CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 4828 depositata il 16 febbraio 2023
Lavoro – Interposizione fittizia di manodopera – Appalto di manodopera – Esercizio sui lavoratori del potere direttivo ed organizzativo da parte della committente – Autonomia di gestione e organizzazione – Rigetto
Rilevato che
1. A.M.L.F., R.F., V.L., P.B., T.B., M.M., V.C., dipendenti di C. s.p.a. società appaltatrice del servizio di call center presso P.I. s.p.a., convennero in giudizio quest’ultima allegando l’esistenza di una interposizione fittizia di manodopera e chiedendo che si accertasse e dichiarasse l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della convenuta ancora in atto stante l’inesistenza di atti idonei a risolverli.
2. Il Tribunale di Roma rigettò le domande mentre la Corte di appello in riforma della sentenza di primo grado ha ritenuto che tra le parti fosse esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con le decorrenze per ciascun lavoratore specificate e con diritto all’inquadramento nella categoria E.
3. Il giudice di appello ha ritenuto che dall’istruttoria espletata fosse emerso che il servizio reso dai dipendenti della CS era stato a beneficio esclusivo delle Poste che aveva conferito nell’appalto beni di rilevanza tutt’altro che marginale e dai quali non poteva prescindersi per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, il compenso era stato parametrato alle giornate di lavoro effettuate azzerandosi così il rischio economico. Ha poi accertato che le prove testimoniali avevano confermato che il rapporto tra dipendenti C. e dipendenti Poste aveva superato la mera collaborazione ed anzi i dipendenti Poste gestivano in ragione delle esigenze sopravvenute turni e orari di quelli C. e il controllo aveva esorbitato il mero coordinamento ma piuttosto concretizzava una vera e propria gestione indifferenziata di tutte le risorse. Infine, ha escluso che le mansioni svolte fossero riconducibili al superiore livello D rivendicato.
4. Per la cassazione della sentenza ricorre P.I. s.p.a. con quattro motivi. Resistono con controricorso i lavoratori in epigrafe indicati.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che
5. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente, deducendo ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 cod. proc. civ. e dell’art. 1372 cod. civ., censura la sentenza impugnata per avere omesso qualsiasi considerazione e per non avere svolto alcun argomentazione in ordine alla eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, formulata in prime cure e reiterata in appello; argomenta, quindi, nel merito circa il disinteresse dei lavoratori oggi controricorrenti alla prosecuzione del rapporto con P.I. s.p.a. desumibile dalla loro condotta per essere rimasti inerti per ben cinque anni prima di attivarsi per far valere le loro pretese nei confronti della società.
6. Il primo motivo è inammissibile in tutti i profili articolati.
6.1. Dalla esposizione delle ragioni in diritto relative alla dedotta violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. si evince che con tale motivo la odierna ricorrente ha inteso far valere un vizio di attività del giudice di merito riconducibile, quindi, all’ambito dell’art. 360, comma 1, n, 4 cod. proc. civ. e non all’ambito dell’art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., come impropriamente denunziato in rubrica, con indicazione comunque non vincolante al fine della qualificazione del vizio (Cass. n. 12690 del 2018, Cass. n. 14026 del 2012, Cass. n. 7981 del 2007).
6.2. A tal riguardo si osserva comunque che parte ricorrente non ha specificato, come era suo onere, se ed in che termini l’ eccezione di estinzione per comportamento concludente dei rapporti in controversia sia stata formulata in prime cure né come dove e in che termini sia stata reiterata in appello da P.I., vittoriosa in primo grado, nella memoria di costituzione di secondo grado, onde escludere la presunzione \ di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 L 1, cod. proc. civ. (Cass. n. 21124 del 2016, n. 14086 del 2010, n. 1161 del 2003).
6.3. Il difetto di puntuale allegazione e dimostrazione da parte di P.I. di avere manifestato, in seconde cure, in termini chiari e inequivoci la volontà di reiterare la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, rende la doglianza articolata inidonea alla valida censura della decisione impugnata; ciò alla luce del condivisibile orientamento di questa Corte secondo il quale l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato, come nel caso di specie, un “error in procedendo”, presuppone l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di specificità gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell’ “iter” processuale senza compiere generali verifiche degli atti (Cass. n. 23834 del 2019, n. 11738 del 2016).
6.4. Il mancato assolvimento di tale onere da parte della società ricorrente che si è limitata, come detto, ad un generico richiamo alle difese articolate in seconde cure, assorbe la necessità di esame della eccezione di giudicato formulata dalla odierna controricorrente.
6.5. Gli ulteriori profili di censura articolati con il primo motivo, con i quali si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., sono inammissibili per difetto di pertinenza con le ragioni della decisione impugnata in quanto incentrati su considerazioni attinenti al merito della verifica del comportamento concludente della lavoratrice nel senso del disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la società Poste, questione in nessun modo trattata dalla Corte di merito (cfr. Cass. (cfr. Cass. 27/01/2021 n.1754).
7. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960 in relazione all’art. 1655 c.c. e si deduce che la Corte di merito nel riconoscere l’interposizione avrebbe ritenuto erroneamente rilevanti aspetti irrilevanti ed insiti nell’appalto qual è il fatto che la società committente ha beneficiato degli effetti dell’attività lavorativa svolta dai dipendenti della ditta appaltatrice laddove invece ciò che rileva è semmai l’esercizio sui lavoratori del potere direttivo ed organizzativo da parte della committente.
8. Con il terzo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960 in relazione agli artt. 2094 c.c., 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, 2 del d.lgs. n.81 del 2015 avendo valorizzato aspetti secondari quali la remunerazione per ritenere assente in capo all’appaltatrice il rischio d’impresa. Sostiene che gli indici rivelatori della subordinazione e tra questi in particolare l’esercizio sui lavoratori del potere direttivo sono altresì utili e decisivi per individuare l’esistenza di un appalto illecito e la conseguente costituzione del rapporto di lavoro in capo al committente. Deduce che in tal senso depone anche la disciplina successivamente intervenuta (art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 e art. 2 d.lgs. n. 81 del 2015).
9. Con il quarto motivo, deducendo ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 1 legge n. 1369 del 1960, censura la sentenza impugnata in relazione ai parametri utilizzati per la verifica della illecita interposizione. In particolare, assume che nel verificare o meno la sussistenza dei presupposti per la operatività della presunzione di cui all’art. 1 comma 3, legge cit. la Corte di merito aveva omesso di accertare se nell’esecuzione dell’appalto vi era stata ingerenza da parte dei dipendenti di Poste in ordine alle modalità con le quali il personale di C. adempiva alla propria prestazione e si era dato rilievo solo ad alcune delle risultanze istruttorie emerse nel corso del giudizio.
10. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
10.1. La sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi esposti da questa Corte che ha affermato che l’appalto di manodopera vietato dall’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, in mancanza di una definizione normativa, va ricavata tenendo anche conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore. L’ appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’ appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione – da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli -, in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio di impresa relativo al servizio fornito. Peraltro, con riferimento agli appalti cosiddetti “endoaziendali”, che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, va precisato che il richiamato divieto di cui all’art. 1 della legge n. 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’ appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (in questi termini Cass. 21/07/2006 n. 16788).
10.2. Questa Corte – in un caso avente ad oggetto il medesimo appalto deciso in maniera analoga – ha osservato che correttamente si debba ritenere che in tema di appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi è fondamentale il riferimento al requisito dell’autonomia di gestione e organizzazione la cui mancanza non può che collocare il negozio tra quelli vietati. In questa prospettiva condivisibilmente la Corte di merito ha misurato l’illiceità dell’appalto tenendo conto del fatto, da lei concretamente accertato, che la società C. non era dotata di sufficiente organizzazione di impresa impiegata nell’esecuzione dell’appalto e che il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’appaltatrice era stato gestito direttamente da P.I. s.p.a. disponendo quest’ultima delle prestazioni dei lavoratori.
10.3. Si tratta di parametri coerenti con la condivisibile elaborazione giurisprudenziale di legittimità sul tema (cfr. Cass. n. 1754 del 2021). In particolare, la valorizzazione, al fine della esclusione della genuinità dell’appalto, dell’assenza di una organizzazione di impresa impiegata nello stesso e della riferibilità alla committente del concreto esercizio del potere direttivo sui lavoratori formalmente dipendenti dalla appaltatrice si pone in linea con l’insegnamento di questa Corte secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. n. 7820 del 2013; n. 6343 del 2013; n. 19920 del 2011, n. 7898 del 2011, n. 11720 del 2009, n. 16788 del 2006).
10.4. Ne consegue che è priva di pregio la doglianza della ricorrente in ordine alla mancata verifica da parte della Corte di merito della proprietà dei mezzi utilizzati da C. s.p.a. nell’esecuzione dell’appalto, costituendo tale verifica elemento imprescindibile solo in ipotesi di accertamento fondato sulla presunzione di cui all’art. 1 comma 3, Legge n. 1369/1960, accertamento estraneo alle ragioni alla base del decisum.
10.5. La ricostruzione della Corte di merito secondo la quale la esecuzione dell’appalto era stata realizzata in assenza di organizzazione effettiva ed autonoma in capo alla società appaltatrice e con assoggettamento dei relativi dipendenti alla direzione tecnica ed al controllo della committente Poste, costituisce accertamento di fatto, astrattamente incrinabile, alla stregua del novellato art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto storico, di rilevanza decisiva, oggetto di discussione tra le parti (ex plurimis, v. Cass. Sez. Un. n. 8053 del 2014), deduzione questa che non è stata neppure formulata dalla odierna ricorrente.
11. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 6.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto
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