Corte di Cassazione ordinanza n. 29431 depositata il 10 ottobre 2022
l’Amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione – operazioni soggettivamente inesistenti – prova di operazioni soggettivamente inesistenti
Rilevato che
Alla E.C. s.r.l. fu notificato l’avviso d’accertamento, relativo all’anno d’imposta 2007, con cui l’Agenzia delle entrate contestò la detrazione dell’iva relativa a fatture emesse dalla Siria s.a.s., ritenuta una società cartiera, e pertanto per operazioni considerate soggettivamente inesistenti.
L’atto impositivo traeva origine da indagini penali sul conto di due società, la Siria appunto e la Antares s.r.l., amministrate dalla medesima persona, considerate soggetti economici privi di struttura aziendale e del tutto omissivi nell’adempimento degli obblighi fiscali dichiarativi e di versamento, deputate alla emissione di fatture per operazioni inesistenti nel commercio di pneumatici. Poiché tra i clienti della Siria compariva l’odierna ricorrente, nei suoi confronti fu elevato l’avviso d’accertamento, ritenendo indetraibile l’iva a credito per l’importo di € 5.294,00.
La società adì la Commissione tributaria provinciale di Avellino, che con sentenza n. 103/01/2014 ne accolse le ragioni annullando l’atto. L’Agenzia delle entrate impugnò la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, che con sentenza n. 11443/17 /2015, depositata il 15 dicembre 2015, accolse l’appello. Il giudice regionale, dopo aver rigettato l’eccezione di inammissibilità del gravame, perché fondato su fatti nuovi e comunque su temi d’indagine del tutto nuovi, ha riconosciuto fondate le ragioni dell’ufficio. Nello specifico, ha inquadrato le operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti ed i profili probatori per la loro emersione e accertamento; ha rilevato che nel caso di specie non fosse controverso che le operazioni fossero “almeno” soggettivamente inesistenti; ha quindi sostenuto che la deducibilità opera solo a condizione che il cedente il bene o il prestatore di servizi abbia annotato l’operazione tra i ricavi; ha ritenuto che, ancorché eseguita l’operazione, ma con persona diversa da quella indicata in fattura, «…la derivazione dei costi da un’attività integrante illecito penale…. comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale….»; ha quindi concluso reputando irrilevanti le prove fondate sulla dimostrazione della regolarità formale delle scritture o delle evidenze contabili dei pagamenti.
La società ha censurato la sentenza con tre motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Nell’adunanza camerale del 13 luglio 2022 la causa è stata riservata e decisa.
La contribuente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis. 1 cod. proc. civ.
Considerato che
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 57 e 53, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., perché nella pronuncia il giudice regionale ha erroneamente respinto l’eccepita inammissibilità dell’appello, per avere l’ufficio introdotto questioni nuove e comunque per non aver formulato motivi specifici avverso la sentenza impugnata.
Il motivo è fondato e trova accoglimento.
Dalla prospettazione dei fatti riportati nel ricorso, nel quale, ai fini dell’autosufficienza, risultano riprodotti sia la parte essenziale della motivazione dell’avviso d’accertamento, sia i passaggi più rilevanti della sentenza di primo grado, sia il contenuto più significativo dell’atto d’appello dell’Agenzia delle entrate (con richiamo specifico degli atti menzionati e delle relative pagine), si evince che: 1) con l’atto impositivo fu contestato alla società il coinvolgimento in operazioni soggettivamente inesistenti; 2) la pronuncia del giudice provinciale, favorevole alla contribuente, esaminò e valutò la controversia nell’alveo della fattispecie relativa alle operazioni soggettivamente inesistenti; 3) con l’appello l’Agenzia delle entrate censurò
la decisione del giudice provinciale evidenziando che «alla luce delle dimostrazioni fornite …è di tutta evidenza che si versa in ipotesi di fatture oggettivamente fittizie e non soggettivamente fittizie, pertanto l’Ufficio ha
titolo a limitare la prova al tratto essenziale senza null’altro dover provare in ordine al soggetto terzo che, eventualmente ha realizzato l’operazione», infine osservando che «la sentenza [ …] non ha colto nel segno laddove [ …], trattando la questione sotto il profilo della soggettiva fittizietà, ha introdotto argomenti che mal si conciliano con la effettività dei fatti e la realtà della vicenda».
Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha avvertito che nel processo tributario d’appello l’Amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice del gravame, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo e, dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto (7 maggio 2014, n. 9810; 10 maggio 2019, n. 12467; 26 febbraio 2020, n. 5160).
Ebbene, dalla lettura della motivazione dell’atto impositivo si evince che l’Amministrazione finanziaria aveva proceduto nel quadro di una fattispecie ricondotta alla contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, fattispecie ben diversa, sul piano sostanziale e probatorio, dalle operazioni oggettivamente inesistenti.
A parte la diversa ricostruzione materiale del fenomeno fiscale perseguito, nell’uno la materiale inesistenza dell’operazione, nell’altro l’esistenza dell’operazione economica in un contesto soggettivo diverso da quello apparente, mutano radicalmente le esigenze probatorie in rapporto ai fatti e all’elemento psichico da dimostrare.
È sufficiente rammentare che, in tema di Iva, quanto alla prova di operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, questa Corte ha affermato che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Quanto invece alle operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria che contesti al contribuente l’indebita detrazione, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo. Peraltro, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229; 14 settembre 2016, n. 18118; 18 ottobre 2021, n. 28628).
Poiché con l’atto impositivo erano state contestate alla contribuente operazioni soggettivamente inesistenti, e poiché il giudice provinciale ha deciso della controversia sulla base delle argomentazioni e prove allegate in merito a quella specifica contestazione, non era dato all’Amministrazione finanziaria apprestare il proprio appello invocando la diversa fattispecie delle operazioni oggettivamente inesistenti, costituendo ciò un radicale mutamento della causa petendi delle pretese fiscali e, ancor prima, la contestazione di una fattispecie del tutto estranea a quella perimetrata nell’avviso d’accertamento.
Il giudice regionale ha pertanto errato laddove, a fronte della eccepita inammissibilità dell’appello, ha ritenuto superabile l’eccezione sull’assunto che «l’appello ….si fonda sempre sugli stessi fatti esposti già in primo grado, sia pure prospettati e analizzati sotto altra angolatura».
L’accoglimento del primo motivo assorbe il secondo, con cui la contribuente si è doluta della nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto alla omessa pronuncia sulla illegittimità/nullità dell’atto impositivo per mancata allegazione degli atti richiamati in motivazione.
Assorbe anche il terzo motivo, con cui la società si è doluta dell’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., incidente sulla dimostrazione della conoscenza o conoscibilità che le operazioni si inserissero in un contesto di evasione dell’iva.
La sentenza va dunque cassata e il giudizio deve essere rinviato alla Commissione tributaria regionale della Campania, perché in altra composizione, ove il ricorso risulti fondato su ulteriori ragioni, provveda all’esame di queste ultime, oltre che a liquidare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, assorbiti il secondo e il terzo. Cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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