Corte di Cassazione ordinanza n. 34068 depositata il 19 dicembre 2019
accertamento – canoni di locazione finanziario – reddito di impresa
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 372/32/2009 la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli rigettava il ricorso presentato dalla Spa C.I., esercente l’attività di fabbricazione di prodotti chimici, contro l’avviso di accertamento con il quale la Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica eseguita da propri funzionari e conclusa con processo verbale di constatazione, per quanto ancora interessa, aveva ritenuto solo parzialmente deducibili, per l’anno di imposta 2004, quali costi inerenti alla attività di impresa, i canoni di locazione finanziaria in virtù di un contratto in data 10.4.2003 avente ad oggetto un immobile sito in Napoli all’interno di un parco residenziale, per un importo imponibile di euro 251.337,03 per l’anno in considerazione. La società aveva detratto interamente il costo sostenendo trattarsi di immobile strumentale dell’impresa in quanto utilizzato per riunioni con la clientela, mentre invece l’Ufficio aveva recuperato a tassazione i 2/3 dei canoni versati nell’anno in considerazione, disconoscendone la diretta inerenza ai ricavi, in quanto si trattava di un immobile che non costituiva sede neppure secondaria della società, avente tutte le caratteristiche proprie di una civile abitazione e nessuna sembianza di ufficio strumentale per l’attività di impresa ed aveva applicato il trattamento fiscale delle spese di rappresentanza, ai sensi dell’ad. 108 del TUIR, più favorevole alla contribuente rispetto al disconoscimento totale del costo (pag. da 8 a 12 del ricorso per cassazione).
La Commissione Tributaria Provinciale rilevava che quanto emerso in merito all’arredamento ed all’uso cui era destinato l’immobile, sicuramente non per uso ufficio e la mancata comunicazione dell’unità locale alle competenti autorità dimostravano “che l’immobile non era utilizzato ad uso esclusivo aziendale, per cui le relative spese erano di rappresentanza per inerenza, pertinenza e caratteristica e pertanto tassabili ai sensi dell’ad. 108 comma 2 del TUIR” (pag. 13 del ricorso per cassazione); in conseguenza, in parziale accoglimento del ricorso, limitava la deducibilità dei canoni di leasing ad 1/3 in cinque anni (così come già avvenuto con l’avviso di accertamento) e rigettava nel resto il ricorso.
La Commissione Tributaria Regionale della Campania veniva investita dall’appello principale della società C.I. che lamentava, sempre per quanto ancora interessa, la erronea pronuncia della sentenza di primo grado laddove aveva omesso il riconoscimento integrale quale costo dei canoni di leasing afferenti ad un immobile strumentale per natura, posseduto dalla società ed accatastato in categoria A 10, tanto più che la riduzione del terzo era stata già riconosciuta dall’Ufficio accertatore (pag. 16 del ricorso), nonché dall’appello incidentale della Agenzia delle Entrate che chiedeva il rigetto integrale del ricorso introduttivo, in conformità agli argomenti portati dalla sentenza di primo grado a fondamento della mancanza di strumentalità dell’immobile, considerato che il riconoscimento del terzo del costo, quale spesa di rappresentanza, era già avvenuto con l’avviso di accertamento.
Con sentenza n. 327/31/2011, pronunciata il 21.11.2011 e depositata in data 5.12.2011, la Commissione Tributaria Regionale della Campania ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale e compensato le spese del giudizio, rilevando che l’appello principale era infondato poiché l’immobile era destinato per 1/3 ad uso aziendale e per due terzi ad uso diverso da quello aziendale in quanto, pur non rinvenendo in esso un arredamento che potesse consentire di qualificarlo come un ufficio, peraltro vi erano stati rinvenuti alcuni faldoni appoggiati su un mobile ed una dipendente del comparto amministrativo dell’azienda, ma che era infondato anche l’appello incidentale posto che i primi giudici avevano riconosciuto i canoni di leasing solo nella misura di un terzo non essendo l’immobile utilizzato ad esclusivo uso aziendale.
Contro la sentenza della CTR, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione la C.I. Spa con atto notificato in data 22.12.2012 affidato a due motivi. Resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato e dei poteri riconosciuti alle Commissioni Tributarie, ai sensi degli artt. 112 cpc e 7 del D. Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, cpc, per avere i giudici di appello omesso di pronunciarsi (vizio di omessa pronuncia, pag. 35 del ricorso) sulla richiesta deducibilità integrale dei canoni di leasing – fondata con l’atto di appello sulla categoria catastale, A 10, attribuita al cespite e sulla conseguente applicabilità nel caso in esame dell’art. 43 comma 2 del TUIR — poiché la sentenza impugnata aveva posto a fondamento della pronuncia di rigetto una motivazione per cui l’immobile era destinato per 2/3 a finalità diverse da quelle aziendali che non corrispondeva alla giustificazione delle maggiori imposte accertate, addotta dalla Agenzia delle Entrate.
2. Con il secondo motivo deduce omessa, insufficiente, illogica e / o apparente motivazione ed erronea e / o parziale e / o emessa valutazione delle risultanze probatorie e comunque violazione del principio in tema di onere della prova, ai sensi degli artt. 36 del D. Lgs. n. 546 del 1992, 111 della Costituzione e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e 5, cpc, per essere la motivazione della sentenza impugnata non conforme alla documentazione prodotta in causa, alle risultanze probatorie ed al principio di ragionevolezza, poiché, in particolare, non trovava fondamento nelle risultanze di cause la affermazione per cui “l’unità sarebbe stata destinata per i 2/3 ad uso diverso da quello aziendale”.
3. Il primo motivo, a parte un profilo di inammissibilità perché con esso si deducono promiscuamente sia violazione di legge che nullità della sentenza per omessa pronuncia, anche se poi, nello sviluppo della doglianza, la ricorrente pare dolersi esclusivamente della omessa pronuncia sul motivo di appello con cui ero stato richiesto il riconoscimento integrale del costo relativo ai canoni di leasing, è peraltro infondato.
3.1. Il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7653 del 16/05/2012, Rv. 622441 —01; da ultimo Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 4289 del 22/02/2018 Rv. 647135 — 01).
3.2. Occorre quindi che manchi proprio la decisione sul motivo di appello o sulla richiesta della parte, mentre nella specie una risposta vi è stata da parte della sentenza impugnata ed è stata quella di rigetto dell’appello con riguardo allo specifico motivo che aveva proposto la parte e cioè quello concernente la spettanza della deduzione totale del costo relativo ai canoni di leasing, trattandosi di costo asseritamente afferente ad un bene strumentale dell’impresa. Non si deve infatti confondere la omissione di pronuncia con una pronuncia diversa da quella attesa ovvero con una pronuncia ritenuta erronea e cioè vizi diversi da quelli di omessa pronuncia che possono e devono essere dedotti sotto diversi profili. Ed in realtà la ricorrente, pur dolendosi di omessa pronuncia, sostiene poi che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente posto a fondamento della pronuncia di rigetto una motivazione per cui l’immobile era destinato per 2/3 a finalità diverse da quelle aziendali, che non corrispondeva alla giustificazione delle maggiori imposte accertate addotta dalla Agenzia delle Entrate, ma, come già rilevato, la pretesa erroneità della motivazione non poteva costituire il fondamento del vizio denunciato ex art. 360 n. 4 cpc.
3.3. E’ opportuno aggiungere che la sentenza impugnata, pur con espressioni prive di tecnicismo ed improprie, ha nella sostanza sostenuto che non si trattava di immobile strumentale perché mancava di arredamento che potesse consentire di considerarlo un ufficio, mentre poteva ritenersi il suo uso per finalità per la maggior parte diverse da quelle aziendali, nonostante la presenza di alcuni faldoni su un mobile e di una impiegata amministrativa dell’azienda. E ciò, inquadrato correttamente sotto il profilo giuridico, non può essere ritenuto erroneo poiché la interpretazione consolidata dell’art. 40, secondo comma, secondo periodo, del DPR 22 dicembre 1986 n. 917, richiamato dal ricorrente, offerta da questa Corte, è nel senso che “In tema di imposte sui redditi, il riconoscimento del carattere strumentale di un immobile presuppone la prova della funzione strumentale del bene non già in senso oggettivo, bensì in rapporto all’attività dell’azienda, non contemplando tale disposizione una categoria di beni la cui strumentalità è “in re ipsa”, e potendosi prescindere (ai fini dell’accertamento della strumentalità) dall’utilizzo diretto del bene da parte dell’azienda soltanto nel caso in cui risulti provata l’insuscettibilità (senza radicali trasformazioni) di una destinazione del bene diversa da quella accertata in relazione all’attività aziendale (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12999 del 04/06/2007 Rv. 598412 —01; Sez. 5, Sentenza n. 4306 del 04/03/2015 Rv. 634841 — 01).
3.4. In tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’ad. 40 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, gli immobili appartenenti ad imprese commerciali gestite da società di capitali costituiscono, in sostanza, beni strumentali solo se per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa destinazione senza radicali trasformazioni. Ed incombe al contribuente che intenda far valere la natura strumentale dell’immobile l’onere di fornire la prova della sua destinazione esclusiva all’utilizzazione nell’attività propria dell’impresa (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25609 del 01/12/2006 Rv. 594450 — 01; Sez. 5, Sentenza n. 4306 del 04/03/2015 Rv. 634841 — 01; Cass. 2/04/2014, n. 7625 e successive conformi; da ultimo, sempre in senso conforme, Sez. 5 -, Ordinanza n. 33522 del 27/12/2018 Rv. 652062 — 01). Non è quindi erroneo nella sostanza quanto sostenuto dalla sentenza impugnata che ha rigettato l’appello della contribuente poiché non era stato dimostrato in concreto l’effettivo ed esclusivo uso aziendale, posto che il riconoscimento del carattere strumentale di un immobile, ai sensi dell’ad. 40 (poi 43), secondo comma, secondo periodo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, presuppone la prova della funzione strumentale del bene non in senso oggettivo, ma in rapporto all’attività dell’azienda, ad esclusione del caso — che peraltro deve essere ugualmente provato dal contribuente che ne invochi la applicazione — della insuscettibilità (senza radicali trasformazioni) di una destinazione del bene diversa da quella accertata in relazione all’attività aziendale, che non sarebbe neppure astrattamente invocabile nella fattispecie in esame in cui si tratta di un appartamento acquistato in leasing da una società che esercita la attività di fabbricazione di prodotti chimici (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4306 del 04/03/2015 Rv. 634841 —01).
4. Il secondo motivo è inammissibile.
4.1. A parte i profili di inammissibilità derivanti dalla deduzione all’interno dello stesso motivo, congiuntamente, dei vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione senza che sia possibile operare una precisa distinzione tra le due doglianze, il vizio di violazione di legge non è comunque prospettabile nella specie, poiché consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03). Ma anche sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, cpc il ricorso è ugualmente inammissibile.
4.2. L’ad. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e prima della modifica introdotta con D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in l. 11 agosto 2012, n. 143 (non applicabile nella specie ratione temporis poiché la sentenza di appello è stata depositata il 5.12.2011) prevedeva il vizio di motivazione “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, facendo cioè riferimento ad «un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a «questioni» o «argomentazioni» che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate.
4.3. A tale ultimo proposito deve essere evidenziato che, a fronte della formulazione del vizio pregresso, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, prevede “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” non più “circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” bensì circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Trattasi di innovazione di non poco momento, posto che il termine “punto” è un termine atecnico col quale è possibile individuare qualunque fatto, elemento, questione, situazione o circostanza in ordine alla quale la motivazione possa essere viziata, mentre il concetto di fatto è più specifico, sia dal punto di vista naturalistico che da quello giuridico. Secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, i “fatti” in ordine ai quali assume rilievo il vizio di motivazione sono i “fatti principali”, ossia i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso come individuati dall’ad. 2697 c.c., anche se in giurisprudenza vi sono alcune pronunce per le quali assumono rilievo in concreto anche i “fatti secondari”, ossia i fatti affermati dalle parti in funzione di prova dei fatti principali: in ogni caso giammai in dottrina e giurisprudenza si è ritenuto che il termine “fatto” possa, dopo la citata riforma, considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo per fatto intendersi un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico- naturalistico.
4.4. Nel caso in esame la ricorrente si duole molto genericamente, senza alcun riferimento concreto, della circostanza che la motivazione della sentenza impugnata non sia conforme alla documentazione prodotta in causa, alle risultanze probatorie ed al principio di ragionevolezza, per poi specificare che sarebbe erronea la “affermazione” della sentenza di appello per cui “l’unità sarebbe stata destinata per i 2/3 ad uso diverso da quello aziendale”. Nessun riferimento vi è perciò ad un fatto decisivo, espressione che non si riscontra in alcun modo nella esposizione del motivo di ricorso, che è carente innanzitutto in relazione alla illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica dei fatti controversi in relazione ai quali la motivazione si assume viziata, delle ragioni della ritenuta insufficienza, omissione o contraddittorietà della motivazione in ordine ai suddetti fatti, nonché del carattere decisivo dei medesimi, laddove nella specie tutta l’esposizione del motivo risulta generica, mancando l’individuazione di “fatti” controversi in senso tecnico nonché l’evidenziazione del carattere decisivo degli stessi (intesa la decisività nel significato ad essa attribuito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, anche anteriore alla modifica del 2006, ossia come idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinare senz’altro una diversa ricostruzione del fatto, non come idoneità a determinare la mera possibilità o probabilità di una ricostruzione diversa: v. tra le altre Cass. n. 22979 del 2004 e n. 3668 del 2013)
4.5. Eccentrica è infine, rispetto alla censura, la deduzione, evocata in rubrica, della violazione dell’art. 2697 c.c., non essendo nel corpo del motivo prospettata violazione alcuna dei criteri di riparto dell’onere probatorio. Con questa precisazione, la censura è inammissibile, perché s’infrange contro il principio di diritto, applicabile ratione temporis, per cui la previsione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. legittima solo la censura per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, non essendo invece più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (v. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549 — 02).
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo, ferma restando la compensazione delle spese del giudizio di merito già disposta dalla Commissione Tributaria Regionale. Non sussistono, ratione temporis, i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del comma 1 bis dell’art.13 comma 1 quater d.PR n.115/2002.
P.Q.M.
La Corte: Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 7.830,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito.
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