CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 28966 depositata il 18 ottobre 2023
Lavoro – Contratto individuale di lavoro a termine – Indennità di posizione – Restituzione dell’importo netto corrisposto in misura eccedente l’importo minimo inderogabile previsto dal CCNL – Retribuzione di posizione concordata tra le parti in contrasto con i limiti previsti dal contratto collettivo di comparto – Impiego pubblico contrattualizzato – Retribuzione dirigenziale – Rigetto – per ingenerare un legittimo affidamento in una prestazione indebita, non basti l’apparenza di un titolo posto a fondamento dell’attribuzione – titolo che deve comunque radicarsi in una disposizione di legge o di regolamento o in un contratto – ma conta in primis il tipo di relazione fra solvens e accipiens”
Rilevato che
1. La Corte d’appello di Catanzaro ha accolto l’appello della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cosenza (d’ora in avanti anche CCIAA) e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il diritto dell’appellante alla restituzione dell’importo netto corrisposto a D.R., a titolo di indennità di posizione per l’anno 2014 in misura eccedente l’importo minimo inderogabile previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato ed ha condannato la R. a pagare l’importo differenziale netto percepito, maggiorato di interessi legali dalla data della notifica del ricorso di primo grado fino al soddisfo.
2. La Corte territoriale ha premesso che D.R., designata segretaria della Camera di Commercio di Cosenza e della Camera di Commercio di Crotone, in forma associata e in regime convenzionale con la Camera di Commercio di Cosenza, ha stipulato con quest’ultima in data 6.11.2013 un contratto individuale di lavoro a termine avente per oggetto lo svolgimento, dal 31.12.2013 all’1.1.2019, dell’incarico di segretario generale, pattuendo una retribuzione di posizione pari ad euro 110.000,00 lordi annui, in aggiunta alla retribuzione tabellare prevista dal c.c.n.l. Area dirigenza enti locali e ai compensi relativi all’attività di direzione delle aziende speciali camerali negli importi stabiliti dai rispettivi bilanci; che, receduta dalla convenzione con la Camera di Commercio di Crotone, la Camera di Commercio di Cosenza (con delibera n. 5/2015) ha decretato la cessazione ante tempus, e con effetto immediato, dell’incarico conferito alla R. e, con ricorso al Tribunale di Cosenza del 6.6.2017, ha chiesto la restituzione dell’importo indebitamente versato nel 2014 a titolo di retribuzione di posizione.
3. I giudici di appello hanno ritenuto che la misura della retribuzione di posizione fosse stata concordata tra le parti in contrasto con i limiti previsti dal contratto collettivo di comparto; che, nella specie, non esistevano le condizioni per superare il limite massimo della retribuzione di posizione, come consentito agli enti aventi una struttura organizzativa complessa, mancando la disponibilità delle risorse destinate al finanziamento dell’apposito Fondo; che il ricorso alle risorse del bilancio non poteva ritenersi legittimato dal “metodo di imputazione transitoria a bilancio dell’indennità di segretario generale”.
4. Avverso tale sentenza D.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cosenza ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
5. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che
6. Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di merito tenuto conto di una serie di allegazioni e di documenti (Relazione MEF – S.i.Fi.P – Servizi Ispettivi di Finanza Pubblica – del 17.4.2012, Delibera di Giunta n. 14 del 2013, pareri MEF, MISE e verbale Collegio dei Revisori dei Conti della CCIAA n. 9/2015 e n. 5/2016, provvedimento di archiviazione del procedimento dinanzi alla Corte dei Conti) che, se esaminati, avrebbero fatto emergere la complessità della struttura organizzativa dell’Ente e la capienza del Fondo, costituenti requisiti legittimanti l’erogazione della retribuzione di posizione in misura superiore al limite imposto dalla contrattazione collettiva.
7. Il motivo è inammissibile. In relazione al novellato art. 360 n. 5 c.p.c., le Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014) e le successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016) hanno precisato che l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo, idoneo, ove esaminato, a determinare un esito diverso della controversia.
Nel caso di specie, difettano tali requisiti poiché si assume l’omesso esame non di un fatto storico, bensì di plurimi documenti, ciascuno di essi evidentemente non decisivo, ma che, in base ad una valutazione complessiva e alternativa a quella operata dai giudici di appello, potrebbe condurre ad un risultato diverso della lite. In tal modo, la parte ricorrente sollecita null’altro che una revisione del procedimento decisorio svolto in sede di merito, sia nella selezione degli elementi probatori rilevanti e sia nell’apprezzamento degli stessi, ma una simile sollecitazione non è riconducibile al vizio dedotto e neppure all’ambito del giudizio di legittimità.
8. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., dell’art. 2126 c.c., dell’art. 20 L. n. 580 del 1993, degli artt. 2, commi 3 e 3 bis, 19, 24, 40, comma 3 ter e 3 quater, 47 bis d.lgs. 165 del 2001, 12 delle Preleggi, 1362 e ss. c.c., art. 37, comma 2, c.c.n.l. Area II (Dirigenti Reg. e EE.LL.) del 1996, art. 26, comma 3, 27, comma 5 c.c.n.l. Area II (Dirigenti Reg. e EE.LL.) del 2010. Si assume che se la Corte d’appello avesse correttamente interpretato le citate norme di legge e dei contratti collettivi sarebbe giunta alla conclusione per cui, al ricorrere di determinate condizioni, il riconoscimento di una somma maggiorata rispetto ai minimi retributivi era legittima, a nulla rilevando l’indicazione del Fondo a cui imputare le somme; che la contrattazione collettiva ha autorizzato, per le Camere di Commercio, una deroga in melius rispetto al parametro massimo di cui all’art. 5, comma 3 del c.c.n.l. Comparto Regioni – Enti Locali, Area Dirigenza del 3.8.2010, al ricorrere di specifiche condizioni: la complessità della struttura camerale riconosciuta tramite provvedimenti emanati dagli organi deliberativi dell’Ente e la disponibilità di risorse economiche per finanziare l’emolumento; la contrattazione collettiva, invece, non ha posto condizioni rispetto al quomodo, cioè alla fonte da cui attingere per il pagamento delle somme suddette, fermo che l’art. 26 del c.c.n.l. 1998-2001 riconosce espressamente il potere di prelevare dal bilancio – impegnando il relativo capitolo – gli importi dovuti al dirigente a titolo di retribuzione di posizione; che nel caso di specie, la decisione prudenziale di “congelare” il bilancio camerale non poteva comportare la privazione del diritto della lavoratrice a percepire la somma riconosciutale da parte datoriale “se l’ammontare era determinato nel pieno rispetto delle disposizioni legislative e correttive e le risorse erano sufficienti” (ricorso, pag. 24); che la CCIAA ha deciso di ripristinare il Fondo dirigenti solo a partire dal 2015 mentre, come risulta dal verbale n. 1/2015, il Fondo dell’anno 2014 per la retribuzioni di posizione e di risultato per la dirigenza (di euro 116.790,99) era stato congelato in attesa delle verifiche del S.i.Fi.P.
9. Il motivo è infondato.
10. Questa Corte ha precisato (v. da ultimo Cass. n. 11645 del 2021 in motiv.) che nell’impiego pubblico contrattualizzato, ove difettino specifiche disposizioni derogatorie della regola generale, deve essere escluso in radice il potere unilaterale del datore di lavoro di discostarsi, nella disciplina del singolo rapporto di impiego, dall’assetto definito in sede di contrattazione collettiva, perché il superamento dello statuto pubblicistico è stato realizzato dal legislatore ordinario attraverso un «equilibrato dosaggio di fonti regolatrici» (Corte Cost. n. 313/1996 e Corte Cost. n. 309/1997) che si incentra sul ruolo centrale della contrattazione collettiva, a sua volta oggetto di una specifica disciplina finalizzata a garantire l’attuazione dei principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost., di modo che «l’osservanza, da parte delle amministrazioni, degli obblighi assunti con i contratti collettivi rappresenta il conseguente e non irragionevole esito dell’intera procedura di contrattazione, la quale prende le mosse dalla determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che interessa a sua volta molteplici profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità finanziaria» (Corte Cost. n. 309/1997).
11. Si è quindi consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui l’adozione da parte della P.A. di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, con il quale venga attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, giacché la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla volontà delle parti collettive (cfr. fra le tante Cass. n. 17226/2020; Cass. n. 21166/2019; Cass. n. 15902/2018; Cass. n. 25018/2017; Cass. 16088/2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
12. Si è anche evidenziato che il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e che, per la particolare natura del rapporto nell’impiego pubblico fra contratto collettivo ed individuale, la restituzione non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore medesimo.
13. Si tratta di principi che valgono anche per il rapporto dirigenziale in quanto già l’art. 24 del d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nell’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, stabiliva che «la retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, prevedendo che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità» ed escludeva, pertanto, che il trattamento accessorio potesse essere liberamente quantificato al momento della sottoscrizione del contratto individuale.
14. La sentenza impugnata non si è discostata dai principi di diritto appena richiamati e, correttamente, dopo avere accertato l’avvenuta erogazione del trattamento accessorio in palese violazione della disciplina dettata dal contratto collettivo, essendo “incontestata” la mancanza delle risorse destinate al finanziamento dell’apposito Fondo (sentenza d’appello, pag. 7) e data l’assenza dei presupposti per il legittimo utilizzo delle risorse del bilancio, ha ritenuto legittima l’azione di recupero avviata dalla Camera di Commercio.
15. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e in via subordinata, la violazione o falsa applicazione delle medesime disposizioni di legge e dei contratti collettivi, sostenendosi che, in base alla disciplina contenuta nell’art. 27, comma 5, c.c.n.l. 23.12.1999, la Corte d’appello avrebbe dovuto – semmai – condannare la lavoratrice a restituire la somma eccedente l’importo massimo di euro 45.102,87 lordi e non quella oltre il minimo di euro 11.533,17.
16. Il motivo è infondato. La Corte di merito (sentenza, pag. 10) ha individuato l’indebito nell’importo superiore al minimo inderogabile, alla luce della delibera della Camera di Commercio n. 2 del 2015 che ha ridotto l’indennità di posizione spettante alla R. alla somma suddetta, in conformità alle citate previsioni del contratto collettivo, una volta venuta meno, proprio in ragione della non conformità alla contrattazione collettiva, la pattuizione individuale di deroga in melius.
17. Con il quarto motivo si censura la sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. e del principio del legittimo affidamento in rapporto agli artt. 11 e 117 Cost. e all’art. 1 del Protocollo 1 alla Cedu, per aver considerato ripetibili le somme erogate a titolo di retribuzione di posizione alla R., in assenza dei presupposti legittimanti l’azione ex art. 2033 c.c. e ponendosi tale interpretazione in contrasto con il principio della tutela del legittimo affidamento come delineato da recenti pronunce della Cedu, della Corte di Cassazione e, da ultimo, dall’ordinanza Cass. n. 40004 del 2021 che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c. per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo 1 alla Cedu.
18. Il motivo è infondato.
19. La sentenza impugnata si è attenuta ai principi enunciati in sede di legittimità e già sopra richiamati (v. Cass. n. 11645 del 2021 cit.) secondo cui “il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e che, per la particolare natura del rapporto nell’impiego pubblico fra contratto collettivo ed individuale, la restituzione non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore medesimo”.
20. Quanto al legittimo affidamento, la sentenza della Corte Costituzionale n. 8 del 2023, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c., sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU (v. ordinanza interlocutoria di questa S.C. n. 40004 del 2021), ha ricordato: che “la Corte EDU ha individuato quali elementi costitutivi dell’affidamento legittimo: l’erogazione di una prestazione a seguito di una domanda presentata dal beneficiario che agisca in buona fede o su spontanea iniziativa delle autorità; la provenienza dell’attribuzione da parte di un ente pubblico, sulla base di una decisione adottata all’esito di un procedimento, fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione sia percepita dal beneficiario come fonte della prestazione, individuabile anche nel suo importo; la mancanza di una attribuzione manifestamente priva di titolo o basata su semplici errori materiali;
un’erogazione effettuata in relazione a una attività lavorativa ordinaria e non a una prestazione isolata o occasionale, per un periodo sufficientemente lungo da far nascere la ragionevole convinzione circa il carattere stabile e definitivo della medesima; la mancata previsione di una clausola di riserva di ripetizione”; che “la giurisprudenza della Corte EDU offre una ricostruzione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU volta a stigmatizzare interferenze sproporzionate rispetto all’affidamento legittimo ingenerato dall’erogazione indebita da parte di soggetti pubblici di prestazioni di natura previdenziale, pensionistica e non, nonché retributiva”; ha sottolineato come “per ingenerare un legittimo affidamento in una prestazione indebita, non basti l’apparenza di un titolo posto a fondamento dell’attribuzione – titolo che deve comunque radicarsi in una disposizione di legge o di regolamento o in un contratto – ma conta in primis il tipo di relazione fra solvens e accipiens”; ha aggiunto che tra le “tutele specifiche e particolarmente incisive, che escludono la ripetizione dell’indebito, (si annovera) la previsione di cui all’art. 2126 cod. civ., riferita a una prestazione di natura retributiva… che costituisce un presidio contro pretese restitutorie avanzate dal datore di lavoro, compresa la pubblica amministrazione (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 5 novembre 2021, n. 32263 e 31 agosto 2018, n. 21523), ma a condizione che l’indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 23 novembre 2021, n. 36358); per converso, la norma non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale – «il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass. ordinanza n. 36358 del 2021)”.
21. Nel caso in esame la configurabilità di un legittimo affidamento è impedita, tra l’altro, dalla mancanza di un titolo apparentemente idoneo a fondare il diritto alla retribuzione di posizione nella misura versata ed anzi dalla accertata contrarietà della misura della retribuzione per cui è causa alle previsioni del contratto collettivo, rilevata in plurime note e pareri espressi dal Ministero su richiesta della medesima Camera di Commercio (v. sentenza appello, pag. 8).
22. Le considerazioni finora svolte conducono al rigetto del ricorso.
23. Le spese sono regolate secondo il criterio di soccombenza e liquidate come in dispositivo.
24. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto che ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, a norma del comma 1 bis dell’art. 13 cit.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in € 5.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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