CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 28994 depositata il 18 ottobre 2023

Lavoro straordinario diurno – Sufficienza dei prospetti paga – Elementi propri dei conteggi elaborati dai dipendenti – Errati criteri di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali – Inammissibilità

Rilevato che

1.- L’odierno controricorrente e gli altri intimati, dipendenti della società ricorrente, avevano ottenuto con sentenza n. 92/2018 del Tribunale di Trieste la declaratoria del loro diritto ad un’ora di retribuzione per lavoro straordinario diurno per ogni settimana di lavoro effettivo, solo in parte riformata dalla sentenza della Corte d’Appello di Trieste, che, tenuto conto dell’eccezione di prescrizione, aveva delimitato il periodo rilevante dal 2008 ad aprile 2017.

Sulla base di tali sentenze e di prospetti paga i dipendenti avevano chiesto ed ottenuto decreti ingiuntivi per le corrispondenti somme.

2.- Le opposizioni proposte dalla società, previa riunione, venivano rigettate da Tribunale.

3.- L’appello proposto dalla società veniva respinto dalla Corte territoriale con la sentenza in epigrafe.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) il credito vantato dai lavoratori è dimostrato da prova scritta, rappresentata sia dalle sentenze (di primo e di secondo grado) relative al loro diritto ad un’ora di compenso per lavoro straordinario a settimana, sia dai prospetti paga, documenti provenienti dalla stessa datrice di lavoro, sulla base dei quali, mediante mere operazioni aritmetiche, si perviene al relativo risultato sulla base di un divisore riferito alla settimana di lavoro effettivo, facilmente desumibile dal CCNL;

b) quanto all’ulteriore profilo della quantificazione del credito, va ricordato che alla base della vicenda sta la fornitura, da parte della società ai propri dipendenti, di tute ad alta visibilità, il cui costo di lavaggio era stato sopportato dai lavoratori, che avevano chiesto in giudizio l’accertamento del loro diritto al rimborso di detti costi, anche in via equitativa;

c) proprio su tale domanda il Tribunale, con la sentenza n. 92/2018, aveva utilizzato il criterio della commisurazione ad un’ora di retribuzione di lavoro straordinario per ciascuna settimana di lavoro effettivo;

d) le ulteriori contestazioni sollevate dalla società in questo grado sono del tutto generiche e non tengono conto dei prospetti paga, documenti provenienti da essa stessa, dai quali è possibile pervenire mediante elementare sommaria a ricostruire i giorni di lavoro effettivo per ciascun appellato, escludendo quindi ferie, permessi e riposi; ottenuto così il totale lo si divide per il numero rappresentativo della settimana lavorativa;

e) contrariamente all’assunto della società appellante, “sul piano logico e di fatto il fattore di calcolo non è la presenza al lavoro, ma l’esigenza di lavaggio individuata in via equitativa come ricorrente una volta ogni settimana lavorata”.

4.- Avverso tale sentenza F.V.G.S. spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.

5.- B.T. ha resistito con controricorso.

6.- Gli altri dipendenti sono rimasti intimati.

7.- La ricorrente ed il controricorrente hanno depositato memoria.

Considerato che

1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti discussi dalle parti e decisivi per il giudizio.

La società deduce che la motivazione addotta dalla Corte territoriale per confermare la sentenza di primo grado sarebbe diversa da quella addotta dal Tribunale per rigettare l’opposizione (quest’ultima fondata sulla non contestazione del valore dell’ora di straordinario, sull’assenza di elementi da cui desumere la divergenza tra presenze mensili conteggiate dai dipendenti e quelle dei prospetti presenze, sul carattere astratto del criterio utilizzato dalla società nel proprio conteggio alternativo). Ciò al fine di giustificare l’ammissibilità del motivo di ricorso in esame ai sensi dell’art. 348 ter, ult. co., c.p.c.

Il motivo è inammissibile non per la c.d. doppia (pronunzia) conforme, vista la parziale diversità delle motivazioni articolate dai giudici dei due gradi di merito, bensì per mancanza dei requisiti del fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame.

Al riguardo va evidenziato che la ricorrente si riferisce ad una molteplicità di ciò che essa qualifica come “fatti”: le buste paga con il valore dello straordinario, le presenze prodotte da essa società circa le settimane di lavoro effettivo e il conteggio alternativo elaborato da essa società. E’ evidente che non si tratta di “fatti storici”, bensì di elementi probatori processuali inerenti il convincimento dei giudici di appello, sicché la loro “natura” è del tutto diversa da quella presupposta dal motivo di ricorso di cui all’art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c. Inoltre, la loro molteplicità ne inficia, in radice, la decisività, requisito che implica che uno soltanto sia il “fatto storico” di cui si denunci l’omesso esame.

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione o falsa applicazione” dell’art. 115 c.p.c. sotto il profilo del travisamento della prova, per avere la Corte territoriale travisato le buste paga, non risultando né da queste né da altri documenti la durata (di cinque o di sei giorni) della settimana lavorativa effettiva e non essendo mai stato depositato il CCNL, che, secondo la motivazione dei giudici di appello, avrebbe dettato il divisore utile per il calcolo del dovuto.

Il motivo – previa esatta riconduzione all’ipotesi prevista dall’art. 360, co. 1, n. 4) c.p.c. – è inammissibile.

In primo luogo la questione della durata – di cinque o di sei giorni – della settimana di “effettivo lavoro” è questione nuova, che la Corte territoriale non ha affrontato. Pertanto, ai fini della sufficiente specificità del motivo in esame, la ricorrente avrebbe dovuto indicare e specificare in quale fase e/o grado tale questione era stata posta ed in quali atti processuali. Tale onere è rimasto inadempiuto. Anzi, dal tenore della ricostruzione del contenuto sia del ricorso in opposizione, sia del ricorso in appello (v. ricorso per cassazione, pp. 6-11), si evince che la predetta questione non è stata mai posta.

Quanto, poi, al CCNL, è vero che – come ammesso pure dal controricorrente (v. controricorso, p. 6) – esso non è stato prodotto in giudizio, ma è altresì vero che il riferimento a tale “fonte” collettiva, nell’economia della motivazione della Corte territoriale, rappresenta solo un obiter dictum, come tale privo di efficacia determinante ai fini della decisione del gravame. Per la quantificazione delle somme, infatti, i giudici di appello hanno argomentato sull’ampia sufficienza dei prospetti paga (elaborati dalla stessa società) “dai quali, per elementare sommatoria, si perveniva con agio a ricostruire tutti i giorni di lavoro effettivo … non considerando all’evidenza ferie, permessi e riposi e così, ottenuto il totale, a dividere il tutto per un numero di una sola cifra rappresentativa della settimana per ottenere il risultato …” (cfr. sentenza impugnata, pp. 7-8).

Poi la Corte territoriale ha motivato ulteriormente, ma precisando che quello esposto era già un “decisivo rilievo” (v. sentenza impugnata, p. 8), ossia un’argomentazione più che sufficiente per rigettare il motivo di gravame relativo alla quantificazione del credito. Ciò conferma che il successivo riferimento al CCNL è solo confermativo di un convincimento già esaurientemente raggiunto, sicché l’eventuale travisamento al riguardo è privo di efficacia invalidante rispetto alla decisione dell’appello.

3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 111 Cost e 132 c.p.c. per avere la Corte territoriale parlato di “divisore”, di “numero di una sola cifra” nonché di un CCNL, senza identificare il primo (il divisore), senza quantificare il secondo (il numero di una sola cifra) e senza indicare quale fosse il CCNL applicato.

Il motivo è inammissibile: la violazione dell’onere di motivazione sussiste solo quando non siano in alcun modo intellegibili i passaggi logico-giuridici attraverso i quali la Corte territoriale sia pervenuta al proprio convincimento.

Nel caso in esame, invece, la mancata specificazione di quegli elementi considerati per il calcolo, pur peculiare, è irrilevante, poiché i giudici di appello si sono chiaramente riferiti agli elementi propri dei conteggi elaborati dai dipendenti, sicché, sia pure per relationem, quei dati sono identificabili.

4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 437 c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto generico il secondo motivo di appello.

Il motivo – previa esatta riconduzione all’ipotesi prevista dall’art. 360, co. 1, n. 4) c.p.c. e quindi ad un error in procedendo – è inammissibile: la stessa ricorrente contraddittoriamente ammette che “nondimeno [la Corte territoriale] ha esaminato nel merito le censure” (v. ricorso per cassazione, p. 15). Ne consegue che pure a tal riguardo, peculiari frasi come “vago cenno ad errori non meglio definiti ed indicati di computo” e “si pone qui in risalto la laconica ed ultragenerica contestazione operata in questo grado” non hanno poi avuto alcuna effettiva incidenza invalidante sulla motivazione, che – come ammesso dalla stessa ricorrente – è stata compiutamente articolata nel merito della questione dei conteggi necessari per la quantificazione del credito.

5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione o falsa applicazione” degli artt. 414, 416, 420, 437, 645 c.p.c. e 2697 c.c. per avere la Corte territoriale rigettato il motivo di appello, con cui era stata censurata la decisione di primo grado per avere il Tribunale ritenuto generiche le contestazioni sul quantum ed invertito l’onere della prova.

Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

E’ inammissibile laddove si censura la “violazione o falsa applicazione” degli artt. 414, 416, 420, 437, 645 c.p.c. senza specificare in cosa sarebbe consistito l’error in procedendo commesso alla luce delle predette norme di rito. La ricorrente, infatti, si duole sostanzialmente di un error in iudicando e allora avrebbe dovuto indicare le norme di diritto sostanziale asseritamente violate.

Il motivo è poi infondato in relazione all’art. 2697 c.c.

La Corte territoriale ha evidenziato che il credito vantato dai dipendenti trovava origine in pronunzie giurisdizionali (di primo e di secondo grado) e la prova del fatto costitutivo del credito era stata data con i prospetti paga emessi dalla stessa società, da cui si desumevano le giornate lavorate e il valore monetario dell’ora di lavoro straordinario. A fronte di ciò, era onere della società – in quanto debitrice – dimostrare fatti impeditivi e/o modificativi del quantum del credito vantato, proprio secondo quanto prevede l’art. 2697 c.c., che pertanto è stato rettamente applicato.

Che poi gli elementi documentali prodotti dalla datrice di lavoro siano stati ritenuti insufficienti è profilo che attiene al convincimento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità qualora – come nella specie – motivato. Come questa Corte ha più volte affermato, “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. ord. n. 29404/2017; Cass. n. 9097/2017; Cass. n. 7921/2011).

6.- Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente lamenta l’omessa pronunzia sull’eccezione, reiterata in appello, relativa agli errati criteri di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali. In particolare lamenta che, quand’anche il capitale fosse da ritenere calcolato esattamente, restava ferma l’eccezione, reiterata in appello, relativa alla decorrenza degli accessori dal 1^ gennaio di ciascun anno sull’intero capitale che sarebbe maturato nell’anno medesimo.

Il motivo è inammissibile: a fronte del silenzio della Corte territoriale, ai fini della specificità e dell’autosufficienza del motivo sarebbe stato onere della ricorrente riportare esattamente il tenore del ricorso d’appello nel quale quell’eccezione era stata sollevata, oppure almeno indicare esattamente il punto dell’atto processuale contenente quell’eccezione. Tale onere non è stato adempiuto.

7.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.