Corte di Cassazione ordinanza n. 30000 depositata il 13 ottobre 2022
non sussiste un obbligo di allegazione della autorizzazione alle indagini bancarie
Rilevato che
L’Agenzia delle entrate notificò a M.M. l’avviso d’accertamento con cui fu rideterminato l’imponibile relativo all’anno d’imposta 2006 ai fini Iva, Irap e Irpef. L’accertamento, eseguito ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, era stato condotto a mezzo di indagini bancarie ex art. 32 del medesimo d.P.R., recuperando la relativa Ires, l’Irap e l’Iva. Fu pertanto determinato il reddito d’impresa nella misura di € 320.852,00 e il volume d’affari nella misura di € 426.710,44.
Il contribuente impugnò l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, che con sentenza n. 288/17/2012 ne accolse in parte le ragioni. Entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente, proposero appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che con sentenza n. 181/20/2013, ora al vaglio di questa Corte, accolse le censure dell’ufficio e rigettò quelle del M.M., così confermando integralmente l’atto impositivo. Il giudice regionale ha respinto la denuncia di illegittimità dell’attività accertativa per omessa allegazione dell’autorizzazione alle indagini bancarie; ha rammentato che l’accertamento era stato condotto con metodo induttivo puro, ai sensi dell’art. 41 cit., utilizzando pertanto anche presunzioni supersemplici, con inversione dell’onere della prova, cui il contribuente non aveva provveduto; ha affermato che alcun rilievo poteva assumere la circostanza che la mancata presentazione della dichiarazione fosse dipesa dalle omissioni del professionista incaricato dal contribuente; ha considerato inconferente la modalità con cui il giudice di prime cure aveva ricostruito ili reddito.
Il contribuente ha censurato la sentenza con sette motivi, chiedendo la cassazione della sentenza, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Nell’adunanza camerale del 18 maggio 2022 la causa è stata trattata e decisa.
Il ricorrente ha depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ. La Procura Generale, nella persona del sostituto procuratore generale dott. Fulvio Troncone, ha chiesto il rigetto clel ricorso.
Considerato che
Con il primo motivo il contribuente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 32 e 42, d.P.R. n. 600 del 1973, 51, d.P.R. n. 633 del 1972, e 7, I. 27 luglio 2000, n. 212 «in ragione della nullità degli atti impositivi per la mancata allegazione ad essi delle autorizzazioni bancarie relative ai conti intestati al contribuente e posti ad esclusivo e decisivo fondamento degli accertamenti opposti», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.;
con il secondo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 42, d.P.R. n. 600 del 1973, 51, d.P.R. n. 633 del 1972, e 7, n. 27 luglio 2000, n. 212 «in quanto il giudice di appello, come già il giudice di primo grado, non ha verificato direttamente l’esistenza in atti di copia delle autorizzazioni bancarie a richiedere alle banche e a91i altri istituti di credito il dettaglio delle operazioni bancarie annotate nei conti correnti intestati al contribuente», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché tra loro connessi. Il ricorrente lamenta l’errore di diritto in cui il giudice regionale sarebbe incorso nell’omettere di attribuire rilevanza alla mancata allegazione dell’autorizzazione all’espletamento dei poteri d’indagine sui rapporti bancari tenuti dal M.M.. I motivi sono infondati.
Deve intanto premettersi che nella esposizione dei motivi il ricorrente denuncia la mancata allegazione -nella fase endoprocedirnentale, nell’atto impositivo e nelle fasi seguenti del contenzioso- dell’autorizzazione all’espletamento di indagini bancarie, senza mai espressamente dolersi della inesistenza in radice di tale autorizzazione, questione ben distinta e che in alcuno dei passaggi difensivi, pur abbondantemente riportati nel lungo ricorso, risulta sia stata mai sollevata. È in ogni caso errata l’affermazione secondo cui l’omessa allegazione del provvedimento autorizzativo condurrebbe alla nullità dell’attività di verifica, e dei successivi atti. Sul punto nella sentenza il giudice d’appello ha sostenuto che l’omessa allegazione non inficia la validità ed efficacia dell’avviso di accertamento, mancando una espressa previsione in tal senso; inoltre ha rilevato che l’accertamento era stato eseguito non solo sul riscontro delle movimentazioni, ma ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 -per mancata presentazione della dichiarazione dei redditi-, con conseguente utilizzo anche di prove supersemplici.
Ebbene, con orientamento ormai da tempo consolidato, tanto con riguardo all’art. 32, comma 7, d.P.R. n. 600 del 1973, in materia di imposte dirette, quanto con riferimento all’art. 51, comma 2, n. 7, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di IVA, questa Corte ha affermato che la mancanza dell’autorizzazione ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia delle movimentazioni dei conti bancari, non implica, in assenza di previsioni specifiche, l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, salvo che ne sia derivato un concreto pregiudizio al contribuente ovvero venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale dello stesso, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio, in quanto detta autorizzazione attiene solo ai rapporti interni ed in materia tributaria non vige il principio, invece sancito dal codice di procedura penale, dell’inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita (Cass., 28 maggio 2018, n. 13353, in materia di imposte dirette; Cass., 1 aprile 2003, n. 4987, in materia di Iva; sulla necessità che l’omissione dell’autorizzazione debba essersi tradotta in un concreto pregiudizio per il contribuente cfr. Cass., 14 aprile 2018, n. 9480).
La giurisprudenza di legittimità ha anche chiarito che non vi sia neppure obbligo di allegazione della autorizzazione. Si è infatti affermato che l’autorizzazione prescritta dall’art. 51, comma 2, n. 7, cit., ai fini dell’espletamento delle indagini bancarie, esplica una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra uffici, e non richiede alcuna motivazione, sicché la sua mancata allegazione ed esibizione all’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite, che può derivare solo dalla sua materiale assenza e sempre che ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente (Cass., 10 febbraio 2017, n. 3628; 21 luglio 2009, n. 16874; 26 settembre 2014, n. 20420). In particolare si è avvertito come < <…l’esibizione tempestiva di tale autorizzazione non è indispensabile neppure ai fini del controllo della motivazione della stessa, considerato che, in tema di accertamento delle imposte sia dirette che indirette, l’autorizzazione necessaria agli Uffici per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi che ne hanno giustificato il rilascio. E ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché in relazione a detta autorizzazione la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto stabilito, invece, per gli accessi e le perquisizioni domiciliari, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52. Ma poi, anche perché la medesima autorizzazione, ad onta del “nomen iuris” adottato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 1, e la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, prevedono l’obbligo di motivazione (cfr. Cass. 14026/12; 5849/12). >>. E conclude affermando che < <Per tali ragioni, pertanto, il fatto che l’autorizzazione in parola non sia stata allegata, è da reputarsi del tutto irrilevante ai fini della validità degli atti impositivi emessi dall’Ufficio, non essendo stati addotti dal contribuente motivi di pregiudizio diversi dalla sindacabilità della motivazione di tale autorizzazione, in relazione alla quale, ….la legge non prevede obbligo alcuno di motivazione.>> (Cass., 36.28/2017 cit., in controversia riguardante Irap ed IVA e dunque con riferimento all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, e all’art. 51 d.P.R. n. 633/1972).
In continuità con i precedenti di questa Corte, che questo Collegio condivide, può affermarsi in conclusione che «in materia di indagini bancarie la mancanza di autorizzazione, prevista dall’art. 32, comma 1, n. 7 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’accertamento delle imposte dirette, e dall’art. 51, comma 2, n. 7 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di imposta sul valore aggiunto, ai fini della richiesta di acquisizione dagli istituti di credito di copia delle movimentazioni dei conti correnti e di qualsiasi rapporto intrattenuto presso banche o operatori finanziari non implica l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, salvo previsioni specifiche e salvo che ne sia derivato un concreto pregiudizio al contribuente; inoltre, esplicando una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra gli uffici, non richiede alcuna motivazione e la sua mancata allegazione ed esibizione all’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso d’accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite».
Nel caso di specie, poiché il contribuente non ha neppure evidenziato quale concreto pregiudizio avrebbe subito dalla mancata allegazione di una autorizzazione, risulta infondata l’eccepita illegittimità degli atti di verifica successivi.
Con il terzo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., «in quanto il giudice di appello non ha verificato e giudicato delle giustificazioni e della prova contraria analiticamente prodotte esaminandole e valutandole in relazione a ciascuna singola movimentazione bancaria in contestazione»;
con il quarto motivo ha denunciato la nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, nonché clegli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., «in quanto il giudice di appello non ha pronunciato sulla sussistenza delle giustificazioni e prove contrarie analiticamente riferite a ciascuna movimentazione bancaria in contestazione»;
con il quinto motivo si è doluto della nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., «in quanto il giudice d’appello non ha motivato che genericamente e globalmente circa la sussistenza di giustificazioni delle movimentazioni bancarie in contestazione utili a vincere la presunzione legale».
I tre motivi possono essere trattati congiuntamente perché connessi dalla critica rivolta alla decisione, sotto il profilo dell’errore di interpretazione delle norme sostanziali, regolanti il governo delle prove presuntive, e processuali, relative all’omessa o all’apparente motivazione, con riguardo al vaglio complessivo delle prove addotte dall’Agenzia ai fini della ricostruzione induttiva del reddito, e delle controprove allegate dal contribuente.
In sintesi la società ha denunciato che, pur essendo state allegate le giustificazioni delle singole movimentazioni bancarie poste a base dell’accertamento, il giudice regionale ha rammentato che l’accertamento de quo era fondato sull’utilizzo di qualsiasi elemento probatorio, facendo ricorso al metodo induttivo puro e dunque anche a prove presuntive supersemplici, così come previsto dall’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, ed ha rilevato che a fronte dell’inversione dell’onere probatorio, a carico dunque del contribuente, questi non aveva fornito la prova contraria.
Dei motivi, che invocando la nullità della decisione sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, e la apparenza della motivazione, denunciano comunque anche il malgoverno delle prove presuntive sotto l’aspetto dell’errore di diritto, è fondato il quinto, con assorbimento del terzo e del quarto, per le ragioni appresso chiarite.
Va intanto ribadito che oggetto della controversia è un accertamento eseguito ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, per il quale si è fatto ricorso al riscontro delle movimentazioni bancarie del contribuente.
Ebbene, questa Corte ha affermato che la presunzione ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 consente all’Ufficio di riferire de plano ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti con-enti bancari del contribuente, cui è fatta salva la prova contraria (Cass., 15 maggio 2013, n. 11624; 27 febbraio 2019, n. 5777). Peraltro, quanto al concreto atteggiarsi dell’onere probatorio, quello dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 cit., attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass., 27 giugno 2011, n. 14041; 26 aprile 2017, n. 10249; 29 luglio 2016, n. 15857; 20 marzo 2019, n. 7758). Non è dunque sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sui conti correnti, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività, con conseguente non rilevanza fiscale (Cass., 18 settembre 2013, n. 21303; 11 marzo 2015, n. 4829). Quello che viene richiesto al contribuente, a fronte delle risultanze bancarie addotte dalla Amministrazione, è la analiticità della prova allegata. La sua specificità ed analiticità consente infatti di superare la presunzione di attribuzione dei versamenti e dei prelevamenti emergenti dal conto corrente dell’imprenditore, perché alla specificità della prova contraria deve far seguito una valutazione ciel giudice altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato dal contribuente (ex multis, Cass., 28 novembre 2018, n. 30786; 5 maggio 2021, n. 11696; 18 novembre 2021, n. 35258; cfr. anche 8 ottobre 2020, n. 21700).
Pertanto, dalla stessa lettura delle norme, secondo la consolidata interpretazione resa dalla giurisprudenza di legittimità sull’art. 32 cit., così come sull’art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, i dati emergenti dall’esame delle movimentazioni bancarie sui conti correnti, a cui l’Amministrazione finanziaria abbia avuto accesso, sono presuntivamente riconducibili ad operazioni economiche del contribuente, e come tali confluiscono direttamente nel suo imponibile. Si tratta tuttavia di presunzione legale relativa, che può essere contrastata dalla prova contraria allegata dal contribuente.
E sotto tale ultimo profilo si è affermato che «al fine del più ampio rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva, nel processo, che sia instaurato a seguito di accertamenti sintetici e induttivi per la determinazione dell’obbligazione fiscale del soggetto giuridico d’imposta, costituisce principio a tutela della parità delle parti quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie a dimostrazione della inesistenza del maggior reddito attribuito dall’Ufficio, deve seguire, ove a quell’onere di allegazione il contribuente abbia provveduto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo. Il principio, a garanzia della parità e del regolare contraddittorio processuale per la corretta definizione del rapporto giuridico d’imposta, è tanto più pervasivo quanto più si rifletta sulla limitazione di accesso nel settore tributario ai mezzi di prova, in parte inibiti dall’art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1992» (Cass., 21700 del 2020 cit.).
Trattasi di un principio che trova applicazione anche in tema di indagini bancarie e della previsione di una presunzione legale relativa in merito alla riconducibilità a reddito delle movimentazioni bancarie rilevate dagli organi accertatori; così come, più in generale, si tratta di un principio che afferisce agli accertamenti induttivi cd. puri, nei quali al potere aco=rtativo esplicato dall’Amministrazione finanziaria anche mediante il solo ricorso a presunzioni pur prive di gravità, precisione e concordanza, così come impone l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, qualora a tale onere questi abbia adempiuto, obbliga l’organo giudicante ad un vaglio altrettanto analitico delle prove presuntive e delle controprove allegate.
Ebbene, nel caso di specie la difesa della società si era concentrata sin dal giudizio di primo grado (con le memorie istruttorie), e poi in sede d’appello, nell’allegazione della documentazione o delle ragioni a giustificazione delle operazioni bancarie riscontrate in sede di verifica. In osservanza del principio di autosufficienza nel ricorso il contribuente ha riprodotto ampi quadri sinottici da cui è dato evincere che ad ogni singola operazione bancaria risultava la fattura (a saldo o in acconto) riportata nella contabilità (cfr. ricorso pp. 35-50). Si tratta di centinaia di operazioni bancarie per le quali la ricostruzione documentale eseguita dal contribuente consente di rapportare le medesime alle fatture riportate in contabilità. Occorreva pertanto una analitica valutazione delle controprove allegate dal ricorrente, che invece la commissione regionale ha del tutto omesso, liquidando con una sintetica valutazione, secondo cui la parte non avrebbe fornito la prova su di lei pur incombente. Ciò quanto meno evidenzia un giudizio apparente, che conseguentemente si riflette sul governo dei principi enunciati in ordine alle prove presuntive supersemplici e all’onere probatorio del contribuente, quando a questo risulta avervi provveduto.
In altri termini sarebbe stato necessario che il giudice regionale, a fronte degli elementi addotti dal contribuente a confutazione delle prove legali acquisite nell’accertamento, analizzasse la prova contraria. Invece di ciò non vi è traccia nella sentenza, che è dunque esposta fondatamente alle critiche mosse nel quinto motivo, per l’apparenza della motivazione. Si tratta di un vizio specificatamente formulato con il quinto motivo, che va accolto e che pertanto diventa assorbente rispetto al terzo ed al quarto.
L’accoglimento del motivo assorbe anche il sesto, con il quale il ricorrente ha denunciato l’omessa o insufficiente motivazione in relazione ad un fatto e ad un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., quanto alla mancata valutazione delle prove contrarie allegate dal contribuente per ciascuna operazione bancaria. Con il settimo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1 e 6 del d.lgs 18 dicembre 1997, n. 472 e della I. 433 del 1995, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., quanto alla generica motivazione sull’applicazione delle sanzioni, senza tener conto delle responsabilità del consulente. Il motivo, che dalla sua formulazione afferisce alle sanzioni applicate per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, va rigettato nei termini appresso chiariti.
Il M.M. ha lamentato che il giudice regionale non abbia tenuto conto della incolpevolezza del contribuente a fronte delle responsabilità acclarate anche in sede penale in capo al consulente, per l’attività professionale esplicata in modo infedele, quanto alla trasmissione telematica della dichiarazione, mai avvenuta. Sennonché la decisione del giudice regionale, dopo aver preso atto della responsabilità del commercialista per il mancato invio telematico della dichiarazione, ha anche riscontrato l’irrilevanza della «presunta buona fede del contribuente che aveva l’obbligo di accertarsi dell’avvenuto invio e farsi consegnare la comunicazione dell’Agenzia delle Entrate attestante l’avvenuto ricevimento della dichiarazione presentata in via telematica». Il giudice d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui in tema di sanzioni amministrative tributarie, l’esimente di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997 si applica in caso di inadempimento al pagamento di un tributo imputabile all’intermediario cui è stato attribuito l’incarico, oltre che della tenuta della contabilità e dell’effettuazione delle dichiarazioni fiscali, di provvedere ai pagamenti, purché il contribuente abbia adempiuto all’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria e non abbia tenuto una condotta colpevole ai sensi dell’art. 5, comma 1, del detto decreto, nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando (cfr. Cass., 7 novembre 2018, n. 28359).
Applicando il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità all’ipotesi della mancata trasmissione telematica della dichiarazione dei redditi, che pertanto è risultata mai presentata, nel caso di specie la censura formulata dal M.M. è del tutto carente., anche solo in termini di mera allegazione e prospettazione, della condotta concretamente tenuta in ordine alla verifica dell’effettiva trasmissione della dichiarazione e dell’avvenuto ricevimento da parte dell’Ufficio, ai fini dell’esclusione di una culpa in vigilando. Manca inoltre ogni riscontro del provvedimento penale che avrebbe acclarato la condotta infedele e omissiva del commercialista incaricato.
Il motivo va pertanto rigettato, facendo comunque salva la sorte delle sanzioni comminate e collegabili non già alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, ma al reddito accertato, in ragione dell’accoglimento del quinto motivo, al cui esito provvederà il giudice del rinvio.
In definitiva la sentenza va cassata, con rinvio del processo alla Corte di giustizia tributaria regionale della Lombardia, che in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del presente giudizio, dovrà riesaminare le ragioni del contribuente, nei limiti dei motivi accolti, facendo applicazione dei principi di diritto dispensati dalla Corte di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo, assorbiti il terzo, il quarto e il sesto, rigetta il primo, il secondo e il settimo. Cassa la sentenza nei limiti dell’accoglimento del ricorso e rinvia alla della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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