Corte di Cassazione ordinanza n. 32438 depositata il 3 novembre 2022
accertamenti bancari – presunzioni – prova contraria del contribuente
Rilevato che:
1. C.V. ricorre, con un unico motivo, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.t.r. della Puglia ha accolto l’appello dell’Ufficio avverso la sentenza con la quale la C.t.p. di Bari aveva accolto, previa riunione, i ricorsi del contribuente avverso gli avvisi di accertamento con i quali, per gli anni di imposta 2006 e 2007, era stato recuperato a tassazione un maggior reddito derivante dall’esercizio della professione di odontoiatra.
2. L’Ufficio, sulla scorta di indagini bancarie svolte nei confronti del contribuente, rilevava accrediti ingiustificati e, a seguito delle dichiarazioni rese dal contribuente e della documentazione prodotta, constatava che per alcun movimenti, puntualmente elencati, non risultava alcun documento giustificativo; che il contribuente aveva giustificato i versamenti mediante le fatture emesse; che, tuttavia, gran parte dei versamenti erano in data antecedente alle fatture, sicché potevano ritenersi giustificati solo quelli per i quali vi era corrispondenza di importi e date.
2. La C.t.p. accoglieva il ricorso.
La C.t.r., per quanto ancora di rilievo, accoglieva l’appello dell’Ufficio e dichiarava «valida la pretesa tributaria» quanto ai soli versamenti. Rilevava, in proposito, che, a fronte dei prospetti prodotti dall’Ufficio, relativi a versamenti di contanti ed assegni, la tesi addotta dal contribuente – il quale aveva sostenuto di aver emesso le fatture in ritardo – non era convincente in quanto: non vi era coincidenza con gli importi versati; la legge imponeva di emettere la fattura al momento della prestazione; gli importi totali delle fatture erano «ricostruiti a posteriori con versamenti parziali». Aggiungeva che, «in ogni caso», l’esimente non era «corroborata da documentazione fattuale, nemmeno contabile, con annotazione del modo con cui è avvenuto il pagamento»; che, inoltre, quanto ai versamenti di assegni non era stata esibita copia dalla quale poter risalire all’emittente; che era
«circostanza avulsa dalla logica accertativa il fatto che il contribuente dichiari ricavi in misura maggiore dei versamenti su conto».
Considerato che:
1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 2697 cod. civ.
Assume che la C.t.r. non ha fatto buon governo del disposto di cui all’art. 32 cit. che consente al contribuente di fornire la prova contraria o dimostrando di aver tenuto conto dei versamenti per la determinazione del reddito o che i detti versamenti non hanno rilevanza ai detti fini. Deduce, in particolare, che aveva dimostrato che le somme versate sui conto correnti erano di gran lunga inferiori a quelle dichiarate; che, quanto ai maggiori redditi recuperati a tassazione, l’Agenzia non aveva accertato che fossero redditi nascosti al Fisco ma solo che non fosse stata rispettata la contestualità tra prestazione ed emissione della fattura; che, tuttavia, le operazioni non giustificate non sono equiparabili alle operazioni fatturate con date diverse (per le quali è prevista diversa sanzione). Assume, pertanto, il vizio della ratio decidendi ravvisato nell’aver esteso alle operazioni asimmetriche la ripresa a tassazione propria di quelle non giustificate.
2. Il motivo non è fondato.
2.1 In ragione della presunzione di cui all’art. 32, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, gli accrediti sui conto correnti bancari sono riferibili a ricavi imponibili imputati all’attività economica del contribuente.
Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, il contribuente che voglia superare la presunzione di cui all’art. 32 cit. – che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ., per le presunzioni semplici — ha l’onere di fornire, non una prova generica, bensì una prova analitica, idonea a dimostrare che i proventi desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere recuperati a tassazione. Tale prova può essere data in due modi: o dimostrando che il contribuente ne ha già tenuto conto nelle dichiarazioni; oppure dimostrando che si sia trattato di movimenti non fiscalmente rilevanti, in quanto non riferiti a operazioni imponibili (Cass. 30/06/2020, n. 13112, Cass. 18/09/2013, n. 21303). Quanto alle modalità tramite le quali assolvere all’onere probatorio, si è precisato che è onere del contribuente indicare e dimostrare la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (Cass. 30/12/2015, n. 26111). Più precisamente, per l’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il contribuente assuma che i singoli accrediti si riferiscono ad operazioni già evidenziate nella dichiarazione dei redditi, è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica di detta riferibilità con riferimento ad ogni singola movimentazione (Cass. 12/11/2014, n. 26018).
2.2 La C.t.r. si è attenuta a questi principi.
La sentenza impugnata ha correttamente enunciato, in maniera conforme ai principi sopra esposti, il criterio di ripartizione dell’onere della prova derivante dall’applicazione dell’art. 32 cit. Di seguito, ha evidenziato che l’Ufficio aveva assolto all’onere probatorio sul medesimo gravante avendo individuate le operazioni bancarie non giustificate. Quanto, poi, alla prova contraria, ha ritenuto non dirimente la circostanza addotta dal contribuente, che assumeva essere solito emettere le fatture in ritardo, evidenziando che non vi era coincidenza quanto agli importi versati. Detto assunto è stato ulteriormente corroborato evidenziando che la motivazione addotta lasciava
«perplessi» sia perché la legge imponeva la fatturazione contestuale, sia perché in tal maniera gli importi delle fatture venivano ricostruiti a posteriori con versamenti parziali. Ha aggiunto che, «in ogni caso», l’assunto non era adeguatamente provato quanto alle modalità con cui era avvenuto il pagamento e che, per di più, quanto agli assegni, la mancata esibizione di una loro copia non consentiva di risalire al mittente.
Così argomentando, la C.t.r. non ha fatto altro che rilevare che il contribuente non aveva fornito prova idonea del fatto che i singoli accrediti si riferissero ad operazioni già evidenziate nella dichiarazione dei redditi in quanto non aveva indicato e dimostrato la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento, tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti.
2.3 Il contribuente sostiene che la C.t.r. avrebbe equiparato le «operazioni cronologicamente asimmetriche» a quella non giustificate.
L’assunto, tuttavia, non coglie la reale ratio decidendi della sentenza impugnata. La sentenza, che pure fa riferimento all’obbligo di fatturazione contestuale, non individua nella sua violazione il presupposto per il recupero a tassazione che, invece, è ravvisato nella mancata e puntuale giustificazione di ciascun accredito; piuttosto afferma che l’assunto – che lascia perplessi in quanto integrante un comportamento non conforme a legge – non è stato provato mediante adeguati riscontri documentali sufficienti a collegare i versamenti alle fatture quanto ad importi, date e mittenti.
2.4 Il contribuente assume, ancora, che la C.t.r. avrebbe errato nel ritenere «circostanza avulsa dalla logica accertativa il fatto che il contribuente dichiari ricavi in misura maggiore del versamento sul conto» avendo dimostrato che le somme versate sui conti bancari erano di gran lunga inferiori a quelle dichiarate.
Anche tale censura non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata. Quest’ultima, infatti, dopo aver correttamente individuato le regole probatorie di cui all’art. 32 cit., ha condivisibilmente escluso che la prova gravante sul contribuente potesse ritenersi assolta solo in ragione del fatto che i compensi dichiarati erano nel complesso maggiori dei versamenti intercettati dall’Ufficio.
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
4. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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