Corte di Cassazione, ordinanza n. 27840 depositata il 4 ottobre 2022
Reddito d’impresa – Costi deducibili – Interessi sul debito d’imposta – Indeducibilità degli oneri fiscali – Art. 20, DPR 602/1973 – sostanziale autonomia tra il giudizio penale e quello tributario
Per gli interessi di mora per ritardato pagamento delle imposte è previsto un trattamento fiscale diverso da quello riservato agli interessi passivi di altra natura
Massima:
Gli interessi di mora dovuti per il ritardato pagamento del debito tributario non sono deducibili poiché l’art.109, comma V, del TUIR esclude espressamente la deducibilità degli oneri fiscali. Infatti, le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi, per cui deve ritenersi sussistente il diritto alla deducibilità degli interessi passivi, ma la qual cosa non può condurre a ritenere che la previsione normativa implichi che siano sempre deducibili anche gli interessi moratori che devono essere corrisposti dal contribuente in caso di ritardato pagamento del tributo. Ciò perché gli interessi moratori conseguenti al mancato pagamento, oltre che porsi come violazione della specifica previsione normativa che impone di provvedere al pagamento nelle scadenze previste, hanno una funzione risarcitoria, in quanto consentono all’erario di ottenere l’effettivo pagamento del tributo, sia nella sua specifica misura che in quella conseguente al ritardato pagamento. Pertanto, gli interessi passivi sono deducibili, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, esclusivamente se l’operazione cui accedono, per sua natura, sia rapportabile ai ricavi prodotti dall’attività aziendale e tale deducibilità è da escludersi nelle ipotesi in cui detti interessi non scaturiscano da un’operazione potenzialmente idonea a produrre utili, come nel caso in cui ci si trovi in presenza di interessi moratori dovuti in conseguenza dell’omesso o del tardivo versamento di somme dovute dall’impresa.
Testo:
dall’esposizione in fatto della pronuncia impugnata si evince che:
l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società S. s.r.l. un avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2004, con il quale aveva contestato la non deducibilità dei costi di cui alle fatture emesse dalla ditta individuale E. di P.C., in quanto relative ad operazioni inesistenti, nonchè la non deducibilità degli interessi di mora su ritardato pagamento delle imposte; avverso il suddetto atto impositivo la società contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma che lo aveva rigettato; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: sussistevano elementi di prova presuntiva idonei a ritenere che i costi non erano deducibili in quanto relativi a operazioni oggettivamente inesistenti e la contribuente non aveva offerto idonea prova contraria; non erano deducibili, inoltre, gli interessi relativi al ritardato pagamento delle imposte;
la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due ragioni di censura;
l’Agenzia delle entrate ha depositato un atto denominato “di costituzione” con il quale ha dichiarato di costituirsi al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
Considerato che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40, nonchè degli artt. 2697 e 2729, c.c.;
in particolare, deduce parte ricorrente che la pronuncia censurata non si è fondata su elementi gravi, precisi e concordanti, come richiesto dall’art. 39, cit., e, a tal proposito, fa richiamo a quanto diversamente ritenuto dal giudice penale con la pronuncia depositata il 25 febbraio 2013, con la quale si è ritenuto che gli elementi di prova di cui alla verifica fiscale non erano sufficienti per ritenere la fittizietà delle operazioni oggetto delle relative fatture;
evidenzia, quindi, parte ricorrente che il giudice del gravame ha deciso sulla base di elementi privi dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., e che, d’altro lato, l’amministrazione finanziaria non ha assolto all’onere di prova su di essa gravante;
il motivo è infondato;
va osservato, in primo luogo, che il motivo tende a censurare l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame in ordine alla sussistenza di elementi di prova presuntiva circa l’inesistenza delle operazioni, in particolare la mancanza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, facendo riferimento ad una pronuncia penale che non risulta prodotta nel precedente grado di giudizio e di cui non è neppure fornita attestazione del passaggio in giudicato; d’altro lato, vanno ribaditi i consolidati principi di questa Corte in ordine alla separazione tra procedimento tributario e procedimento penale, in particolare che, nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna;
sussiste, dunque, una sostanziale autonomia tra il giudizio penale e quello tributario, sicchè il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio al fine di trarre da essa elementi di giudizio (Cass., Sez. V, 9 marzo 2020, n. 6532), essendo compito del giudice tributario, anche in questo caso, valutare incidentalmente la rilevanza penale della condotta del contribuente (Cass., Sez. V, 4 aprile 2019, n. 9419; Cass. 28130 del 2020);
tale attività del giudice, che comunque presuppone il passaggio in giudicato della sentenza penale, può eventualmente essere compiuta quando la sentenza penale sia stata posta all’attenzione del giudicante, circostanza che non si rileva nel giudizio in esame;
il giudice del gravame, dunque, ha ragionato sulla base degli elementi di prova presuntiva che erano stati posti alla sua attenzione dalle parti e, sotto tale profilo, ha valorizzato diverse circostanze fattuali, in particolare che: il titolare della ditta individuale E. ha dichiarato di non avere avuto rapporti commerciali con la società ricorrente dopo il 1997; le fatture esibite dalla ditta individuale erano state emesse nei confronti di soggetti diversi dalla società ricorrente; il pagamento delle presunte prestazioni era avvenuto mediante emissione di assegni intestati “a noi medesimi”; la società ricorrente non aveva prodotto i contratti in originale nè elementi specifici in ordine alle prestazioni svolte dalla ditta emittente le fatture nè le fatture dal 20 al 28 del 2006;
rispetto a tale quadro fattuale, valutato nel suo complesso e di per sè dimostrativo della inesistenza delle operazioni, il giudice del gravame ha anche esaminato le argomentazioni di senso contrario prospettate dalla società ricorrente, ritenendole non idonee;
non può, quindi, ragionarsi in termini di violazione della previsione di cui all’art. 39 cit., avendo il giudice del gravame specificamente indicato gli elementi di prova presuntiva sulla quale ha basato il proprio convincimento in ordine alla inesistenza oggettiva delle operazioni, nè di violazione dell’art. 2729 c.c., e valutato specificamente e nella loro rilevanza complessiva i diversi elementi di prova presuntiva fatti valere dall’amministrazione finanziaria a fondamento della propria prospettazione;
nè, infine, risulta alterato l’onere della prova, avendo, come detto, la pronuncia fatto specifico riferimento agli elementi di prova presuntiva dedotti dall’amministrazione finanziaria, ritenuti gravi, precisi e concordanti, anche alla luce della non rilevanza delle argomentazioni difensive prospettate dalla società contribuente; con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 96, per avere erroneamente ritenuto non deducibile gli interessi passivi di mora per ritardato pagamento delle imposte;
evidenzia parte ricorrente che, ai fini deducibilità degli interessi, non rileva la circostanza se gli stessi siano o meno accessori al tributo a cui derivano, essendo comunque inequivocabile la loro natura di interessi inerenti;
il motivo è infondato;
la questione di fondo da esaminare è se gli interessi moratori, corrisposti da una società di capitali a titolo di ritardato pagamento delle imposte, siano deducibili;
la base normativa dalla quale procedere è data dalla previsione contenuta nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, secondo cui: “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”;
l’interpretazione fornita da questa Corte è nel senso che (Cass. 14702/2001) deve ritenersi sussistente il diritto alla deducibilità tout court degli interessi passivi, la quale trova esplicito fondamento nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5 (TUIR), norma generale in tema di inerenza, e non nell’art. 63 che attiene esclusivamente alla misura della deduzione secondo gli ivi prefissati limiti quantitativi, essendo stato argomentato, già alla luce della nuova formulazione della norma del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, rispetto a quella corrispondente contenuta nei D.P.R. n. 597 del 1973, art. 74, comma 2 (secondo cui “i costi e gli oneri sono deducibili se ed in quanto si riferiscono ad attività da cui derivano ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito di impresa” senza previsione di alcuna eccezione per gli interessi passivi), che la precisazione aggiunta, secondo cui “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi od altri proventi che concorrono a formare il reddito“, indica la chiara volontà legislativa di riconoscere un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto ai vari componenti negativi del reddito di impresa, nel senso che il diritto alla deducibilità va riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla inerenza, purchè nei limiti quantitativi riconosciuti dall’art. 63 del TUIR.;
si è quindi precisato che gli interessi passivi sono, dunque, oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire, e dunque non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo, occorrendo sempre e comunque un collegamento tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile, che non può rivolgersi ad un reddito ontologicamente diverso perchè estraneo alla stessa attività di impresa;
tuttavia, tali considerazioni non possono condurre a ritenere che la previsione normativa in esame, così come interpretata, implichi che siano sempre deducibili anche gli interessi moratori che devono essere corrisposti dal contribuente in caso di ritardato pagamento del tributo;
è vero che una giurisprudenza più risalente (Cass. civ., 4 giugno 2007, n. 12990) si è espressa nel senso che gli interessi passivi conseguenti al ritardato pagamento del tributo non hanno funzione sanzionatoria ma di compensare l’erario dal ritardo nell’esazione e, dunque, si pongono con funzione compensativa della suddetta ritardata esazione, sicchè, non essendo conseguenze legali di una violazione tributaria e non costituendo di per sè uno specifico onere fiscale, la loro deducibilità non può essere esclusa alla luce della specifica previsione di cui all’art. 63, vecchio testo, che costituisce una regola speciale rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 75, v.t.;
tuttavia, già una successiva giurisprudenza (Cass. civ., 20 maggio 2009, n. 11766; Cass. Civ., 11 aprile 2011, n. 8135) ha posto l’attenzione sulla natura del titolo dal quale deriva l’obbligo di pagamento degli interessi passivi, sicchè non può ragionarsi in termini di deducibilità ove l’obbligazione principale sia una sanzione; questa puntualizzazione assume particolare rilievo, in quanto induce a compiere una necessaria differenziazione nell’ambito della individuazione degli interessi passivi per i quali, effettivamente, il legislatore ha inteso prevedere, nell’art. 109, Tuir, il riconoscimento della deducibilità degli interessi passivi a prescindere da un giudizio di inerenza;
un dato fondamentale, ai fini interpretativi, consistente nel fatto che è lo stesso legislatore, invero, che esclude espressamente, nel comma 5, del suddetto art. 109, Tuir, la deducibilità degli oneri fiscali e tale esclusione non può non comportare, quale conseguenza, che, in caso di ritardo nel pagamento delle suddette, il conseguente onere di pagamento degli interessi di mora, di cui si controverte nel presente giudizio, comporti la sottrazione anche di questi al regime generale della deducibilità;
gli interessi moratori conseguenti al mancato pagamento, oltre che porsi come violazione della specifica previsione normativa che impone di provvedere al pagamento nelle scadenze previste, hanno una funzione risarcitoria, in quanto consentono all’erario di ottenere l’effettivo pagamento del tributo, sia nella sua specifica misura che in quella conseguente al ritardato pagamento;
sotto tale profilo, la prestazione di pagamento degli interessi da ritardato pagamento si pone in termini di accessorietà rispetto all’obbligazione principale e della stessa, quindi, assume la medesima disciplina di non deducibilità;
in termini sostanzialmente analoghi e confermativi della linea interpretativa esposta si è espressa questa Corte (Cass. civ., 25 novembre 2011, n. 24930) che ha precisato che, con particolare riferimento agli interessi passivi, gli stessi, ai fini della deducibilità, devono tradursi in oneri generati dalla funzione finanziaria a sostegno dell’attività aziendale, ovverosia devono afferire all’impresa nel suo essere e progredire sul piano economico e reddituale. Tali interessi devono, in altri termini, necessariamente tradursi, perchè possano essere considerati deducibili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 63 e 75, in costi funzionali alla produzione del reddito di impresa (Cass. 1465/09);
se ne è fatta derivare la considerazione che gli interessi passivi sono deducibili, ai fini della determinazione del reddito in parola, esclusivamente se l’operazione cui accedono, per sua natura, sia rapportabile ai ricavi prodotti dall’attività aziendale: siffatta deducibilità è stata esclusa nelle ipotesi in cui detti interessi non scaturiscano da un’operazione potenzialmente idonea a produrre utili, come nel caso in cui ci si trovi in presenza di interessi moratori dovuti in conseguenza dell’omesso o del tardivo versamento di somme dovute dall’impresa;
in tale specifica ipotesi, si è ritenuto che gli interessi moratori rivestono un’innegabile natura sanzionatoria, giacchè correlati ad un inadempimento dell’imprenditore o degli amministratori della società (per le imprese esercitate in forma associata). Per il che essi, ad avviso della Corte, certamente non possono costituire – al pari di tutte le altre sanzioni irrogate all’impresa (v. Cass. 5050/10) – costi funzionali alla produzione del reddito, come tali deducibili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 63 e 75, (Cass. 1176609, 8135/11); sebbene, per le considerazioni esposta, non possa ritenersi che gli interessi moratori da ritardato pagamento abbiano funzione sanzionatoria, avendo la finalità, piuttosto, di ristabilire, a favore dell’erario, l’intera misura dell’importo da versarsi, correttamente si è ritenuto che gli stessi non trovino fonte nell’attività di impresa, in relazione alla funzione finanziaria generalmente svolta, ma nell’inosservanza di un obbligo nel pagamento del tributo per il quale, già in radice, è da escludersi il diritto alla deduzione; correttamente, quindi, il giudice del gravame ha ritenuto non deducibile il costo consistente nel pagamento degli interessi moratori conseguenti al tardivo pagamento del tributo; in conclusione, i motivi di ricorso sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso;
nulla sulle spese, attesa la mancata costituzione dell’intimata; si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.