Corte di Cassazione ordinanza n. 28048 depositata il 26 settembre 2022
nelle società di capitali a ristretta partecipazione è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, la cui presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria attraverso un ragionamento deduttivo del giudice di merito
Rilevato che:
1. L’Agenzia delle Entrate ricorre, con due motivi, nei confronti di S. M.P., che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.t.r. del Lazio ha rigettato l’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza con la quale la C.t.p. di Roma aveva accolto il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno d’imposta 2002, erano stati recuperati a tassazione maggiori redditi in ragione della qualità di titolare dell’intera quota partecipativa e di amministratrice della F. s.r.l., poi S. s.r.l.
2. La C.t.p. riteneva che la contribuente avesse provato di essere estranea alla gestione della società in quanto mero «prestanome» di tale Bruno Bozzi e che, di conseguenza, non poteva esserle attribuito in via presuntiva l’utile extra-bilancio accertato dall’Ufficio in capo alla società a ristretta partecipazione sociale.
3. La C.t.r., confermando la sentenza di primo grado, riteneva che la M.P. fosse estranea alla gestione societaria nella sua qualità di mero «prestanome» e che la qualità di amministratore di fatto fosse in capo ad altro soggetto, diverso dall’amministratore di diritto. Affermava, inoltre, che, anche prescindendo da tali rilievi, la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili di società a ristretta base, doveva essere sorretta da altri elementi, di cui l’Ufficio non aveva fornito alcuna prova. Concludeva, pertanto, per l’illegittimità dell’avviso di accertamento.
Considerato che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dell’art. 38, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dell’art. 2697 cod. civ.
In particolare, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la presunzione di distribuzione degli utili ai soci debba essere sorretta da ulteriori elementi rispetto alla ristrettezza della compagine sociale e che l’Ufficio non avesse fornito prova in ordine all’effettiva traslazione dei ricavi in capo alla M.P..
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 37 d.P.R. 29 settembre1973, n. 600.
In particolare, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto illegittimo l’accertamento nei confronti della contribuente sul presupposto che la stessa fosse una mera «prestanome» dell’effettivo titolare della ditta.
3. La sentenza impugnata ha in primo luogo escluso la legittimità dell’attribuzione degli utili extracontabili alla contribuente in ragione della sua mera qualità di prestanome e della sua estraneità alla compagine sociale. Ha aggiunto, così esplicitando una seconda motivazione che «in ogni caso, anche a prescindere dai rilievi che precedono» la presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito accertato doveva necessariamente essere sorretta da altri elementi e che l’Ufficio non aveva fornito alcuna prova in ordine alla traslazione dei ricavi non contabilizzati in capo alla M.P..
La pronuncia si basa, pertanto, su due distinte rationes decidendi, ciascuna sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe.
4. Il secondo motivo, da esaminarsi con precedenza in quanto attinge la prima delle motivazioni rese dalla C.t.r., è inammissibile.
Sostiene l’amministrazione che, in ragione del disposto di cui all’art. 37 d.P.R. n. 600 del 1973, «l’”apparenza” del possesso di redditi», anche ove provata, sarebbe «fatto del tutto inidoneo ad esimere il titolare formale del reddito dal pagamento della relativa imposta» in quanto solo la definitività dell’accertamento in capo al titolare effettivo dei redditi sarebbe fatto idoneo ad «esimere il possessore (formale) dei redditi dal pagamento della relativa imposta».
4.1 Diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, questa Corte ha precisato che l’art. 37 cit. ha la finalità di fondare la pretesa nei confronti dell’interponente, ma non dispone in ordine alla correlativa pretesa nei confronti dell’interposto ed ha, altresì, aggiunto, che la norma è coerente con il sistema, in quanto ha la funzione di attribuire l’onere del pagamento delle imposte nei confronti di chi è l’effettivo titolare dei redditi. L’interposto, invece, non è soggetto passivo di imposta, in quanto non ha il possesso dei redditi (Cass. 19/10/2018, n. 26414).
4.2 In ogni caso, il motivo non coglie la ratio decidendi sottesa alla statuizione censurata – alla quale è estraneo il riferimento all’art. 37 cit. – che ha escluso l’obbligazione tributaria in capo alla M.P. conformandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità sul Questa Corte, infatti, è ferma nel ritenere che nelle società di capitali a ristretta partecipazione è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (tra le più recenti, Cass. 17/05/2022, n. 15682, Cass. 11/08/2020, n. 16913, Cass. 24/01/2019, n. 1947, Cass. 20/12/2018, n. 32959; Cass. 22/11/2017, n. 27778; Cass. 18/10/2017, n. 24534).
Tale principio è stato completato precisandosi che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria attraverso un ragionamento deduttivo del giudice di merito incensurabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge. (cfr. Cass. 11/07/2022, n. 21790, Cass. 17/07/2019, n. 19171; Cass. 09/07/2018, n. 18042; Cass. 14/07/2017, n. 17461; Cass. 22/12/2016, n. 26873; Cass. 02/02/2016, n.1932).
Si è, altresì, aggiunto che il socio di società di capitali a ristretta base partecipativa che ricopra anche l’incarico di amministratore può superare la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, non limitandosi a dedurre la propria estraneità alla gestione per l’esistenza di un amministratore di fatto, ma dimostrando la mancata distribuzione degli utili extracontabili oggetto dell’accertamento tributario perché sottratti dal gerente di fatto (Cass. 04/03/2022 n. 7170).
La sentenza gravata, con la prima delle due motivazioni, tra loro alternative, poste a fondamento della decisione, si è attenuta a tali principi, in quanto, con giudizio di fatto non censurato in ricorso, ha espressamente condiviso la motivazione di cui alla sentenza della c.t.p. «laddove ha affermato la qualità di “prestanome” in capo alla resistente e la sua estraneità alla gestione societaria»; da tale accertamento la C.t.r. ha desunto, con un ragionamento induttivo non censurabile con il mezzo di cui all’articolo 360 n. 3 c.c., che nel caso in esame non potesse farsi applicazione della massima di comune esperienza, su cui poggia la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio, che dalla ristrettezza della base sociale inferisce un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi.
Deve aggiungersi che la mancata percezione degli utili extra- contabili da parte della M.P. – in quanto mero prestanome di un terzo soggetto ed estranea alla gestione sociale – è circostanza di fatto che la C.t.r. ha ritenuto provata sia in ragione della documentazione prodotta in atti sia perché non contestata dall’Ufficio.
Tale statuizione – da sola idonea a sorreggere la pronuncia di illegittimità dell’accertamento – non è stata attinta dai motivi di ricorso. L’Ufficio, infatti, ha sostenuto, illustrando il motivo in esame – fondato, come già detto sulla violazione dell’art. 37 d.P.R. n. 600 del 1973 in ragione di un’interpretazione già disattesa da questa Corte – l’irrilevanza della circostanza che, invece, in conformità con quanto ripetutamente affermato con la giurisprudenza sopra richiamata, è dirimente.
5. Poiché le censure avverso la prima ratio non hanno trovato accoglimento, nei termini di cui sopra, il primo motivo del ricorso, relativo alla seconda ragione di decisione, è, anch’esso, Infatti, qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (tra le più recenti, Cass. 14/08/2020, n. 17182).
6. Il ricorso va, dunque, complessivamente dichiarato inammissibile.
7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
8. Essendo soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
PQM
Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione in favore della controricorrente delle spese processuali, che liquida nell’importo di euro 10.000,00 per competenze ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento, e accessori come per legge.
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