CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 253 depositata il 5 gennaio 2023
Lavoro – Contratto a termine – Proroga – Art. 5 commi 3 e 4 D.Lgs. n. 368/2001 – Mancata interruzione temporale tra il primo e il secondo contratto – Illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – Inammissibilità
Rilevato che
1. con sentenza n. 180 del 10 maggio 2017 la Corte d’appello di Genova, adita da A.B., in parziale riforma della pronuncia del Tribunale della stessa città, riteneva illegittimo il rinnovo del contratto a termine in data 1.3.2013, perché adottato senza soluzione di continuità rispetto alla scadenza della proroga del primo contratto in data 28.2.2013, e, ferma la statuizione di primo grado reiettiva della domanda di conversione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine (dal 1.3.2011 al 31.8.2014) con l’(…) (in seguito: INFN), condannava quest’ultimo al risarcimento del danno ex art. 32 legge n. 183/2010 per l’abusivo ricorso a tale tipologia contrattuale in misura di n. 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
2. la Corte genovese riteneva che i contratti a termine nascessero, in effetti, da esigenze transitorie ed eccezionali e che non fossero assoggettati al limite dei 36 mesi, qui derogato dalla disciplina collettiva, ed aggiungeva che la proroga contrattuale fosse conforme all’art. 4 d.lgs. n. 368/2001, perché si riferiva alla stessa attività lavorativa;
osservava, tuttavia, che era stato violato nella specie il disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001, per l’acclarata esistenza, in data 1.3.2013, di due assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità, donde, in applicazione dei principi espressi da Cass. n. 5072/2016, la condanna di INFN al risarcimento del danno cosiddetto comunitario;
2. avverso tale sentenza INFN ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, resistiti da controricorso di A.B. assistito da memoria.
Considerato che
1. con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 15 c.c.n.l. Istituzioni ed Enti di ricerca, quadriennio 1994-1997, dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001 e dell’art. 32 legge n. 183/2010, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.;
l’INFN poteva procedere, ai sensi dell’art. 15 del c.c.n.l., cit., e dell’art. 5, comma 4 bis, d.lgs. n. 368/2001, all’assunzione a termine a condizione che la durata complessiva dei contratti a tempo determinato, e delle successive proroghe, non fosse superiore a cinque anni, sicché non sussisteva nella specie la violazione, come riscontrata dal giudice d’appello, dell’art. 5 commi 3 e 4 d.lgs. n. 368/2001;
2. il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata;
la Corte di merito, richiamati gli articoli 5 comma 4 bis d.lgs. n. 368/2001 e 36 comma 2 d.lgs. n. 165/2001 laddove facevano salve «le diverse disposizioni di contratti collettivi», ha evidenziato che tale disciplina derogatoria non era stata qui prevista per l’ipotesi del “rinnovo” del contratto a termine;
infatti, l’art. 15. c.c.n.l. Istituzioni ed Enti di ricerca, ai commi 4 e 5, così testualmente recita:
«4. Oltre alle assunzioni di cui al comma 1, gli Enti possono effettuare assunzioni a tempo determinato, per una durata, comunque, non superiore a 5 anni, e limitatamente a un contingente massimo pari al 20% della dotazione organica complessiva dell’Ente relativa ai livelli dal X al IV, comprensivo delle assunzioni già avvenute, ai sensi dell’art. 36 della legge 75/70 e dell’art. 23 del d.P.R. 171/91, fino alla data di stipulazione del presente contratto a) di personale che risulti idoneo a seguito di apposite selezioni pubbliche, ai sensi dell’art. 36, comma 1, lettera a) del d.lgs. 29/93, in relazione a singoli programmi e per l’intera durata degli stessi; b) di personale tecnico riconosciuto di elevato livello di competenza, esperienza, ovvero altamente specializzato, anche di cittadinanza straniera, per attività di supporto tecnico nell’ambito dei programmi di ricerca, per l’intera durata degli stessi programmi, e per la gestione di infrastrutture tecniche complesse. 5. Il contratto a tempo determinato di cui al comma 4 non potrà in nessun caso essere prorogato per un periodo superiore ai 5 anni complessivi […]».
Ferma, alla stregua del chiaro tenore contrattuale, la legittimità della durata dei contratti a termine e delle proroghe, in relazione a singoli programmi e per l’intera durata degli stessi, comunque non superiore ai cinque anni, la Corte genovese ha affrontato, nel dettaglio, il distinto profilo della mancata interruzione temporale tra il primo e il secondo contratto (dal 28.2.2013, data di scadenza della proroga del 1° contratto, al 1.3.2013, data di decorrenza del secondo contratto a termine), ritenendo, quindi, che l’assenza di uno iato temporale integrasse violazione dei commi 3 e 4 dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001, i quali vietano assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità;
trattasi di disposizioni (i.e., commi 3 e 4 dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001, cit.) che, sempre ad avviso della Corte di merito, sono applicabili anche nel settore degli enti di ricerca, non essendovi «ragioni che consentano nel pubblico impiego di derogare a tale disciplina», con il logico corollario che, stante l’abuso del ricorso al contratto a termine, spettava il risarcimento del danno comunitario, da intendersi come presunto ex art. 32 legge n. 183/2010;
questo perché Cass., Sez. U., n. 5072 del 2016 aveva già individuato, tra le ipotesi di abuso della fattispecie contrattuale, anche quella del “rinnovo” contra legem, ossia senza intervallo temporale, la cui ratio consiste, secondo la Corte territoriale, nell’evitare «che un lavoratore venga assunto a termine per essere assegnato a lavorazioni ordinarie per le quali è richiesta una risorsa continuativa, senza intervalli di sorta»;
com’è agevole constatare, il motivo, incentrato com’è in via esclusiva sul rispetto della durata complessiva di cinque anni («l’INFN poteva procedere all’assunzione a termine … solo a condizione che la durata complessiva dei contratti non fosse superiore ai cinque anni») e non, invece, sul diverso aspetto, cruciale sul piano argomentativo, del “rinnovo” senza soluzione di continuità, in violazione dei commi 3-4 dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001, non intercetta la ratio decidendi, talché si rivela inammissibile;
3. con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001 e dell’art. 32 legge n. 183/2010, nonché dell’art. 2697 cod. civ.;
nell’ipotesi di causa, in cui non si è verificato alcun abuso – tanto che la stessa Corte territoriale riconosce la legittimità della durata complessiva del contratto, l’esistenza delle ragioni giustificatrici di ogni singolo contratto, la conformità alle previsioni contrattuali dello specifico comparto, in deroga al d.lgs. n. 368/2001 –, la mera violazione di legge «poteva al più comportare il diritto al risarcimento del danno secondo le consuete regole civilistiche e previo assolvimento dell’onere della prova ex art. 2697 cod. civ., ma non l’applicazione della presunzione dell’art. 32 legge n. 183/2010»;
4. la censura in esame, offrendo un’interpretazione della disciplina che collide con quella consolidata di questa Corte, è anch’essa inammissibile ex art. 360 bis n. 1 cod. proc. civ.;
ed infatti, nell’intendere l’abuso nella reiterazione del termine restrittivamente, in modo da escludere la fattispecie dell’illegittimo “rinnovo” del contratto, il ricorrente non considera quanto affermato da Cass., Sez. U., n. 5072/2016, cit., la quale direttamente lo correla alla prestazione lavorativa a termine resa in una situazione «di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem»;
rispetto alla mera illegittimità della clausola di apposizione del termine al (singolo) contratto di lavoro, l’abuso, come prima perimetrato, costituisce senz’altro “fattispecie aggravata”, da intendersi, dunque, come successione di contratti a termine in violazione dei limiti di legge;
ed è proprio in tali casi che si producono, per il lavoratore, i connessi effetti pregiudizievoli collegati a una situazione di precarizzazione e di perdita di chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo, sicché spetta, come giustamente sottolinea la Corte di merito, il risarcimento del danno previsto dall’art. 36 comma 5 d.lgs. n. 165/2001, con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, come qui concretamente applicati;
5. conclusivamente, per le già indicate ragioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
deve darsi atto della sussistenza delle condizioni processuali di cui all’art. 13 comma 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, perché l’esenzione prevista dal richiamato d.P.R. opera soltanto per le Amministrazioni pubbliche ammesse alla prenotazione a debito, cioè per le Amministrazioni dello Stato o per altre Amministrazioni pubbliche ammesse da norme di legge alla prenotazione a debito di imposte o di spese a loro carico (vedi, per tutte: Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017; Cass. n. 20912/2020; Cass. n. 24286/2022), evenienza che qui non risulta.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarsi in favore dell’Avv. G.G. dichiaratosi anticipatario.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
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