Corte di Cassazione, ordinanza n. 33568 depositata il 15 novembre 2022

inerenza dei costi – l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, essa ultima è tenuta a fornire la prova della propria contestazione

Rilevato che:

1. L’Agenzia delle entrate notificò a Carattere Italiano s.a.s. un avviso di accertamento con il quale recuperava a tassazione un importo corrispondente a costi non deducibili, con conseguente determinazione di un maggior reddito di impresa” in relazione all’anno di imposta 2012.

Un identico atto impositivo fu notificato, per il recupero dei maggiori redditi di partecipazione nella predetta società, ai soci Anna Casaburo, Giuseppina Del Prete e Nicola Del Prete.

2. Il ricorso promosso dalla società avverso l’atto impositivo fu accolto dalla C.T.P. di Caserta con sentenza n. 2722, pubblicata il 29 maggio 2018. Facendo rinvio a tale decisione, la stessa C.T.P., con sentenza 4793 del 2 novembre 2018, accolse il ricorso dei soci.

3. Le due sentenze furono oggetto di separati appelli da parte dell’amministrazione finanziaria. La C.T.R. della Campania, con distinte pronunzie, respinse entrambi i gravami.

I giudici d’appello osservarono in premessa che l’accertamento aveva tratto origine dal fatto che la società Carattere Italiano, esercente l’attività di commercio all’ingrosso di calzature e accessori, aveva dichiarato costi residuali, relativi a provvigioni versate ai rappresentanti, per un ammontare significativo in rapporto a quello dei ricavi.

Di tali costi, una volta ottenuta la contabilità d’impresa, l’Amministrazione aveva ritenuto la sproporzione sulla base dell’eccessività della percentuale di provvigione riconosciuta (pari al 26%) rispetto «alla consuetudine e agli usi>>, e in assenza di documenti contrattuali che la confermassero.

Secondo la C.T.R., all’amministrazione era consentito dubitare della congruità di tali costi e di negarne la deducibilità a fronte della loro sproporzione rispetto ai ricavi; nondimeno, l’Ufficio avrebbe dovuto fornire valida prova di tale assunto, non essendo a ciò sufficiente il rilievo dell’esistenza di usi in senso contrario, ovvero la pretesa di documentare contratti per i quali l’ordinamento non prevede alcun onere formale.

4. L’Agenzia delle entrate ha impugnato la sentenza resa nei confronti dei soci con ricorso per cassazione affidato a due motivi (n.r.g. 11605/2020), e quella resa nei confronti della società con ricorso affidato ad un unico motivo (n.r.g. 11606/2020).

Tutte le parti intimate non hanno svolto difese in questa sede.

Il giudizio n.r.g. 11605/2020, inizialmente assegnato alla sezione sesta, è stato rinviato per la trattazione congiunta con il successivo.

Considerato che:

1. Con il primo motivo del ricorso r.g. 11605/2020, l’Agenzia delle entrate denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 295 cod. proc. civ. e 5, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

Tale ultima norma è richiamata dalla ricorrente nella parte in cui prevede l’imputazione automatica del reddito sociale ai soci proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili. Da tale previsione, l’amministrazione fa discendere la necessità di accertare congiuntamente le diverse posizioni, essendo unico il rapporto tributario.

Su tale presupposto, ed assumendo che, in ogni caso, dovrebbe essere ritenuto pregiudiziale l’accertamento del reddito della società, la ricorrente sostiene che la C.T.R. avrebbe dovuto sospendere il giudizio relativo ai soci fino alla definizione di quello concernente quest’ultima.

2. Con il secondo motivo del ricorso n.r.g. 11605/2020, l’Agenzia denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del d.P.R. 31 dicembre 1986, 917, in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ.

La ricorrente critica la sentenza impugnata in quanto, trascurando il fatto che l’accertamento aveva ad oggetto l’inerenza all’attività di impresa di alcuni costi dedotti, non aveva fatto corretta applicazione del corrispondente riparto dell’onere probatorio stabilito al riguardo, in particolare omettendo di considerare che, a fronte dei propri rilievi, la società contribuente era tenuta a documentare la strumentalità dei beni o servizi connessi ai costi dedotti e la coerenza economica di questi ultimi rispetto ai ricavi esposti in bilancio.

3. L’unico motivo del ricorso n.r.g. 1606/2020, relativo alla società, reitera la censura appena descritta.

4. I ricorsi possono essere riuniti, in quanto evidentemente connessi. 

La riunione consente, peraltro, di ritenere assorbita la censura inerente alla necessità di trattazione congiunta, determinando il venir meno dell’interesse al relativo esame da parte dell’Agenzia delle entrate.

5. Resta, pertanto, lo scrutinio del rimanente mezzo, comune ad entrambi i ricorsi e relativo alla prova dell’inerenza dei costi.

5.1 Al riguardo, la costante giurisprudenza di questa Corte, pur affermando che la nozione di inerenza esprime la concreta riferibilità dei costi sostenuti all’attività d’impresa – anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura – quale esito di una valutazione qualitativa, e non quantitativa, degli stessi (Cass. 30366/2019; Cass. n. 450/2018), ha tuttavia costantemente affermato che l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza (v. ad es. Cass. n. 11324/2022; Cass. 27786/2018).

La possibile rilevanza del dato quantitativo nella valutazione di inerenza di un costo – intesa come congruità di quest’ultimo rispetto ad ulteriori dati contabili dell’impresa, donde possa desumersi la sua correlazione all’attività dell’impresa stessa – si intreccia con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza.

Tale ultimo, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, incombe sul contribuente; si rendono tuttavia necessarie, proprio con riguardo al profilo che qui interessa, alcune precisazioni.

5.2 In particolare, l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, essa ultima è tenuta a fornire la prova della propria contestazione (cfr., fra le altre, Cass. 18904/2018, diffusamente in motivazione).

È in tale prospettiva che assume rilievo la possibile valutazione circa la congruità od antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti ed utilità conseguite.

5.3 In tale ultimo caso, l’Amministrazione non può, ovviamente, spingersi a sindacare le scelte imprenditoriali; l’antieconomicità della spesa richiede, invece, la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta, che va considerata in chiave diacronica, tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (v. Cass. 21869/2016; Cass. n. 13468/2015), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità 1delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257/2017).

Una tale dimostrazione, peraltro, ben può essere fornita anche con ricorso ad elementi indiziari, purché provvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

5.4 Si può, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: «Il principio di inerenza dei costi deducibili, esprimendo una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da valutazioni di natura Tuttavia, l’antieconomicità di un costo intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza. In tale ultimo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, se del caso anche con ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, in particolare evidenziando l’inattendibilità della condotta del contribuente».

5.5 Nel caso di specie, le deduzioni svolte dall’Amministrazione in sede di appello, riportate nel ricorso per ampi stralci, contenevano la contestazione rivolta alla società contribuente, ove si evidenziava che i costi per provvigioni, quantunque intrinsecamente riferibili all’attività d’impresa, non trovavano giustificazione, quanto alla percentuale riconosciuta ai rappresentanti che ne determinava l”ammontare, in base ai documenti contrattuali, e apparivano notevolmente superiori a quelli riconosciuti in forza degli usi.

La C.T.R. ha omesso di verificare se tali allegazioni ed indicazioni consentissero di ritenere assolto l’onere probatorio nei termini prescritti per la fattispecie che qui occupa, come riassunti nel richiamato principio, del quale, pertanto, non ha fatto buon governo.

6. Il motivo va dunque accolto e le sentenze impugnate vanno cassate con rinvio al giudice a quo il quale, in diversa composizione, deciderà conformandosi al principio di diritto indicato, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li accoglie, cassa le sentenze impugnate e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania anche per le spese.