Corte di Cassazione ordinanza n. 27326 depositata il 24 ottobre 2019
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO
Con ricorso depositato in data 31.3.2017 P.R. chiedeva al tribunale di Milano – tra l’altro – disporsi la revoca, ai sensi dell’art. 1129 c.c., n. 11, e art. 1131 c.c., di F.R., socio e legale rappresentante dello “Studio D.A. – D. A.” s.r.l., dalla carica di amministratore del (OMISSIS).
F.R. non si costituiva.
Con decreto del 21.6.2017 il tribunale di Milano rigettava il ricorso.
P.R. proponeva reclamo.
Resisteva F.R., in qualità di socio e legale rappresentante dello
“Studio D.A. – D. A.” s.r.l..
Con decreto n. 5702/2017 la corte d’appello di Milano rigettava il reclamo, condannava la reclamante a rimborsare a controparte le spese del procedimento di reclamo nonchè a pagare a controparte, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, la somma di Euro 1.000,00.
Evidenziava la corte che i profili di consistente colpa insiti nella determinazione di proporre reclamo avverso un provvedimento del tutto coerente con le risultanze probatorie, giustificavano la condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
Avverso tale decreto ha proposto ricorso P.R.; ne ha chiesto sulla scorta di un unico motivo la cassazione con ogni susseguente statuizione.
Lo “Studio D.A. – D. A.” s.r.l. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese; con condanna della ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
La ricorrente ha depositato memoria.
Con l’unico motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost. e art. 96 c.p.c., comma 3.
Deduce che difettano i presupposti della mala fede ovvero della colpa grave necessari ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3.
Il motivo di ricorso va respinto.
Si rappresenta che, in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo – per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 (il che non è nel caso di specie) – il controllo di sufficienza della motivazione (cfr. Cass. 29.9.2016, n. 19298).
Più esattamente la valutazione ex art. 96 c.p.c., comma 3, del giudice del merito è censurabile ai sensi del (novello) art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, giacchè – appunto – trattasi, siccome puntualmente ha posto in evidenza il controricorrente, di “questione di fatto” (cfr. controricorso, pag. 4). Del resto la ricorrente prospetta che “la statuizione ex art. 96 c.p.c., comma 3, presuppone (…) la rimproverabilità della condotta del soccombente, che qui manca del tutto” (così ricorso, pag. 6).
In questi termini dunque – ossia nel solco dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – è essenzialmente possibile far luogo al riscontro di ragionevolezza invocato dalla ricorrente (cfr. ricorso, pag. 5; memoria, pag. 2).
Ebbene, alla luce dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, l’iter motivazionale che sorregge, in parte qua agitur, il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile ed assolutamente congruo e esaustivo.
Da un lato è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” rilevanti alla stregua della summenzionata pronuncia delle sezioni unite possa scorgersi nelle motivazioni – surriferite – cui la corte distrettuale ha, in parte qua, ancorato la sua decisione.
Si badi che la corte territoriale ha soggiunto che era prevedibile che il reclamato adducesse in sede di impugnazione ulteriori elementi di valutazione in suo favore.
Dall’altro è da ritenere che la corte di Milano ha di sicuro disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante in parte qua la res litigiosa, ossia gli aspetti di grave colpa insiti nella determinazione di Rossella P. di proporre reclamo.
Di talchè per nulla si giustifica l’assunto della ricorrente secondo cui la corte milanese avrebbe fondato la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3 “su un comportamento ipotetico e non attuale” (così memoria, pagg. 2 – 3).
Non vi è margine per far luogo in questa sede alla condanna della ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3 (la domanda ex art. 96 c.p.c. può essere proposta anche in sede di legittimità: cfr. Cass. sez. un. 17.8.1990, n. 8363).
Non sussiste invero il presupposto della colpa grave (cfr. Cass. sez. un. 20.4.2018, n. 9912, secondo cui la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicchè possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione).
Propriamente è da escludere che l’esperito ricorso per cassazione si sia risolto in una iniziativa pretestuosa.
Vero è, certo, che il sollecitato riscontro di ragionevolezza della statuizione ex art. 96 c.p.c., comma 3, assunta dalla corte d’appello si sottrae a censura nel solco dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
E nondimeno l’invocato riscontro induce in pari tempo ad escludere che sussista violazione di quel grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza ovvero l’inammissibilità dell’intrapresa iniziativa processuale.
In dipendenza del rigetto del ricorso la ricorrente va condannata a rimborsare al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del citato D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, R. P., a rimborsare al controricorrente, “Studio D.A. – D. A.” s.r.l., le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; rigetta l’istanza ex art. 96 c.p.c., comma 3; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del citato art. 13, comma 1 bis.
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