Corte di Cassazione ordinanza n. 29800 depositata il 12 ottobre 2022
esenzione per le associazioni sportive dilettantistiche – presupposti – vizio di motivazione
Rilevato che
Alla associazione ricorrente furono notificati gli avvisi d’accertamento con cui, relativamente agli anni d’imposta 2006 e 2007, l’Agenzia delle
entrate rideterminò gli imponibili ai fini Ires, Irap ed Iva, chiedendo il pagamento di € 46.785,92 per il primo anno e di € 74.599,00 per quello successivo, oltre sanzioni.
Gli atti impositivi erano seguiti alla verifica e al processo verbale di constatazione, con cui era stata contestata la natura associativa non commerciale dell’ente, prevista dall’art. 148 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 -con conseguente esclusione delle agevolazioni fiscali e ricalcolo degli elementi attivi e passivi-, nonché presunte entrate non contabilizzate.
L’ente impugnò i due avvisi d’accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Venezia, che con sentenza 31/05/2012 rigettò il ricorso. L’appello introdotto dalla soccombente fu rigettato dalla Commissione tributaria regionale del Veneto con sentenza n. 96/29/2013, ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale, al pari di quello provinciale, ha riconosciuto l’indebita collocazione dell’associazione tra gli enti non commerciali, volta a beneficiare del trattamento fiscale agevolato previsto dalla disciplina dettata dalla I. n. 398 del 1991 e dalla I. n. 289 del 2002. A tal fine ha rilevato che dagli esiti dell’accertamento era emerso che l’attività svolta evidenziava inequivoci aspetti di natura commerciale, destinata solo in misura marginale a quella sportiva. Ha inoltre avvertito che l’accertamento aveva evidenziato irregolarità nella tenuta della contabilità, l’assenza o carente tenuta dei libri sociali, l’incongruente differenza tra il numero dei tesserati e gli iscritti all’elenco dei soci. A tali incongruenze i rappresentanti dell’associazione non avevano saputo contrapporre ragioni che confutassero i rilievi.
L’ente ha censurato la sentenza con due motivi, chiedendone la cassazione anche previa rimessione del giudizio alle sezioni unite, per la particolare importanza della materia. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso, sostenendo l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso.
Nell’adunanza camerale del 10 giugno 2022 la causa è stata discussa e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo la società denuncia la «violazione dell’ART. 148 (ex art. 111) DPR 22/12/1986 n. 917 e D.P.R. 633/1972 in relazione all’ART. 360, n. 3) C.P.C. », quanto all’assoggettamento ad imposizione fiscale piena delle entrate dell’ente, per l’erroneo inquadramento delle attività esplicate dall’ente tra quelle commerciali. La ricorrente insiste sulla sussistenza dei presupposti per beneficiare delle agevolazioni fiscali, trattandosi di ente affiliato ad una associazione nazionale (Associazione Italiana Cultura e Sport), con finalità assistenziali riconosciute dal Ministero dell’Interno; rimarca che non possono essere considerate commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, peraltro descritto dettagliatamente nell’art. 3 dello Statuto, il cui contenuto osserva peraltro tutte le clausole fondamentali previste dall’art. 148 cit. per fruire delle agevolazioni.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha affermato che l’esenzione d’imposta, prevista dall’art. 148 del d.P.R. n. 917 del 1986 in favore delle associazioni non lucrative, dipende non dalla veste giuridica assunta dall’associazione, che costituisce un elemento formale, ma dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro (Cass., 11 dicembre 2012, n. 22578; 5 agosto 2016, n. 16449). E d’altronde le agevolazioni tributarie per gli enti associativi non commerciali, come le associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro, si applicano solo a condizione che esse si conformino concretamente alle clausole riguardanti la vita associativa, che siano inserite nell’atto costitutivo o nello statuto (Cass., 11 marzo 2015, n. 4872; 12 dicembre 2018, n. 32119). Non è determinante dunque il contenuto formale dello statuto o dell’atto costitutivo, che pur è d’obbligo quanto ai principi cui deve conformarsi l’attività, né la mera evidenza delle prescrizioni e regole organizzative (regolarità della tenuta dei libri contabili, regolarità delle iscrizioni dei soci, osservanza del principio di democraticità dell’ente), né la veste giuridica assunta. Quello che invece rileva, ai fini del controllo e delle valutazioni, è l’esplicazione concreta di attività senza fini di lucro, nel perseguimento delle finalità associative.
Le ragioni addotte dalla ricorrente con il primo motivo sono prive di pregio, poiché l’ente invoca in sintesi la propria regolarità formale, la propria affiliazione ad una associazione nazionale, l’adeguatezza delle clausole del proprio statuto o atto costitutivo alle regole e ai principi ispiratori dell’associazione di appartenenza, ed in particolare ai suoi scopi istituzionali, ma ciò non assume rilievo se nel concreto i riscontri conducano a conclusioni opposte.
In conclusione il motivo si limita ad astratte affermazioni di principio, incapaci di identificare quale sia l’errore giuridico addebitabile al giudice d’appello nella interpretazione della disciplina e nella sua concreta applicazione alla fattispecie per cui è causa.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Vizio motivazionale della sentenza impugnata. Erronea valutazione dei presunti elementi indiziari forniti dall’Agenzia delle entrate: ricostruzione errata dei corrispettivi e dei costi derivanti dall’attività di somministrazione di alimenti e bevande».
Il motivo è inammissibile. Alla sentenza, pubblicata l’8 ottobre 2013, trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla I. 7 agosto 2012, n. 134. Con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio di motivazione denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nel caso di specie la Commissione regionale ha identificato, con esposizione concisa ma analitica, gli elementi da cui era evincibile l’attività prevalentemente commerciale dell’ente (esercizio di attività di agriturismo, di ristorazione, di attività tipiche di locale notturno, di country house, con servizi di enogastronomia e messa a disposizione di alloggi), del tutto prevalenti se non estranee alle finalità sportive, queste ultime circoscritte al circuito delle mountin bike. Ha riscontrato l’irregolare tenuta delle scritture contabili (acquisto di prodotti per la ristorazione che non avevano riscontri nelle fatture e nei documenti di trasporto; l’assenza o carenza di tenuta dei libri sociali, le incongruenze tra il numero dei tesserati e quello degli iscritti all’elenco soci). Ha rilevato che i rappresentanti dell’associazione non hanno saputo dare spiegazioni relativamente alle incongruenze o carenze riscontrate.
La pronuncia, condivisibile o meno che sia dal punto di vista degli interessi difensivi della ricorrente, è corredata da una motivazione chiara, analitica, sufficiente, che esula pertanto da critiche riconducibili al vizio di motivazione. In realtà la difesa dell’ente tenta di sollecitare un riesame delle questioni, in fatto e in diritto. Sennonché sotto il primo profilo si tratta di un aspetto riservato al giudice di merito e inibito in sede di legittimità. Sotto il secondo profilo esso esula del tutto dalla denuncia del vizio di motivazione.
Manca peraltro ogni presupposto per qualificare le questioni sottoposte al vaglio di questa Corte come di massima di particolare importanza, e pertanto la fattispecie esula da quanto previsto dall’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.
Il ricorso va dunque rigettato. All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle entrate, che si liquidano in € 5.600,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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