Corte di Cassazione ordinanza n. 22546 depositata il 18 luglio 2022
principi di economia processuale – deducibile e detraibile del corrispettivo riconosciuto alla capogruppo – onere della prova
Rilevato che:
1. D.C. S.p.a, in liquidazione (di seguito D.C. s.p.a.) e D.C. Edilizia S.r.l., in liquidazione, (di seguito D.C.E. s.r.l.) ricorrono, con nove motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe che ha accolto l’appello proposto dall’Ufficio avverso la sentenza della C.t.p. di Teramo che, in accoglimento del ricorso delle contribuenti, aveva annullato l’avviso di accertamento (n. TA903A502547/11) con il quale, per l’anno di imposta 2006, erano stati recuperati a tassazione, nei confronti delle due società, nelle rispettive qualità di consolidante e consolidata, maggiori redditi ai fini Ires.
2. L’Ufficio riscontrava che il corrispettivo di euro 550.000,00, corrisposto per le prestazioni di servizi erogate dalla capogruppo, D.C s.p.a., alle controllate, tra cui la C.E. s.r.l., non era stato ripartito in base ai servizi effettivamente prestati in favore di ciascuna, ma a forfait; per l’effetto, rideterminava, ai fini della deducibilità fiscale, il canone a carico della controllata ed escludeva, per la parte residua, il requisito dell’inerenza.
3. La C.t.p., in accoglimento del ricorso, riteneva che la ripartizione dei costi tra le società controllate, secondo il criterio della suddivisione in quote proporzionali, fosse corretta e che l’Ufficio non avesse provato il conseguimento, in ragione del criterio adottato, di indebiti vantaggi fiscali.
3. La C.t.r. accoglieva l’appello dell’Ufficio, affermando che incombeva al contribuente dimostrare la congruità e l’inerenza dei costi oggetto dell’accertamento; che gli argomenti ritenuti dirimenti dalla C.t.p. non erano idonei a fornire la detta prova; che il criterio «forfettario» utilizzato era «scollegato» dalla quantità e qualità dei servizi forniti a ciascuna della società del gruppo e dal loro costo; che detto costo era stato determinato in modo oggettivamente privo di senso in ragione delle «varabili contabili» relative all’esercizio.
4. Le ricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato che:
1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. , la nullità della sentenza «per violazione del dispositivo».
In particolare, censurano la sentenza impugnata per avere, nel dispositivo, rigettato il ricorso da loro proposto che, invece, non poteva essere oggetto della sentenza di gravame.
2. Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
In particolare, si dolgono dell’omessa pronuncia sul primo motivo di appello proposto dall’Ufficio che aveva censurato la sentenza di primo grado assumendo che la motivazione fosse illogica, contraddittoria, arbitraria.
3. Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. la «nullità del procedimento» per essersi la t.r. pronunciata su un fatto nuovo introdotto dall’Ufficio nel proprio atto di appello.
In particolare, denunciano che il criterio analitico di imputazione dei costi in ordine al quale la C.t.r. aveva dissertato – alternativo a quello proporzionale adottato dalla società – era elemento nuovo introdotto dall’Agenzia delle Entrate solo in secondo grado.
4. Con il quarto motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, e consistente nel «procedimento di rideterminazione del criterio di ripartizione da parte dell’Amministrazione finanziaria» che, invece, doveva considerarsi errato.
5. Con il quinto motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, e consistente nell’adesione di tutte le società coinvolte al sistema di tassazione consolidata che avrebbe dovuto portare la C.t.r. a ritenere non sussistente alcuna convenienza nel veicolare i costi nell’una piuttosto che nell’altra società del gruppo.
6. Con il sesto motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente nella duplicazione della tassazione Ires generata dal mancato riconoscimento del costo de quo.
7. Con il settimo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 5, cod. proc. civ. l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente nella documentazione adotta a sostegno della deducibilità fiscale del costo.
8. Con l’ottavo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art 2697 cod. civ.
In particolare, assumono che la C.t.r. non si sarebbe attenuta alle regole di ripartizione dell’onere probatorio in ragione delle quali spettava al contribuente provare la deducibilità dei costi ed all’Ufficio provare il disegno elusivo.
9. Con il nono motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 109 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 con riferimento al requisito dell’inerenza.
In particolare, secondo le ricorrenti, l’affermazione di cui alla sentenza gravata, secondo cui la ripartizione dei costi attuata dal gruppo non era conforme all’ art. 109 cit., disattenderebbe il concetto dell’inerenza, da intendersi quale collegamento dei costi con l’attività di impresa e non con i ricavi. Assumono, inoltre, che la C.t.r. avrebbe errato nel ritenere che il criterio di ripartizione utilizzato fosse forfetario; che, invece, il medesimo si fondava su «variabili contabili» che denotavano l’utilità dei servizi resi dalla consolidante a ciascuna delle consolidate.
10. Il primo motivo è infondato.
Il ricorso alla commissione tributaria di secondo grado ha, al pari dell’appello, effetto devolutivo, con la conseguenza che il giudice del gravame risulta investito, sia pure nell’ambito di quanto fatto oggetto di censura, del riesame dell’avviso di accertamento oggetto dell’impugnazione innanzi al giudice del primo grado e, quindi, della rinnovazione del relativo giudizio (Cass. 22/09/2021, n. 25608).
La sentenza impugnata, pertanto, correttamente, in accoglimento dell’appello spiegato dall’Ufficio, ha statuito in ordine al ricorso del contribuente, emettendo una pronuncia di rigetto.
11. Il secondo motivo è inammissibile.
Le ricorrenti si dolgono dell’omessa pronuncia sul primo motivo di appello spiegato dall’Ufficio. Tale censura, tuttavia, non è sorretta dall’interesse ad agire.
Nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata. (Cass. 09/08/2017, n. 19759, Cass. 18/12/2014, n. 26831).
Le ricorrenti con il motivo in esame non si dolgono di un pregiudizio subito né di un vizio lesivo del loro diritto di difesa – che, per altro, non potrebbe derivare loro dall’omesso esame di un motivo di appello proposto dalla controparte – ma solo dell’approssimazione con cui, a loro dire, si sarebbe svolto il giudizio di secondo grado, come provato dall’omesso esame di uno dei motivi di appello.
12. Il terzo motivo è infondato.
Va premesso che quello che le ricorrenti etichettano come «criterio analitico» è il diverso criterio di ripartizione dei costi in ragione del quale l’Ufficio ha provveduto al parziale recupero a tassazione dei maggiori redditi. L’avviso di accertamento, infatti, muoveva dall’assunto che il criterio utilizzato dal gruppo non rispettasse il presupposto dell’inerenza. La C.t.r., pertanto, nel ritenere non rispettoso dell’art. 109 d.P.R. n. 917 del 1986 il criterio di ripartizione dei costi utilizzato dalle ricorrenti, a fronte della «analiticità» pretesa dall’Amministrazione, non si è pronunciata su un fatto nuovo introdotto solo con l’appello, bensì sull’oggetto stesso dell’accertamento.
13. L’ottavo ed il nono motivo, preliminari rispetto agli ulteriori, e da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.
13.1 In materia di costi c.d. infragruppo, questa Corte ha già affermato che, laddove la società capofila decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi tra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende, formalmente autonome, e di ridurre i costi di gestione, l’onere della prova in ordine all’esistenza e all’inerenza dei costi sopportati grava sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio; inoltre, occorre, affinché il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia deducibile e detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata (Cass. 14/12/2018, n. 32422, Cass. 23/11/2015, n. 23027).
La deducibilità è, pertanto, subordinata all’effettività ed inerenza della spesa in ordine all’attività di impresa esercitata dalla controllata e al reale vantaggio che ne sia derivato a quest’ultima; sul contribuente, inoltre, grava l’onere di specifica allegazione degli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale dei costi sostenuti per ottenere i servizi prestati dalla controllante (Cass. 04/03/2020, n. 6820, Cass. 04/10/2017, n. 23164).
13.2 In ragione di tale premessa questa Corte ha ritenuto che, ove, come nel caso di specie, i costi della cui deducibilità si controverte scaturiscano da accordi (cost sharing agreement), non può ritenersi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi, richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione degli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio (Cass. 18/7/2014, n. 16480; in termini analoghi anche Cass. 28/6/2019, n. 17535).
13.3 A tali principi si è conformata la sentenza impugnata la quale, facendo corretta applicazione dell’art. 109 d.P.R n. 917 del 1986 e dell’art. 2697 cod. civ., ha affermato che incombeva al contribuente dimostrare l’effettività, l’obiettiva determinabilità, la congruità e l’inerenza dei costi oggetto della ripartizione tra le società del gruppo; che l’allegazione delle scritture private contenenti l’accordo non era sufficiente per ritenere soddisfatta la verosimiglianza e la correttezza della ripartizione, proporzionale e secondo criteri forfetari, eseguita dalle società, a fronte della ripartizione analitica pretesa dall’Ufficio; che detta ripartizione era scollegata dalla quantità e qualità dei servizi apprestati per ciascuna delle società del gruppo e faceva riferimento a «varabili contabili», quali il volume di affari il numero di dipendenti e il numero delle fatture, relative all’anno precedente quello di riferimento.
13.4 I motivi di ricorso in esame, inoltre, nella parte in cui censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto forfetario, e quindi non rispettoso dell’art. 109 d.P.R. n. 917 del 1986, il criterio di ripartizione dei costi utilizzato dal gruppo, sebbene il medesimo fosse idoneo a rappresentare l’utilità tratta dai servizi resi, ripropongono, in realtà, una nuova valutazione in fatto, preclusa in sede di legittimità.
14. Il quarto, il quinto ed il sesto motivo, tutti declinati ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., sono inammissibili.
14.1 L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 143, prevede l’«omesso esame» come riferito ad «un fatto decisivo per il giudizio», ossia ad un preciso accadimento, o ad una precisa circostanza in senso storico o naturalistico, non assimilabile in alcun modo a questioni o argomentazioni che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. E’ inammissibile, di conseguenza, la censura che si risolva in un’istanza di revisione del ragionamento decisorio del giudice, non potendo la Corte procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (tra le tante, Cass. 31/03/2022, n. 10525, Cass. 26/01/2022, n. 2268, Cass. 03/10/2018, n. 24035).
14.2. Le ricorrenti, con detti motivi, non censurano il mancato esame da parte della C.t.r. di un fatto avente le caratteristiche sopra individuate, bensì l’erroneità del criterio di ripartizione dei costi utilizzato dall’Ufficio e sotteso al recupero a tassazione di un maggior reddito (motivo sub 4); l’omessa considerazione dell’insussistenza della convenienza a veicolare i costi nell’una piuttosto che nell’altra società, aderendo tutte al sistema di tassazione consolidata (motivo sub 5); l’omessa valutazione del fenomeno di duplicazione dell’Ires generato dal mancato riconoscimento dei costi (motivo sub 6). Le tre censure, pertanto, non evidenziano alcun fatto storico non esaminato dalla C.t.r., risolvendosi, piuttosto, nella censura della valutazione complessiva dei fatti di causa posta a fondamento della decisione assunta che, invece, è il frutto di un complessivo e convincente apprezzamento dei fatti.
15. Il settimo motivo è ugualmente inammissibile.
Con il motivo le ricorrenti censurano, senza nessuna ulteriore specificazione, l’omesso esame della documentazione addotta a sostegno della deducibilità fiscale del costo, e, in genere la omessa disamina fattuale.
La formulazione del motivo non risponde ai requisiti di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 cod. proc. civ.. Inoltre, come chiarito da questa Corte, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, un vizio censurabile ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 19/07/2021, n. 20553, Cass. 08/11/2019, n. 28887).
16. Il ricorso va, dunque, complessivamente rigettato.
17. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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