CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 34532 depositata l’ 11 dicembre 2023
Lavoro – Fallimento della società – TFR – Fondo di garanzia – Sospensione del decorso degli interessi – Istanza di ammissione del credito al passivo fallimentare – Rigetto
Rilevato che
1.- La P.P.F. s.n.c. fu dichiarata fallita in data 28/04/1997.
L’INPS – Fondo di garanzia aveva pagato ai dipendenti della società le ultime tre mensilità e il t.f.r., con versamenti eseguiti negli anni 1999-2000, surrogandosi in tal modo nei loro diritti, e aveva recuperato solo in parte tali somme in sede fallimentare.
Pertanto chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo nei confronti di P.A., socio superstite della società, per la somma (non recuperata in sede fallimentare) di euro 67.633,21, oltre oneri accessori di legge calcolati dal 18/07/2013 al saldo.
2.- P.A. proponeva opposizione, fondata su due motivi, uno di natura processuale, volto a contestare la sussistenza, nel ricorso monitorio, di una domanda relativa agli accessori; l’altro di merito, volto a negare la maturazione di interessi durante il periodo di durata della procedura fallimentare, oggetto – a suo dire – di specifica sospensione ai sensi dell’art. 55 L. fall. Eccepiva altresì la parziale prescrizione quinquennale del credito vantato dall’INPS a titolo di accessori.
3.- Il Tribunale di Massa, espletata una consulenza tecnica d’ufficio di tipo contabile, rigettava l’opposizione.
4.- La Corte d’Appello rigettava il gravame interposto dal P..
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) la qualificazione giuridica della domanda spetta al giudice;
b) nel caso in esame nel ricorso monitorio vi è la domanda di condanna al pagamento degli “oneri accessori”, sia pure senza ulteriore specificazione, ma in tal senso è certamente ammissibile in quanto sufficientemente determinata, spettando poi al giudice decidere quali interessi spettino e in quale misura;
c) dagli atti di causa risulta che l’INPS ha partecipato al riparto dell’attivo fallimentare vantando un credito complessivo di euro 122.320,61, comprensivo di rivalutazione monetaria e interessi legali fino al 28/04/1997 (data della dichiarazione di fallimento) e dei soli interessi d) legali da detta data fino al 07/12/2004;
e) quest’ultima – contrariamente alla doglianza dell’appellante, che la dichiara incomprensibile – è la data in cui risulta realizzato l’attivo, come individuata dal curatore fallimentare;
f) da tale data, pertanto, ai sensi dell’allora vigente art. 55 L. fall. è stato sospeso il decorso degli accessori sui crediti privilegiati in sede fallimentare;
g) dal piano di riparto risulta che l’INPS ha percepito l’importo di euro 69.448,61, restando creditore del residuo di euro 52.872,21 per capitale e accessori calcolati fino al 07/12/2004;
h) questa quantificazione della somma non recuperata in sede fallimentare non può essere rimessa in discussione, poiché non impugnata dai falliti (anche i soci della s.n.c.) in sede fallimentare;
i) in ogni caso il CTU nominato in primo grado ne ha verificato la correttezza;
j) la questione sollevata dall’appellante sulla sospensione del decorso degli interessi ex art. 55 L. fall. può essere fatta valere solo in sede fallimentare, ma non pure una volta che il fallito sia tornato in bonis e l’INPS chieda il pagamento del credito residuo rimasto insoddisfatto, perché in tal caso si applicano le regole generali delle obbligazioni, esattamente individuate dal Tribunale nell’art. 1282 c.c., secondo cui i crediti liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto;
k) inoltre, trattandosi di crediti di lavoro, si applica l’art. 429 c.p.c. (che richiama l’art. 1224 c.c. sugli interessi moratori), sicché spettano gli interessi legali sul capitale annualmente rivalutato, a decorrere dai pagamenti eseguiti dall’INPS ai lavoratori fino al saldo;
l) dal calcolo rielaborato dal CTU risulta che il credito dell’INPS sarebbe anche maggiore di quello richiesto in sede monitoria;
m) tale credito non è prescritto, poiché vi è valido atto interruttivo, rappresentato dalla lettera di messa in mora del 29/09/2011, in cui il legale dell’istituto ha chiesto non solo il capitale, ma anche le somme aggiuntive secondo le vigenti disposizioni di legge fino alla data n) dell’effettivo pagamento.
4.- Avverso tale sentenza P.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
5.- INPS in proprio e quale mandatario di SCCI spa ha resistito con controricorso.
Considerato che
1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. il ricorrente denuncia “nullità della sentenza e del procedimento” per violazione degli artt. 99, 112, 125, 163, 164, 633, 638 c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto esistente nel ricorso monitorio ed ammissibile perché sufficientemente determinata la domanda relativa agli interessi.
Lamenta il mancato rispetto del principio di diritto espresso da Cass. sez. un. n. 6538/2010, secondo cui gli interessi, sia moratori, sia corrispettivi o compensativi, hanno un fondamento autonomo rispetto all’obbligazione pecuniaria cui accedono e pertanto possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte, che ne indichi la fonte e la misura, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. Lamenta infine l’omessa considerazione del fatto che, trattandosi di interessi post-fallimentari, era vieppiù necessario indicare sia la fonte del credito per interessi, sia la loro misura e il criterio di calcolo seguito.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che l’interpretazione e la qualificazione giuridica della domanda è attività riservata al giudice del merito, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte (Cass. 22/09/2023, n. 27181), sicché il motivo è sotto tale profilo inammissibile.
Inoltre, contrariamente all’assunto del ricorrente, la Corte territoriale non ha violato il principio di diritto espresso da Cass. sez. un. n. 6538/2010, poiché ha ritenuto sussistente la domanda nel ricorso monitorio e quindi ha escluso che fosse stata accordata una tutela giurisdizionale non richiesta.
Quanto poi alla “fonte”, ha spiegato che si trattava della legge (art. 1282 c.c.) sufficientemente richiamata dall’INPS. Quanto alla “misura”, l’ha ritenuta determinabile sempre per legge ai sensi dell’art. 429 c.p.c.
2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 54, 55, 59 e 120 L. fall., 1173, 1282, 2740, 2749, 2788 e 2855 c.c.; lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
In particolare lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che i creditori, una volta riacquistato il libero esercizio dei loro diritti ex art. 120 L. fall. a seguito della chiusura del fallimento, possano pretendere ai sensi dell’art. 1282 c.c. nei confronti del debitore, tornato in bonis, la parte degli interessi che era rimasta sospesa durante il fallimento.
Il motivo è inammissibile laddove censura la motivazione articolata dalla Corte d’Appello oltre i limiti consentiti dall’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c.; per il resto, è infondato.
In primo luogo va precisato che, trattandosi di credito munito di privilegio generale, ai sensi dell’art. 2749 c.c. (a seguito di C. Cost. n. 162/2001) la sospensione degli interessi opera a decorrere dalla vendita dell’ultimo bene fino alla chiusura del fallimento, ma solo a condizione che la procedura liquidatoria sia tale da soddisfare integralmente il credito privilegiato.
Trova infatti applicazione l’art. 54, co. 3, L. fall. nella formulazione anteriore alla riforma societaria di cui al d.lgs. n. 5/2006, trattandosi – nel caso di specie – di fallimento dichiarato nel 1997. Dunque in quel regime il credito assistito da privilegio generale continua a produrre interessi pur dopo la dichiarazione di fallimento e fino a quando sia stata liquidata una massa attiva sufficiente al soddisfacimento integrale del medesimo credito privilegiato (Cass. ord., 16/03/2018, n. 6587; già Cass. sez. un. 15/03/1982, n. 1670 aveva affermato che “nel caso di privilegio generale, il corso degli interessi cessa integralmente con la liquidazione della attività mobiliari del debitore, se questa si verifichi in unico contesto, ovvero gradualmente e proporzionalmente, se la liquidazione medesima venga effettuata per fasi successive”).
Ne consegue che se il capitale non è stato integralmente soddisfatto, il corso degli interessi non si sospende affatto.
Quindi è errata l’asserita regola di diritto (sospensione degli interessi durante la procedura fallimentare) invocata dal ricorrente come presupposto del suo ragionamento e del suo motivo di ricorso: in relazione al credito residuo dell’INPS (munito di privilegio, vista la surroga dell’istituto nel credito degli ex dipendenti della società dichiarata fallita) durante la procedura fallimentare non si è avuta alcuna sospensione del decorso dei relativi interessi, proprio perché la liquidazione dell’attivo non è stata sufficiente per l’integrale soddisfazione del credito. Quindi è continuata la maturazione degli interessi sulla parte di credito non soddisfatta.
Essendo giuridicamente errato il presupposto da cui muove il ricorrente, errata è altresì la conclusione che pretende di trarne.
3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 54, 55, 59 e 120 L. fall., 1173, 1282, 2740, 2749, 2788 e 2855 c.c., 429 c.p.c. e 3 Cost.; lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
In particolare lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che, trattandosi di credito di lavoro (essendosi l’INPS surrogato ossia sostituito ai lavoratori originariamente creditori), spettino gli interessi sul capitale annualmente rivalutato a decorrere dai pagamenti ai lavoratori al saldo, senza avvedersi che la rivalutazione non decorre a carico del debitore fallito (poi tornato in bonis) a decorrere dal momento in cui lo stato passivo è divenuto definitivo e sino alla chiusura del fallimento.
Il motivo è inammissibile laddove censura la motivazione articolata dalla Corte d’Appello oltre i limiti consentiti dall’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c.
Il motivo è altresì inammissibile per difetto di autosufficienza: il ricorrente non riporta il calcolo effettuato dal consulente tecnico d’ufficio, condiviso dalla Corte d’Appello, né indica in quale punto e a partire da quale data quel calcolo sarebbe errato, sicché questa Corte non è in grado di verificare il denunziato errore di diritto.
In ogni caso va ribadito il principio di diritto già affermato da questa Corte, secondo cui “Alla luce della sentenza n. 204 del 1989 della Corte costituzionale, sui crediti di lavoro dovuti al dipendente di imprenditore dichiarato fallito è dovuta la rivalutazione monetaria anche in riferimento al periodo successivo all’apertura del fallimento, ma soltanto fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo, mentre gli interessi legali sui crediti privilegiati di lavoro nella procedura di fallimento, ai sensi degli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, della legge fall., sono dovuti, senza il limite predetto, dalla maturazione del titolo al saldo” (Cass. 24/07/2014, n. 16927).
Peraltro, dalla motivazione della sentenza di appello (v. p. 7) si evince che la Corte territoriale ha evidenziato che dalla somma richiesta in sede monitoria dall’INPS si evinceva che, per il periodo successivo al 07/12/2004 (data di ultimazione della liquidazione dell’attivo), erano stati calcolati soltanto gli interessi legali. Sicché per tale periodo il motivo è inammissibile anche per difetto di soccombenza con riguardo alla rivalutazione monetaria.
Quanto al periodo anteriore, e fino al 07/12/2004, la Corte territoriale ha evidenziato che il credito (residuo) di euro 52.871,21 (a titolo di capitale ed accessori ex art. 429 c.p.c.) non era stato contestato in sede fallimentare, sicché era divenuto inoppugnabile e incontestabile anche da parte dei soci falliti. Tale argomentazione non è stata impugnata dall’odierno ricorrente (che era uno dei soci falliti) e costituisce un’autonoma ratio decidendi. Ne consegue, per tale parte, un’ulteriore ragione d’inammissibilità del motivo.
Va infatti ribadito che quando la sentenza impugnata con ricorso per cassazione sia fondata su diverse rationes decidendi, ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro una di esse determina l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata (Cass. n. 13880/2020), o comunque per carenza di interesse. Infatti, anche laddove fosse accolto l’unico motivo di ricorso, comunque la sentenza impugnata non potrebbe essere cassata, in quanto autonomamente e sufficientemente sostenuta dall’altra ratio decidendi non censurata.
4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 54, 55, 59 e 120 L. fall., 1173, 1282, 2740, 2749, 2788 e 2855 c.c., 429 c.p.c. e 3 Cost.; lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
In particolare lamenta che la Corte territoriale, riconoscendo anche la rivalutazione “dai pagamenti ai lavoratori al saldo”, sarebbe incorsa in una evidente duplicazione della rivalutazione, che, già conteggiata nel credito insinuato nel fallimento fino al 07/12/2004, sarebbe nuovamente conteggiata sulla parte di credito non soddisfatta dalla data dei pagamenti ai lavoratori fino al saldo.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
Il motivo è inammissibile laddove censura la motivazione articolata dalla Corte d’Appello oltre i limiti consentiti dall’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c.
Il motivo è poi inammissibile per difetto di autosufficienza: il ricorrente non riporta il calcolo effettuato dal consulente tecnico d’ufficio, condiviso dalla Corte d’Appello, né indica in quale punto e a partire da quale data quel calcolo sarebbe errato, sicché questa Corte non è in grado di verificare il denunziato errore di diritto.
Inoltre, dall’esame della motivazione della sentenza impugnata (v. p. 7) si evince l’infondatezza del motivo e della relativa doglianza: contrariamente all’assunto del ricorrente, la Corte territoriale non ha affatto conteggiato due volte la rivalutazione monetaria in relazione ad un medesimo periodo.
Infine, quanto al periodo anteriore, e fino al 07/12/2004, la Corte territoriale ha evidenziato che il credito (residuo) di euro 52.871,21 (a titolo di capitale ed accessori ex art. 429 c.p.c.) non era stato contestato in sede fallimentare, sicché era divenuto inoppugnabile e incontestabile anche da parte dei soci falliti.
Tale argomentazione non è stata impugnata dall’odierno ricorrente (che era uno dei soci falliti) e costituisce un’autonoma ratio decidendi. Ne consegue, per tale parte, un’ulteriore ragione d’inammissibilità del motivo, come già evidenziato in relazione al terzo motivo.
5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1219, co. 1, 2934, 2935, 2936, 2941, 2942, 2943 c.c.; lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
In particolare si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto non prescritto il credito relativo agli interessi, richiamando la lettera del 29/09/2011, che si limitava a pretendere le “somme aggiuntive secondo legge”, senza alcuna ulteriore specificazione.
Il motivo è inammissibile, dal momento che la Corte territoriale ha ritenuto che nella richiesta di “somme aggiuntive secondo legge” fossero concettualmente da ricomprendervi anche gli interessi legali e nessuna censura, sotto il profilo dell’interpretazione di quella missiva, è stata sollevata dal ricorrente con riguardo alle norme sull’ermeneutica negoziale (art. 1362 ss. c.c.).
6.- Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1219, co. 1, 2948, co. 1, n. 4), 2943 c.c.; lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti.
In particolare si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto non prescritto il credito relativo agli interessi, richiamando la lettera del 29/09/2011, ricevuta in data 05/10/2011, senza considerare che, calcolando il quinquennio a ritroso, risultavano comunque prescritti gli interessi maturati dal 07/12/2004 al 05/10/2006.
Il motivo è inammissibile laddove censura la motivazione articolata dalla Corte d’Appello oltre i limiti consentiti dall’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c.
Il motivo è poi inammissibile per difetto di autosufficienza.
Questa Corte ha più volte affermato che la presentazione dell’istanza di ammissione del credito al passivo fallimentare, equiparabile all’atto con cui si inizia un giudizio, determina l’interruzione della prescrizione del credito medesimo, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, in applicazione del principio fissato dall’art. 2945, co. 2, c.c. (Cass. 22/11/1990, n. 11269; Cass. 11/09/1997, n. 8990; Cass. 20/11/2002, n. 16380).
Nel caso in esame il ricorrente precisa solo la data del 07/12/2004, che, secondo la ricostruzione di fatto compiuta dalla Corte territoriale, non censurata sul punto dal ricorrente, è quella del completamento della liquidazione dell’attivo.
Ai fini dell’autosufficienza del motivo, tuttavia, il ricorrente avrebbe dovuto precisare quando si è avuta la chiusura della procedura fallimentare, perché fino a quella data il termine di prescrizione è rimasto sospeso ai sensi dell’art. 2945, co. 2, c.c. Dunque l’esito decisorio è imprescindibilmente condizionato da questa evenienza, che pertanto il ricorrente doveva necessariamente precisare ai fini dell’autosufficienza del motivo. In mancanza, il motivo è inammissibile.
7.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
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