03/2021, n. 8125; Cass. 09/08/2018, n. 20694; Cass. 13/06/2018, n. 15430).
Inoltre, tale rilievo, quand’anche proposto in primo grado, non è stato considerato dalla C.T.P., come emerge dalla trascrizione della sentenza operata dall’Agenzia nel controricorso, essendosi i giudici di primo grado limitati a riconoscere, e solo per il bene in Guidonia, costi incrementativi per lavori di ampliamento e ristrutturazione (i termini della decisione non mutano per la circostanza, meramente fattuale, che riconoscendo tali costi, la C.T.P. abbia fatto riferimento al valore riportato in bilancio al 31 dicembre 1998), in sostanza riducendo la base imponibile ma non negando il presupposto imponibile come accertato dall’ufficio, e per l’altro bene in Palestrina negato la prova dei ‹‹valori dichiarati››.
Dalla trascrizione dell’appello incidentale della Congregazione, contenuta nel controricorso dell’Agenzia, emerge che i motivi di appello erano tutti fondati sull’errore motivazionale in relazione alla presenza dei costi incrementativi (in particolare sulla circostanza che la C.T.P. aveva riconosciuto il valore alla data del 31 dicembre 1998 anziché alla data del 31 dicembre 2005) e che non vi era alcun idoneo e compiuto riferimento alla questione che la C.T.P. aveva, eventualmente, omesso di esaminare, relativa, come visto, alla non configurabilità di un reddito diverso e alla conseguente impossibilità di applicazione della disciplina dell’art. 67 t.u.i.r, questione quindi comunque coperta dal giudicato interno, anche in conseguenza della sopra espressa constatazione dell’assenza di riferimenti ad essa nella sentenza della C.T.R.
Il secondo profilo di censura è anch’esso evidentemente inammissibile in quanto pone dei profili di illegittimità dell’avviso (l’inapplicabilità dell’art. 67 ai casi di terreni parzialmente edificati) di cui, infatti, ancora non vi è traccia nella sentenza di appello (e non è dedotta in ricorso un’omessa pronuncia); la stessa ricorrente, nell’esposizione del fatto, non indica mai di aver dedotto tale profilo di illegittimità dell’atto, del resto logicamente distinto sia dall’originaria doglianza, volta, come visto, a negare la configurabilità di un reddito diverso, sia dalla questione relativa al criterio di calcolo della plusvalenza ex art. 67, perché volto a negare lo stesso presupposto di quest’ultima disposizione, e cioè l’alienazione di un terreno edificatorio.
3. Il ricorso deve essere quindi dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate come in dispositivo.
Deve darsi altresì atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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