Corte di Cassazione ordinanza n. 23288 depositata il 26 luglio 2022
remissione in termini – motivo c.d. “misto” (o “composito”) – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Ritenuto in fatto
1. M.A. impugnava l’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2011 con il quale l’Ufficio aveva rettificato il reddito ai sensi degli 39, comma l” lett. d), dPR 600/1973 e 54 , comma 4, dPR 633/72 recuperando la maggiore Irpef, Iva e Irap.
2. La Commissione Tributaria Provinciale di Milano dichiarava inammissibile per tardività il ricorso con sentenza che veniva confermata, sull’appello del contribuente, dalla Commissione Tributaria Regionale della Il giudice di appello riteneva che, pacifica l’oggettiva tardività sia dell’istanza di accertamento con adesione sia del ricorso, non sussistevano le condizioni per una rimessione in termini, non configurandosi, alla luce della documentazione prodotta, uno stato di impedimento assoluto. .
3. Avverso tale decisione Andrea Pietro Mastropietro propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
4. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato 380 bis cod. proc. civ. risulta regolarmente costituito il contraddittorio.
Ritenuto in diritto
1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli 115, 116 e 153 c.p.c., dell’art. 2700 e.e., degli artt. 1, 7 e 36 del d.l. nr. 546/1992, degli artt. 2, 3, 24, 101 e 111 della Cost., degli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e degli artt. 20, 47 e 48 della Carta fondamentale dell’unione europea, per avere la CTR valutato secondo il suo prudente apprezzamento una prova soggetta ad un diverso regime legale, in spregio alla prescrizione dell’art. 116 c.p.c., ritenendo a torto non provato il fatto impeditivo, incorrendo in tal modo nel vizio di cui all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c.
1.1 Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili.
Occorre, infatti, rilevare che si tratta di motivo c.d. “misto” (o “composito”) caratterizzato da censure tra loro incompatibili, tanto in astratto quanto nella loro concreta articolazione, in quanto inscindibili, così da non poterne discernere i differenti profili e le relative critiche (sui limiti di ammissibilità del motivo c.d. “misto” o “composito”, si vedano, ex plurimis, Cass., Sez. U., 06/05/2015, n. 9100, e Cass., sez. 6-3, 17/03/2017, n. 7009), poiché si deduce congiuntamente la violazione di norme processuali e sostanziali, già astrattamente tra loro incompatibili.
Alla incompatibilità astratta si aggiunge poi quella in concreto, considerato che, appunto in concreto, con il suddetto motivo, si deduce che il giudice di appello abbia valutato liberamente i documenti medico-scientifici che, invece, sarebbero stati soggetti ad un ben diverso regime legale, incorrendo nel vizio di nullità, il che non può tradursi in quello di violazione di legge o in un vizio motivazionale ex art. 360, primo comma, nr. 5, c.p.c.
Con riguardo, poi, alla prospettata violazione dell’art. 115 e 116 c.p.c., questa Corte ha da tempo consolidato il principio secondo cui una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può avere ad oggetto l’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo il fatto che questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, o abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., fra le più recenti, Cass. nn. 1229 del 2019, 4699 e 26769 del 2018, 27000 del 2016), restando conseguentemente escluso che il vizio possa concretarsi nella censura di apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati eia una delle parti (Cass. n. 18665 del 2017) o, in più in generale, nella denuncia di un cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, non essendo tale vizio inquadrabile nè nel paradigma dell’art. 360, n. 5, c.p.c. nè in quello del precedente n. 4, che, per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. attribuisce rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892 del 2016).
Ora le certificazioni mediche prodotte, ben lungi dal assumere valore fidefacente, contengono mere valutazioni non assistite da fede privilegiata e, come tali, soggette al prudente apprezzamento del giudice non censurabile in questa sede di legittimità.
Va, peraltro, osservato che la decisione assunta dalla CTR è coerente con gli indirizzi espressi da questa Corte, la quale ha più volte ribadito che la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. deve consistere in un fatto esterno alla sfera di controllo della parte e del difensore che deve essere specificamente provato anche nella sua efficacia causale.
Sul punto si è avuto modo di precisare che “la malattia del procuratore non rileva di per sè come legittimo impedimento (in tal senso Cass. n. 12544 del 2015, Cass. n. 14586 del 2005; Cass. s.u. 32725/2018); ed invero anche nel caso di specie “non è stato neppure allegato un malessere improvviso o un totale impedimento a svolgere l’attività professionale, ma piuttosto uno stato di salute non ottimale [ … ] a fronte del quale il professionista avrebbe dovuto 1e potuto organizzarsi affinchè le attività ordinarie (come quella di informare i clienti sull’esito dei giudizi in corso e sulle notifiche ricevute di atti ad essi relativi) potessero svolgersi senza interruzioni”; “nè dalla documentazione medica allegata può evincersi l’impossibilità per il difensore di provvedere nel rispetto del termine” (Cass. 20211/2019); manca dunque la prova dell’assolutezza delle circostanze giustificanti la causa non imputabile (Cass. 22092/2019; 381/2020).
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in € 7.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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