Corte di Cassazione ordinanza n. 28952 depositata il 5 ottobre 2022
nuove eccezioni
RITENUTO CHE
1. L’Agenzia delle entrate ha impugnato, con un unico motivo, la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto (di seguito, CTR), di cui in epigrafe, con la quale, in accoglimento dell’appello proposto dalla società F. di G.L. & C. s.a.s. (di seguito, F.) e dai soci, L.G., C.S., L.R., L.I., erano stati annullati gli avvisi di accertamento, emessi nei loro confronti, per l’annualità 2004.
Dalla narrativa della sentenza impugnata risulta che gli avvisi di accertamento riguardavano il maggior reddito della società «relativo all’atto di permuta di un fabbricato residenziale non contabilizzato nell’esercizio di competenza» e, per i soci, riguardavano «il maggior reddito loro derivante dalla partecipazione all’impresa».
2. La Commissione tributaria provinciale rigettava i ricorsi (riuniti) dei contribuenti, confermando integralmente l’operato dell’Ufficio, sul rilevo che la società F., a seguito dell’omessa fatturazione del ricavo di vendita dell’immobile promesso in permuta, aveva omesso di dichiarare un maggior reddito imponibile di euro 100.000,00.
3. La CTR ribaltava tale decisione ritenendo che i contribuenti avevano dato prova dei costi sostenuti per la permuta e che avevano provveduto a fatturare l’incasso, per la definitiva cessione dell’immobile, all’atto del perfezionamento della permuta ovvero quando il bene promesso in permuta era venuto ad esistenza.
4. I contribuenti tutti hanno resistito con controricorso.
5. Con ordinanza interlocutoria resa all’udienza del 17 luglio 2020, questa Corte, rilevato che la ricorrente Amministrazione, in adempimento dell’obbligo di cui all’art. 369, secondo comma, cod. proc. civ., aveva depositato, insieme al ricorso, alla cancelleria della CTR del Veneto, la richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, ha rinviato a nuovo ruolo per l’acquisizione di detto fascicolo.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo ed unico motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., la violazione dell’art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per essere state introdotte, da parte contribuente, domande nuove in appello, in quanto «se nell’esposizione dei fatti ed in linea di diritto controparte ha lamentato il mancato riconoscimento degli asseriti costi correlati ai maggiori ricavi accertati dall’ufficio ai fini Irpef (circostanza addotta anche in primo grado), nelle conclusioni si riscontrano domande del tutto nuove e come tali inammissibili rispetto a quelle formulate in primo grado». La ricorrente Amministrazione ha trascritto in ricorso le conclusioni del ricorso proposto dalla società F. in prime cure e quelle proposte in grado di appello, imputando alla CTR l’error in procedendo nella parte in cui ha annullato integralmente tutti gli avvisi di accertamento, tra cui anche quello della società che, invece, nella parte afferente all’Iva, era stato impugnato solo in appello e non col ricorso Secondo l’assunto erariale, la società aveva chiesto, al giudice di appello, di dichiarare che alcuna evasione di imposta v’era stata in quanto l’operazione di permuta era neutrale (il ricavo di vendita aveva trovato corrispondenza nel costo di acquisto di pari valore dell’immobile da ristrutturare) e che nessun obbligo di emissione di fattura v’era stato, mentre, ai giudici di prime cure, aveva chiesto soltanto di dichiarare nullo l’avviso di accertamento per carenza di motivazione anche in ordine alla ritenuta esclusione della neutralità fiscale dell’operazione.
1.1 La difesa dei controricorrenti, dopo aver eccepito il giudicato interno con riguardo all’annullamento degli avvisi di accertamento riguardanti i soci e dell’accertamento concernente la società resistente, in relazione al maggior reddito di impresa e all’IRAP, ha poi rilevato, per la parte residua riguardante l’Iva, la totale infondatezza del gravame, in quanto per l’unicità del presupposto impositivo (operazione di permuta di cosa futura) e del collegamento funzionale nel rapporto tra società e soci, l’impugnazione della società non poteva che aver ad oggetto tanto le imposte dirette quanto l’Iva, come da contestazione regolarmente introdotta nel contraddittorio processuale costituitosi in primo grado.
2. L’unico motivo di ricorso deve essere rigettato per la ragioni di seguito esposte.
2.1 E’ principio pacifico, in dottrina e giurisprudenza, che il giudizio tributario è un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio. Dalla natura dell’impugnazione, ne deriva che il giudice, il quale ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali ma sostanziali, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria ed eventualmente ricondurla la corretta misura entro i limiti posti dalle domande delle parti. La fondatezza della pretesa tributaria va giudicata, dunque, in base a quanto devoluto al giudice tramite le censure specifiche mosse dal ricorrente in relazione alla pretesa erariale evidenziata dall’atto in positivo.
2.2 E’ principio altrettanto pacifico che, nel processo tributario, il divieto di ultrapetizione e quello di proporre in appello nuove eccezioni (non rilevabili d’ufficio) posto dall’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riguarda eccezioni in senso tecnico e non le mere argomentazioni difensive, tendenti ad inficiare la sentenza sotto un profilo logico ulteriore rispetto a quello esposto in primo grado, atteso che le difese, le argomentazione e le prospettazioni con cui l’Amministrazione si difende dalle contestazioni già dedotte in giudizio non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso stretto (ex multis, Cass., 03/02/2021, n. 2413).
3. L’acquisizione del fascicolo di Ufficio ha consentito di mettere a confronto le eccezioni dei contribuenti in primo grado e quelle formulate in appello col risultato che non sussiste il vizio denunciato.
In particolare, la contestazione di parte contribuente della pretesa relativa all’Iva era stata ritualmente introdotta nel processo già a partire dal primo grado, come risulta già dal ricorso della società e dei soci innanzi alla Commissione tributaria provinciale (v. da pag. 3 e ss. dei ricorsi introduttivi, ove parte contribuente insiste nel rilevare, sia nei motivi in fatto che in quelli in diritto, come la corrispondenza tra il valore di acquisto e il valore di cessione rendesse l’operazione fiscalmente neutra, ovvero insuscettibile di produrre maggiori redditi ovvero corrispettivi imponibili, concludendo per l’accertamento della sussistenza di costi connessi all’atto di permuta oggetto della ripresa fiscale e, quindi, per la neutralità fiscale dell’operazione con il rigetto delle pretese erariali per carenza dei presupposti impositivi; in subordine la società eccepiva la totale compensazione tra il suddetto credito d’imposta e l’imposta che l’Ufficio aveva calcolato in ragione dell’aliquota del 10%), tant’è che la decisione di rigetto dei primi giudici sul punto si è basata proprio sull’imponibilità Iva dell’operazione permuta.
3.1 Ed invero, i primi giudici hanno rigettato il ricorso della F. per omessa fatturazione del ricavo di vendita dell’immobile promesso in permuta e per omessa dichiarazione di un maggior reddito imponibile di euro 000,00, ritenendo che: a) «[…] ai fini delle imposte dirette l’impresa consegue un componente positivo di reddito pari al valore normale del bene che ottiene in cambio, più l’eventuale conguaglio in denaro ricevuto e sostiene un componente negativo pari al costo del bene permutativo più l’eventuale conguaglio pagato»; b) «[…] ai fini della base imponibile Iva le operazioni si assumono rilevanti ai sensi dell’articolo 11 del DPR 633 del 1972»; c) «[…] sull’ asserito mancato riconoscimento dei costi sono ammessi in deduzione costi che sebbene non imputati a conto economico sono correlati a maggiore ricavi accertati dagli uffici finanziari in sede di rettifica della dichiarazione sempre che risultino da elementi certi e precisi […]detti costi nel caso di specie non sono certi né precisi»; d) «[…] il credito Iva per effetto dell’inserimento della cessione del fabbricato oggetto di causa, è stato illegittimamente rideterminato dall’Ufficio come emerge a pagina 7 dell’avviso stesso».
3.2 Deve ritenersi, dunque, che l’appello della società con il quale parte contribuente ha contestato l’accertamento dell’Ufficio sia sotto il profilo delle imposte dirette, sia sotto quello relativo all’Iva, concludendo per la insussistenza dell’asserito obbligo di fatturazione del cd. corrispettivo di permuta al momento della stipula del relativo atto notarile, non ha riguardato nuove eccezioni (in senso tecnico), ma argomentazioni difensive, tendenti ad inficiare la sentenza di primo grado sotto un profilo logico comunque connesso a quello esposto in primo grado. Ed invero, da un lato i motivi di impugnazione proposti dalla parte contribuente in prime cure erano idonei a contestare la pretesa erariale sotto tutti i suoi aspetti e, dall’altro, le censure specifiche mosse in appello hanno confermato tale impostazione contestando la decisione emessa dai primi giudici sotto tutti i profili, compresa l’Iva.
3.3 Ciò è reso ancor più percepibile dalle conclusioni formulate in grado di appello («in via principale dichiarare nullo l’avviso di accertamento impugnato perché messi in relazione all’articolo 7 della legge 27/07/2000 n. 212 Statuto dei diritti del contribuente per carenza di motivazione e sua palese infondatezza laddove viene affermato quanto segue: tenuto conto che il fabbricato in questione è stato sottoposto a un radicale intervento di ristrutturazione (con evidente sgravio di costi a carico sulla società) la tesi addotta attorno alla neutralità fiscale dell’operazione non può essere condivisa; in via subordinata confermare l’esistenza dei costi per euro 100.000 generati dalla permuta che ha determinato l’insorgenza dei maggiori ricavi accertati per euro 100.000. Confermare altresì la neutralità fiscale delle operazioni di permuta in ragione della diversa superficie degli immobili scambiati. Darsi atto, inoltre, che nessun mancato versamento è stato posto in essere atteso che a fine esercizio 2004 la società era in credito di Iva di euro 17.801 come si rileva a pagina 7 dell’atto impugnato», v. ricorsi dei contribuenti contenuti nel fascicolo d’ufficio), nonché dall’ultimo inciso della sentenza impugnata nel quale si dà atto dell’assolvimento, da parte della società, dell’obbligo di fatturazione, di cui all’art. 6 d.P.R. n. 633 del 1972 («successivamente così come previsto l’articolo 6 del DPR numero 633 del 1972 l’appellante ha provveduto a fatturare l’incasso per la definitiva cessione dell’immobile, all’atto di perfezionamento della permuta da quando cioè il bene è venuto in essere per effetto della ristrutturazione del fabbricato»).
4. Infine, alcuna rilevanza ha l’asserita violazione dell’art. 11 d.P.R. n. 633 del 1972, non avendo l’Amministrazione ricorrente, all’uopo, formulato alcuna censura volta a chiarire in che termini tale violazione concretasse l’errore in procedendo per violazione dell’art. 57 d.lgs. cit. su cui è impostato l’intero ricorso.
5. Le spese di giudizio, per il principio della soccombenza, vengono poste a carico della Agenzia delle entrate, liquidate come da dispositivo.
6. Non sussistono i presupposti per il versamento del doppio contributo, trattandosi di amministrazione pubblica ammessa a prenotazione a debito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in complessivi euro 5.600,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre il 15% per spese generali ed accessori di legge.
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